giovedì 30 aprile 2009

dura la vita del critico...


Questa è una recensione a un disco uscito l'anno scorso. Ometto nomi e titoli perché si dice il peccato, non il peccatore.

“Contaminazione” suona sempre come una brutta parola, però è proprio questo che i XXX fanno da una decina d’anni, accostando David Bowie e il jazz, Bob Marley e la musica classica, Enrico Rava e gli Area. “YYY” è il primo disco in cui si misurano con materiale esclusivamente jazzistico. Il lavoro precedente, “ZZZ”, segnava un nuovo inizio dopo l’abbandono del frontman ***, le cui acrobazie vocali avevano segnato le performance del gruppo. La nuova cantante &&& portava una perizia tecnica altrettanto elevata, ma una personalità meno istrionica e debordante. Qui al nucleo storico si aggiungono ospiti di ottimo livello, che assicurano al disco la qualità sonora usuale per i lavori dei XXX. Quello che manca, invece, è quel guizzo, quell’ironia, quella capacità dissacrante che in passato aveva permesso loro di portare la pratica della cover a livelli di pura arte. I temi di ??? sono rivestiti di una timbrica nuova e insolita, di assolo spesso anche molto riusciti, di un’esecuzione inappuntabile, ma il contenuto resta sostanzialmente lo stesso. Insomma, un bel disco, ma ci saremmo aspettati qualcosina in più.

Fossi un musicista, sarei contento di una recensione del genere, che oltretutto portava una valutazione di 3 stelle (su 5).
Beh, ci credete che il manager del gruppo, incontrato a una conferenza stampa, si è lamentato della recensione affermando (parole testuali): "Certo che voi di Jazzit non ci avete mica trattato tanto bene..."?

the king speaks

(dal blog di Tito Faraci):

La direttrice della biblioteca si rivolse all’uomo seduto accanto a lei, che casualmente era Jack Kirby, e gli chiese se pensasse che i fumetti riflettessero la realtà. “No,” rispose Jack, “niente affatto. La trascendono.”
La risposta lasciò perplessa la direttrice. “Se si preoccupassero di rifletterla, forse aiuterebbero le persone a capirla.”
Jack masticò un pezzo di formaggio riservando alla donna una di quelle sue occhiatacce, come doveva avere imparato a fare nei vicoli di Brooklyn o sulla spiaggia di Omaha Beach.
“Signora,” disse, “se lei guarda un riflesso, vede la realtà al contrario. Trascendendo, invece, si ottiene un quadro ben più preciso di com’è veramente la situazione.
"
"Kirby, King of Comics", di Mark Evanier

mercoledì 29 aprile 2009

programma umbria jazz 2009


Il programma di UJ 2009 è stato presentato proprio stamattina ed è già disponibile in pdf sul sito del festival. In effetti gli eventi principali erano già stati annunciati da tempo e si è trattato solo di definire date, luoghi ed eventi secondari.
Che dire?
Ormai sono anni che non c'è più bisogno di essere Nostradamus per azzeccare al 90-95% i programmi di UJ: un tot di eventi pop/blues/rock/r'n'b in prima serata al Santa Giuliana, un tot di eventi per "puristi" nei teatri, qualche italiano di mattina presto, o di pomeriggio, o in seconda-terza serata, e qua e là qualche concerto interessante. Del resto, i programmi dei grossi festival, ormai, sono in buona parte fotocopie l'uno dell'altro. Business is business, e perché mai UJ dovrebbe fare eccezione?
Chi vuole la sperimentazione, ha sempre i piccoli festival.

Per venire a UJ, il Santa Giuliana è come sempre feudo di artisti di grido (e anche, bisogna ammetterlo, in buona parte di ottimo livello): Paolo Conte, gli Steely Dan, i Simply Red, Maceo Parker, Solomon Burke, Burt Bacharach, George Benson con un tributo a Nat King Cole, James Taylor con una band di bravissimi jazzisti, B. B. King. Un po' di jazz tanto per far figura: un inedito duetto Chick Corea/Stefano Bollani (e ti pareva che non c'era Bollani, e lo dice uno che lo adora) e Wynton Marsalis con la LCJO e Francesco Cafiso (e ti pareva che non c'era Cafiso, che sarà bravo, bravissimo, ma ormai è peggio del prezzemolo).
Ogni sera, sempre al Santa Giuliana, esibizione di Tuck & Patti prima del concerto.

Gli italiani sono sempre i soliti (bravissimi) noti: Sellani, Rava, i Funk Off, Pieranunzi, Gatto, Mirabassi. C'è anche Gino Paoli in un progetto jazz con Danilo Rea, e i Quintorigo in un omaggio a Mingus, di cui ricorre il trentennale della scomparsa.
Giovanni Guidi, giovane fenomeno del jazz italiano (ha 22 anni) si esibirà il 10 con Enrico Rava, il 12 mattina in trio con Ponticelli e Sferra e il 12 sera nella "Cosmic Band" di Petrella.
Tra gli stranieri, Richard Galliano con Gonzalo Rubalcaba, Joe Locke in trio con Dado Moroni e Rosario Giuliani, il sempreverde Ahmad Jamal, McCoy Tyner con Bill Frisell come ospite speciale, John Scofield che presenta il suo ultimo progetto sul gospel, la Mingus Big Band, Dave Douglas, il trio di Roy Haines.
Tutti di mattina, pomeriggio o sera tardi.

Però due eventi sono assolutamente da non perdere: venerdì 17 luglio alle 17 al Morlacchi c'è Cecil Taylor, per la prima volta a Perugia nell'anno del suo ottantesimo compleanno (auguri al genio).
E i sei-giorni-sei in cui UJ darà campo libero ai musicisti chicagoani dell'AACM, che si esibiranno in due concerti al giorno, uno pomeridiano e uno notturno: saranno ben 21 i musicisti che, sotto la direzione di George Lewis, si alterneranno in progetti ancora top-secret, anche perché probabilmente saranno in buona parte improvvisati sul palco.
Tanto di cappello all'iniziativa.

In più, la solita pletora di esibizioni gratuite nelle piazze, tra le quali però c'è da segnalare almeno una cosa: domenica 19 luglio alle 19, in piazza IV novembre, suoneranno gli Juakali Drummers, un gruppo di ragazzi keniani. Si tratta di un progetto in collaborazione con l'AMREF, che sta cercando di recuperare, attraverso la musica, i ragazzi di strada, gli orfani di guerra, insomma tutti quei bambini che sarebbero altrimenti destinati a fare da carne da macello per i soliti eterni mali dell'Africa (sfruttamento, schiavitù, guerre civili, malattie, fame, lavoro minorile, eccetera eccetera). Con loro e per loro si esibiranno anche Giovanni Hidalgo e Horacio "El Negro" Hernandez, che hanno accettato di suonare praticamente gratis, apposta per questo progetto.
Di nuovo, tanto di cappello.

"i poeti sono matti..."

Cosicché, Sancho, per l'amore che io le porto, Dulcinea del Toboso vale come la più eccelsa principessa della terra. Del resto, non tutti i poeti che celebrano dame sotto un nome ch'essi pongono loro a proprio arbitrio, ce le hanno effettivamente. Credi tu che le Amarili, le Filli, le Silvie, le Diane, le Galatee, le Fillidi, ed altre di cui sono pieni i libri, i romances, le botteghe dei barbieri, i teatri, siano state realmente creature in carne e ossa e di coloro che le celebrano e le celebrarono? No, di certo; la maggior parte, invece, se le inventano per dar materia ai loro versi e per essere creduti innamorati o uomini capaci di esserlo. E così, a me basta pensare e credere che la buona Aldonza Lorenza sia bella e virtuosa; il fatto della stirpe poco importa, perché non c'è necessità di informarsene per insignirla di qualche onorificenza e io, per me, la considero la più eccelsa principessa del mondo.
Don Chisciotte, parte I, cap. XXV

martedì 28 aprile 2009

i racconti dell'età del jazz 3 - billy tipton


Oggi vorrei parlarvi di un musicista che probabilmente non avete mai sentito nominare, che non aveva un particolare talento, non ha fatto dischi memorabili ed è diventato famoso, dopo morto, per motivi che c'entrano poco o niente con la musica.
Si chiamava Billy Tipton, era un pianista e sassofonista, era nato nel 1914 e morì nel 1989 per un'emorragia causata da un'ulcera non curata.
Quel che si scoprì dopo la morte, e che Billy era riuscito a tenere segreto per quasi cinquant'anni, è che non si trattava di un uomo, ma di una donna. Nata, per la precisione, Dorothy Lucille Tipton, e vissuta en travesti per buona parte della sua esistenza...
(continua su "La poesia e lo spirito")

lunedì 27 aprile 2009

italo calvino 6 - Calvino e il Sessantotto


Sesto estratto dalla mia tesi di laurea.
I capitoli precedenti:
0. introduzione
1. la fine dell'impegno (1974-1985)
2. la belle époque inaspettata
3. Pavese se ne va
4. Vittorini e l'utopia
5. Eremita a Parigi


* * *

Per Calvino, Parigi non fu solo un “eremo” in cui ritirarsi, ma significò anche il rifiuto di ogni visione campanilistica della cultura: “cos’è questa contrapposizione tra cultura italiana e “estero” - scriveva nel ‘69 a Gianni Celati -, oggi che ognuno studia quel che gli pare, appartiene alla cultura che sceglie?”. I suoi contatti con la cultura francese vanno dal dibattito filosofico (Derrida, Lacan) alla semiologia di Barthes e di Greimas, dall’antropologia di Lévi-Strauss alla ricerca letteraria dei gruppi di “Tel Quel” e dell’Ou.Li.Po. (soprattutto Queneau e Perec, e attraverso di loro anche Jarry e Roussel), fino a intellettuali come Foucault, Leiris e Blanchot, anche se Calvino, con il suo solito spirito empirico, dichiarava di provare interesse per discipline come la semiotica, ma diffidenza per ogni tipo di sapere che avesse ambizioni totalizzanti:

Io non sono mai stato capace d’accettare un linguaggio codificato, sento subito il bisogno di romperlo, di dire le cose in un’altra maniera, ossia di dire altre cose. [...] Insomma non è che stando a Parigi mi senta spinto a seguire dall’interno lo sviluppo delle varie scuole, settimana per settimana. [...] Sono le ricerche che non hanno una suggestione letteraria diretta, che mi interessano di più [...]. Ma siamo sempre lì, sono cose che un empirico come me non può permettersi, bisogna adottare quel modo di pensare e lasciar perdere tutto il resto, e io non sono mai stato capace di pensare una cosa per volta, penso sempre qualcosa e il suo contrario, quindi è inutile che mi ci metta.

Inoltre, anche se in questo periodo scarseggiano gli interventi diretti sulle pagine dei periodici, che erano stati il principale campo d’azione del Calvino critico fino a tutti gli anni Sessanta e che riprenderanno nel ‘74 sul “Corriere della Sera”, l’atteggiamento verso gli avvenimenti di questi anni risulta ben lontano dall’ “estraneità” di cui parla Ferretti.
Gianni Celati, che in questo giro d’anni fu molto vicino a Calvino, racconta di averlo incontrato a Urbino nell’estate del ‘68 e di averlo visto entusiasta degli avvenimenti del maggio di quell’anno:

Per tre giorni abbiamo parlato quasi ininterrottamente e lui era ancora eccitato da quello che aveva visto durante le giornate di maggio a Parigi. Ne parlava con straordinario entusiasmo; diceva che era andato in giro per le strade con un senso di liberazione; e mi raccontava che gli psicanalisti parigini durante quelle giornate avevano perso tutta la clientela; e infine mi spiegava la sua sensazione di essersi levato dei pesi di dosso, e che adesso si sentiva di “voltare pagina”.

L’articolo Per una letteratura che chieda di più (Vittorini e il Sessantotto) individua nel maggio parigino la stessa istanza antiautoritaria che aveva animato Vittorini (nell’intervista con Camon, Calvino dichiarerà che “Vittorini era morto alla vigilia d’un momento che sarebbe stato il suo momento [...]. La spinta antirepressiva, antiautoritaria era stata il suo motivo costante, fino all’ultimo. [...] La sua presenza [...] avrebbe dato a questo periodo una dimensione che poteva avere e non ha avuto”). La reazione di Calvino a quegli avvenimenti fu la voglia di rilanciare un’idea di letteratura che riuscisse a dire qualcosa di veramente nuovo, rispetto al tran-tran della “industria culturale”:

Nella letteratura c’è la diffusa sensazione d’un fallimento, d’una voglia di ricominciare da zero [...]. Se la letteratura è vissuta come ragione rivoluzionaria (come pare lo sia nella gioventù francese, a livello di massa, non di leaders) lo è come richiesta ancora da assolvere, esigenza in larga parte in bianco, pagina ancora da scrivere [...]
Così vedo la letteratura che caratterizzerà l’inizio di secolo che ora stiamo vivendo: come discorso che conta per l’esigenza su cui si apre, e non per il modo in cui può soddisfarla. Una letteratura che deve servire ad alzare continuamente la posta.

Proprio in questi anni (dal 1968 al 1972) Calvino aveva raccolto un gruppo di giovani intellettuali (“negli ultimi anni gli amici con cui discuto con soddisfazione sono tutti molto più giovani di me” affermava nell’intervista con Camon) che comprendeva tra gli altri Gianni Celati, Carlo Neri e Carlo Ginzburg; con loro progettava una rivista che avrebbe dovuto esprimere tali esigenze. Di questo progetto, Mario Barenghi sottolineava l’importanza in quanto “anello mancante della catena dell’impegno calviniano”, “stazione intermedia tra l’esperienza interrotta del «Menabò» [...] e una stagione successiva, caratterizzata da un lato dalla collaborazione individuale con i grandi giornali italiani, dall’altro [...] dalla partecipazione [...] a un movimento letterario assolutamente sui generis come il parigino Oulipo”.
Anche se la rivista non uscì mai, gli scritti calviniani ad essa collegati, insieme a tutto il materiale preparatorio, recentemente pubblicato1, consentono di farsi un’idea piuttosto precisa di quale dovesse essere il suo indirizzo e di comprendere meglio gli orientamenti teorici di questi anni: ad essa si collegano, infatti, oltre a Lo sguardo dell’archeologo, già edito in Una pietra sopra, e a un breve testo pubblicato nel Meridiano Mondadori dei Saggi (pp. 1710-17) col titolo Un progetto di rivista, anche scritti importanti, come la recensione del ‘69 all’Anatomia della critica di Northrop Frye e quella del ‘70 al Dostoevskij di Michail Bachtin, tradotto due anni prima - autori di cui Calvino discute ampiamente nelle lettere a Celati - oltre a una, più tarda, a Spie: radici di un paradigma indiziario di Carlo Ginzburg (pubblicato su “la Repubblica” del 20-21 gennaio 1980); inoltre, molti pezzi poi compresi in Una pietra sopra (Il sesso e il riso, Il romanzo come spettacolo) riecheggiano i temi che avrebbero dovuto entrare a far parte della rivista.
Sono articoli che vengono a delineare quell’idea “antropologica” di letteratura come “repertorio del narrabile”, “combinatoria di archetipi”, che Calvino andava sviluppando in questi anni .

In definitiva, si può dire che, nonostante il “romitaggio” parigino e l’eclisse di quella figura di intellettuale militante che aveva incarnato per oltre un ventennio, Calvino fosse ancora lontano dall’estraniarsi dalla realtà contemporanea e dal rinchiudersi nella perfezione di un “mondo scritto” senza più contatti con il “mondo non scritto”. Come vedremo in questo capitolo, il discorso critico di questi anni continua sempre a fare i conti con la politica, a voler delineare una nuova idea di società, anche se l’utopia sarà costretta, di fronte alla caoticità del mondo, a ritirarsi sempre più nell’ordine astratto e smaterializzato della pagina scritta.

domenica 26 aprile 2009

recensioni in pillole 13: "Novecento"

Alessandro Baricco, “Novecento”, Feltrinelli 2008 (prima ed. 1994), 5 €, 62 pagg.

Non sto a raccontare le varie circostanze che mi hanno portato a leggere “Novecento”. Dico solo che includono alcune recenti letture di critica musicale relative al jazz, un articolo su Jelly Roll Morton che sto scrivendo, alcune discussioni su questo blog, una discussione su un altro blog relativa alla (per me bruttissima) versione cinematografica che ne fece Tornatore, e un'altra su un altro blog ancora, relativa alla parodia disneyana realizzata da Faraci e Cavazzano, peraltro in collaborazione con lo stesso Baricco.
Premetto che finora l'unico romanzo di Baricco che avevo letto era “Oceano Mare”, e l'esperienza non era stata delle migliori: anzi, per dirla tutta, una delle peggiori sòle della mia vita. Per essere precisi, dovrei anche premettere che “rileggo” “Novecento”, ma la lettura che gli diedi, una dozzina d'anni fa, fu talmente superficiale e frettolosa che non mi è rimasto praticamente nulla.
Come sempre, ho cercato di leggere senza preconcetti. E fra i preconcetti va inclusa anche la mia personale insofferenza per lo stile di Baricco, con quello stillicidio di frasette asmatiche in simil-parlato che mi sanno tanto di affettazione, magari con qualche “cazzo” o “fottuto” qua e là, che fa sempre simpatico. È una mia idiosincrasia, e prendetela per quel che è; però devo ammettere che qui quello stile funziona molto meglio che altrove.
Ho cercato di non trasporre sul libro l'irritazione che mi aveva suscitato il film, e in ciò sono stato aiutato dal fatto che nel libro la musica suonata da Danny Boodman T. D. Lemon Novecento non si sente, e ognuno può immaginarsela come vuole, il che costituisce un indubbio vantaggio del libro sul film.
Ho cercato anche di non considerare il fatto, abbastanza lampante, che Baricco non capisce una mazza di jazz, a parte qualche luogo comune riciclato da chissà quale bignamino (il blues, i campi di cotone, i bordelli, fino al famigerato “se non sai che cos'è, allora è jazz”, di cui ho già parlato più volte). Però la scena con Jelly Roll Morton, nel libro, è molto meno offensiva che nel film, dove il povero Morton è definito senza mezzi termini “un coglione” e viene “sconfitto” da un volgare sbatacchiatore di pianoforti.
Alla fine, quel che mi è rimasto di “Novecento” è una bella storia, che si fa leggere con piacere. Di Baricco si può dire tutto il male possibile, ma una cosa va riconosciuta: è un affabulatore, e quando racconta sa come tenerti incollato alla pagina.

sabato 25 aprile 2009

da che parte stiamo



(Meglio essere chiari, di questi tempi.)

Canto degli ultimi partigiani

Sulla spalletta del ponte
Le teste degli impiccati
Nell'acqua della fonte
La bava degli impiccati.

Sul lastrico del mercato
Le unghie dei fucilati
Sull'erba secca del prato
I denti dei fucilati.

Mordere l'aria mordere i sassi
La nostra carne non è più d'uomini
Mordere l'aria mordere i sassi
Il nostro cuore non è più d'uomini.

Ma noi s'è letta negli occhi dei morti
E sulla terra faremo libertà
Ma l'hanno stretta i pugni dei morti
La giustizia che si farà.
Franco Fortini

* * *

Il periodo clandestino

Fu un amore, amici,
che doveva finire;
credemmo che gli uomini fossero santi,
i cattivi uccisi da noi,
credemmo diventasse tutta festa e perdono,
le piante stormissero fanfare di verde,
la morte premio che brilla
come sul petto del bambino
la medaglia alle scuole elementari.
Con pena, con lunga ritrosia,
ci ricredemmo.
Rimane in noi il giglio di quell'amore.

Mario Tobino

venerdì 24 aprile 2009

il piccolo ranger

Anche dopo venticinque anni di fedele lettura di Tex Willer, non avrei mai il coraggio di farmi infilare nella spalla un coltellaccio arroventato sul fuoco da campo, per estrarre la pallottola del desperado o la punta di freccia Apache.
Però prendere un ago, tenerlo sulla fiamma del gas finché diventa rosso e poi bianco, immergerlo nel disinfettante, poi prendere la lente di ingrandimento e puntarla sul polpastrello, individuare il minuscolo foro d'entrata, divaricare a poco a poco la pelle, seguire il canale fino a trovare, in fondo, il microscopico frammento di spina del Crataegus annidato lì da due giorni, estrarlo, e poi raccontare tutto a mia moglie godendosi il suo sguardo femminilmente inorridito, è già una bella soddisfazione.

giovedì 23 aprile 2009

perché?

In un tempo non molto lontano (pochi anni, se non pochi mesi fa), quando si parlava di Israele e Palestina sapevo subito da che parte stare, a chi dare ragione, senza avere dubbi.
E allora perché più passa il tempo, più cresce in me l'inquietante sensazione che, in quel conflitto, abbiano torto tutti?

(Lo so cosa mi direte: che ci sono i morti, che c'è gente senza casa, vedove, orfani, da entrambe le parti. Ma quelle sono le vittime: e le vittime hanno sempre ragione, e i morti devono essere giudicati da Qualcuno, se c'è, che non sono io.
Io parlo di chi la guerra la fa, la combatte, la vuole, la fomenta, la predica. Di chi, da entrambe le parti, preme il grilletto, reale o metaforico che sia).

tessere


Ormai sono un po' di anni che scrivo sui giornali. Una decina circa, credo.
Quando ho cominciato, il direttore del primo giornale su cui scrivevo (un piccolo foglio di cronaca locale, destinato soprattutto agli studenti universitari) mi aveva proposto di fare la tessera da pubblicista, poi smisi di collaborare prima di raggiungere i due anni necessari a fare la richiesta, e in seguito non ci ho pensato più. Quindi non sono né pubblicista, né tantomeno giornalista.
Per anni mi sono detto che ero felice di non appartenere alla stessa categoria di Emilio Fede, Gianni Riotta, Aldo Biscardi, Maurizio Mosca, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Mario Giordano per non parlare di altra gentaglia che è o è stata tesserata all'Ordine, come Italo Bocchino (nomen omen), Giulio Andreotti e Loredana Lecciso (ebbene sì).
Oggi, dopo due settimane di servizi dall'Aquila in cui si è visto di tutto - pianti, lacrime, "grandi emozioni", nonnine salvate, cagnette salvate, bimbi partoriti nella tendopoli, matrimoni tra terremotati, persone a cui era appena morto un parente che si sentivano chiedere "come si sente in questo momento?", inviati che svegliavano la gente nelle macchine, che bloccavano i soccorsi per fare riprese, che litigavano con la gente che li scacciava dalle tendopoli, tutto, tutto, tranne uno straccio di servizio sulle vere responsabilità del disastro - dopo tutto questo, insomma, sono ancor più felice di non potermi dire giornalista.

vero o falso?


Ricordate quando Alemanno fu eletto sindaco di Roma e i suoi amichetti lo salutarono con le braccia tese in inequivocabili saluti romani?
Beh, adesso pare sia tutto falso.
O era un'allucinazione collettiva, oppure una trama dei soliti comunisti.

ancora billie...



Segnalo, su Nazione Indiana, un bell'articolo di Vincenzo Martorella sugli ultimi giorni di Billie Holiday.

aggrottamenti

Di Davide Rondoni avevo una brutta opinione già prima.
Durante il caso-Englaro, o quando si discuteva di fecondazione assistita, era un giorno sì e l'altro pure al TG, a smitragliare opinioni su qualunque argomento, basta che ci si potessero infilare parole come "Dio", "Chiesa" o "difesa della vita", sempre con l'aria aggrottata di chi vede la decadenza del moderno ma non rinuncia a combatterla, in genere contrapposto a uno dei soliti onnipresenti di sinistra (stile Odifreddi, per intenderci) nel solito trito siparietto ateo vs credente... Tutto ciò mi era bastato per farmene un'idea abbastanza precisa.
Ora scopro che ha scritto la prefazione per una raccolta di poesie di Sandro Bondi (date un'occhiata qui, se volete farvi quattro risate con un assaggio di sana perfidia).
Insomma, mi accorgo che avevo ragione. Azioni come questa ti segnano il karma per una decina di vite.
Rondoni è un poeta. Non ho mai letto niente di suo, ma spero almeno che sia un buon poeta (succede: si può essere dei coglioni e dei bravi poeti, e non sono affatto ironico).

mercoledì 22 aprile 2009

rabbie quotidiane


In autobus, stamattina verso le undici.
Fermata della stazione: salgono i controllori e iniziano a guardare i biglietti. Una signora di mezza età consegna il suo e il controllore le obietta che è scaduto. La signora dice che era valido quando è salita sull'autobus, che è scaduto da pochi minuti e che comunque ne ha un altro pronto da timbrare. Il controllore obietta che no, il biglietto è scaduto e deve farle la multa. Entrambi si incaponiscono sulla propria posizione, in breve si arriva alla lite, alle urla. La signora prova a dirigersi verso la macchinetta obliteratrice, il controllore dice all'autista di bloccarla e di chiudere le porte dell'autobus, chiede alla signora i documenti, lei si rifiuta di darglieli.
"Son quarant'anni che prendo 'l pullman", strilla, "ho sempre fatto il biglietto, son 'na persona onesta. La multa fatela a chi 'n fa mai il bijietto. I documenti 'gne li dò, me porti pure' n galera, me porti da la polizia, vedemo!".
Dopo qualche minuto scendono e, continuando a litigare, si dirigono verso la stazione.

L'autobus riparte.
Un signore sulla settantina comincia a imprecare ad alta voce: "Ma fatela alle persone disoneste la multa, che ce n'èn tante in giro. Fatela ai marocchini, che 'n pagano mai 'l bijetto".
Un ragazzo nordafricano seduto vicino a lui gli risponde, con tono piuttosto piccato, che lui il biglietto ce l'ha, e regolarmente timbrato. Il vecchio si gira con gli occhi fuori dalle orbite e lo aggredisce con un profluvio di insulti.
"Che cazzo volete in Italia, 'sti stronzi, tornatevene 'n Marocco e non rompete i cojoni a noantri. Che cazzo ce venite a fa qua, delinquenti?".
Una signora anziana si avvicina alle spalle del ragazzo, lo afferra per una manica e gli urla in faccia: "E tu àlzete da qua, che questo è 'l posto pe l'invalidi, me ce devo sède io che so' 'nvalida".
Il ragazzo si alza borbottando e viene a sedersi accanto a me. Sta per riprendere a litigare con il vecchio, io gli metto una mano sulla spalla e gli dico di lasciar perdere, che così si mette dalla parte del torto, che è solo un povero rincoglionito.
Il bigliettaio si avvicina, dice al vecchio che il ragazzo ha un biglietto regolarmente timbrato. "Se dovete dirvi qualcosa", aggiunge, "scendete e ditevelo fuori".
Intanto è salito un uomo sulla cinquantina, piuttosto male in arnese, che emana un lieve sentore di alcool. Sorride e strizza l'occhio al ragazzo nordafricano, poi si avvicina al vecchio e comincia a prenderlo per il culo.
"Aoh, ma te ce sei nato così? Ma in ottant'anni ancora non l'hai imparata, l'educazione? Ma guarda un po' se questo è sempre vissuto così".
"Che cazzo te metti in mezzo tu, morto de fame?", ribatte il vecchio. "Me l'hai da 'nsegnà tu l'educazione, con quella faccia? Ma l'hai fatto il biglietto tu?".
"No, io non lo faccio mai!" risponde l'uomo, e ridendo gli sventola sotto il naso il biglietto appena timbrato.
Poi torna verso il ragazzo nordafricano e comincia a ridacchiare con lui indicando il vecchio, che intanto continua a parlottare sottovoce tra sé e sé.
Una donna grassa, qualche sedile più dietro, ha osservato tutta la scena e scuote la testa con aria di disapprovazione, non si capisce nei confronti di chi (ma ho paura di saperlo).
Scendo alla fermata successiva.

Dopo pranzo passa a casa mia suocera. E' verde di rabbia, trema per il nervosismo.
Aveva un piccolo conto alla posta da chiudere e, dopo aver preso appuntamento, è andata all'ufficio postale per fare l'operazione, che avrebbe dovuto essere semplicissima (aveva già prelevato quasi tutti i soldi, si trattava di qualche firma).
L'impiegata, racconta, l'ha accolta con aria scocciatissima. Alle sue richieste di spiegazioni (documenti da firmare, libretti degli assegni da restituire) ha reagito in tono sempre più seccato, dicendo che aveva altri clienti da servire, oltre lei. Alla fine ha detto di non avere i documenti per l'annullamento del bancomat. Mia suocera le ha chiesto allora di tagliarlo e lei si è rifiutata, ha detto che non era compito suo, ha persino chiamato due colleghe a darle manforte.
E' finita con tre impiegate che inveivano contro di lei a voce spiegata, di fronte a tutta la clientela (e posso crederci: conosco quelle impiegate, ci ho già avuto a che fare, so che razza di cafone sono).
Mia suocera chiede di vedere la direttrice dell'ufficio postale, che arriva con tutta calma dopo dieci minuti. La accompagna nel suo ufficio, sbriga con chiaro fastidio le pratiche per la chiusura del conto e la invita sgarbatamente a uscire.

"Che brutti tempi", commenta mia suocera salutandoci.

italo calvino 5 - eremita a Parigi

Quinto estratto dalla mia tesi di laurea.
I capitoli precedenti:
0. introduzione
1. la fine dell'impegno (1974-1985)
2. la belle époque inaspettata
3. Pavese se ne va
4. Vittorini e l'utopia


* * *

La produzione di Calvino, negli anni fra il 1968 e il 1973, è caratterizzata da un’apparente presa di distanza rispetto all’attualità, specialmente italiana, tanto da far scrivere a Gian Carlo Ferretti che

c’è quasi un atteggiamento di estraneità, da parte di Calvino, verso i molteplici e rilevanti avvenimenti di questi anni (il ‘68, piazza Fontana e la strategia della tensione, eccetera): il trasferimento a Parigi nel 1964 (sia pur con frequenti venute in Italia) e la conseguente distanza fisica se ne può considerare forse più un effetto che una causa.

Lo stesso Ferretti parla, a proposito della “produzione giornalistico-saggistica sostanzialmente compresa tra il dopo-‘56 e i primi anni sessanta”, di una “tendenziale rinuncia a un rapporto sempre più precario e improduttivo con la realtà”.
Abbiamo visto nel capitolo precedente come il problema fosse invece quello di trovare una nuova chiave di lettura per la realtà, da sostituire agli strumenti ormai obsoleti dello storicismo hegeliano-marxista, e come Calvino, intorno alla metà degli anni ‘60, avesse cominciato a orientare tale ricerca verso le aree più moderne e innovative che il panorama culturale contemporaneo gli offriva (semiotica, strutturalismo, teorie scientifiche e filosofiche).
Come nota Mario Barenghi, anche se tra fine anni ‘60 e inizio anni ‘70 “la militanza culturale vera e propria si è palesemente diradata”, quello di Calvino “eremita a Parigi” non è “anacoretismo autentico, bensì [...] aggiustamento delle distanze. [...] Calvino [...] s’interroga sulla giusta distanza da assumere rispetto all’attualità storica, sul «ritmo» della sua interazione con gli avvenimenti pubblici”. Sono insomma anni in cui la sua attività di critico, perso il ritmo febbrile che aveva mantenuto fino alla metà degli anni ‘60, si esercita soprattutto sotto forma di studio e approfondimento teorico.
L’importante intervista rilasciata a Ferdinando Camon nel 1973 disegna il ritratto di un Calvino che asseconda “una vocazione di topo di biblioteca che prima non avev[a] mai potuto seguire”:

Non che sia diminuito il mio interesse per quello che succede, ma non sento più la spinta ad esserci in mezzo in prima persona. È soprattutto per via del fatto che non sono più giovane, si capisce. [...] Forse è solo un processo del metabolismo, una cosa che viene con l’età, ero stato giovane a lungo, forse troppo, tutt’a un tratto ho sentito che dovevo cominciare la vecchiaia, sì, proprio la vecchiaia, sperando magari d’allungare la vecchiaia cominciandola prima.

Ma subito dopo esprime il desiderio di dar vita a una rivista che gli permetta di “ritrovare le funzioni vere d’un rapporto col pubblico”, con

molte rubriche che esemplifichino strategie narrative, tipi di personaggi, modi di lettura, istituzioni stilistiche, funzioni poetico-antropologiche, ma tutto attraverso cose divertenti da leggere. Insomma un tipo un tipo di ricerca fatto con gli strumenti della divulgazione. [...] Io credo che spiegando queste cose agli altri forse riusciremmo a capirle anche noi. Insomma a me piacerebbe un rapporto così con un pubblico nuovo.

E, poco più avanti, ricordando l’esperienza vittoriniana del “Politecnico”, commenta: “di quel periodo lì m’è rimasto il senso d’un bisogno collettivo a cui rispondere” e polemizza con la “cultura della negazione” che gli sembra stia prendendo piede anche nella Sinistra.
Anche di un’opera apparentemente astratta e disimpegnata come Le città invisibili (che Camon aveva definito “un libro che testimonia la caduta e la sfiducia, per sempre, verso ogni futuro sociale, verso ogni ordine per cui lottare”), Calvino rivendica la continuità con la sua produzione “impegnata”:

È un libro in cui ci s’interroga sulla città (sulla società) con la coscienza della gravità della situazione, gravità che sarebbe criminale passare sottogamba, e con una continua ostinazione a veder chiaro, a non accontentarsi di alcuna immagine stabilita, a ricominciare il discorso da capo.

Insomma, come il San Girolamo del Castello dei destini incrociati, che ha sempre presente, sullo sfondo, la città con “le luci alle finestre, il vento [che] porta a ondate la musica delle feste”, così anche l’“eremita” Calvino non perde mai di vista la realtà contemporanea, anche se la guarda ormai non più dall’interno, ma da una distanza destinata man mano a crescere.

martedì 21 aprile 2009

scampoli di TG1


(Dal TG1 delle 13,30 di oggi.)

Noi chi?
La Sinistra non speculi sul 25 aprile. Noi c'eravamo sessant'anni fa e ci siamo ancora oggi.
Luca Volontè, UdC (nato nel 1966)

C'erano, c'erano, porca miseria!
Sessant'anni fa ci stavano quelli che volevano la democrazia, e ci stavano quelli che volevano sostituire una dittatura con un'altra dittatura. Anche oggi ci stanno altre manifestazioni per il 25 aprile, oltre a quelle della Sinistra estrema, e non è Franceschini che decide dove deve andare Berlusconi.
Fabrizio Cicchitto, ex-PSI, ex-P2, ex-PSR, ex-FI, attualmente PdL

rispetto


Il barbiere, prendendo un altro libro, disse:
"Questo è lo Specchio delle imprese cavalleresche".
"Conosco già questo signore," disse il curato. "Lì c'è il signor Rinaldo di Montalbano con i suoi amici e compagni, più ladri di Caco, e i dodici Pari, con il veridico storico Turpino; ma, a dire il vero, non li condannerei a una pena maggiore dell'esilio perpetuo, se non altro perché rientrano nella favola del famoso Matteo Boiardo, da cui anche tessé la sua tela il poeta cristiano Ludovico Ariosto; a questo, se lo trovo qui a parlare in altra lingua che non sia la sua, non porterò alcun rispetto; ma se parla nella sua lingua, gli userò ogni riguardo.".
"Io ce l'ho in italiano," disse il barbiere, "ma non lo capisco".
"E non sarebbe bene che lo capiste," rispose il curato; "noi avremmo perdonato al signor Capitano Jeronimo de Urrea se non lo avesse portato in Ispagna e se non lo avesse volto in castigliano, perché gli ha tolto molto del suo valore originale, e lo stesso faranno tutti quelli che vorranno tradurre in altra lingua i libri di poesia; ché, per quanta cura ci mettano e per quanta abilità dimostrino, non arriveranno mai al grado di perfezione che essi hanno nell'originale".

Miguel de Cervantes, L'ingegnoso hidalgo Don Chisciotte della Mancia, parte I, capitolo VI

lunedì 20 aprile 2009

petrarchismi


Apprendo che i poeti italiani più tradotti, letti e studiati negli Stati Uniti sono Dante, Leopardi e Montale.
Questo mi conforta nella mia convinzione che Petrarca sia stato solo una lunga, noiosa ma - per fortuna - temporanea interruzione pubblicitaria.

domenica 19 aprile 2009

tre poesie di maurizio cucchi


PRIMO TEMPO DI UN'AVVENTURA - 9

Tastando nell'armadio sotto il soprabito, sul gancio dell'omino
caldo, appeso in su, qualcosa... qualcuno, per i piedi,
penzoloni, scoperto identico, d'aspetto ancora umano,
tirato già dal fondo (la testa), precipite,
addosso, travolgente, in un groviglio indecifrabile,
di abiti, di corpi (due), vivi o morti (un rebus), col -
finalmente - suicida, senza traccia
alcuna di subita violenza. Apertegli le palbebre a fatica,
goffa, grottesca pantomima; nell'ansia (se suonano alla porta?), trascinato
a viva forza l'esanime corpo, resistente,
per il confronto. Sorrettolo, davanti allo specchio,
ancor peggio tremebondo, gocciante,
di fatica, sudore, per la gioia prorompente del confronto, infine,

risultato positivo!

* * *

LETTO
Qua sotto fiatiamo caldi
buone bestie tenere

Oh come siamo dolci e inermi,
buoni e sospesi nell'oblìo del giorno,
nelle piume e nel poco
che ci protegge scarmigliati,
gli occhi socchiusi, e gli sguardi si sfiorano
in un tocco per sempre che ci fa comuni,
quaggiù depositati, stirandoci a grattarci
nel caldo inverno dei colori.

* * *

(da "Glenn")

"Caro", gli dicevo, mentre sedeva morbido sopra le mie ginocchia in poltrona. Lo guardavo con totale, legittima fierezza. Temevo per quegli ossicini dalle mie manone; gli occhi a mandorla, la pelle candida, le rare efelidi. Lo carezzavo... "caro"... sui capelli lisci. A tavola era immobile sui gomiti. Odiava i fondi rossi di bicchiere, il succo appiccicoso delle arance nelle mani. Gina fingeva di ignorarlo. Odiava le scintille che sprizzavano. Guardava con mansueta reverenza gli operai.

(nell'immagine: un disegno di Simonetta Martini)

sabato 18 aprile 2009

grancassa


C'è una strana sensazione che mi prende ogni volta che torno al Sud.
La sensazione è che il Sud sia una specie di enorme cassa di risonanza in cui tutti gli stereotipi italiani (quelli positivi come anche quelli negativi) vengono amplificati a dismisura.
E' una sensazione che mi prende, non so, a Bari, o a Napoli, o a Catania, o al massimo a Roma, ma non a Firenze o Bologna o Milano o Verona.
Non ho ancora capito se sia solo un fatto personale, magari dovuto a una mia ipersensibilità di meridionale, o se ci siano delle basi oggettive.

bambini


Una volta ero piccola, ero senza parole.
Ero piccola e senza parole.
Una volta ero molto leggera, pesavo pochi chili.
Una volta c’erano solo tre o quattro chili di me,
solo pochi chili di me, solo pochi chili
avevano il mio nome.

Mariangela Gualtieri

* * *

Non ti piace andare a scuola
stare fermo muto e chiuso
mentre fuori il mondo accade.
La mattina cataloghi i dolori
che atroci puntualmente ti assalgono
al punto da impedirti la presenza.
Io da zio a padre putativo
per voce di famiglia dovrei spiegarti
che dei libri ti deve importare
più dei giochi tutti e degli animali
e dei cieli variabili di naviganti nuvole
che studi come fossi un nuovo Adamo.

Daniele Mencarelli

* * *

Con piccole grida dirigi il tuo popolo d’ombre.

Luce di levante
i piatti nuovi sulla mensola
e i rami dell’acacia setacciano il giorno.

Ma tu scivoli tranquilla di segno in segno
i pensieri ti trapassano come vetro.

venerdì 17 aprile 2009

sguardi


“No him, no me”
(Dizzy Gillespie, parlando di Louis Armstrong)

Il jazz vive di antitesi.
Colto, ma di origine popolare; improvvisato, ma anche scritto; nero, ma anche bianco; sofisticato fino allo stremo, ma viscerale quanto nessun’altra musica.
Ma forse l’antitesi fondamentale è quella fra tradizione e innovazione. Si dice spesso che il jazz ha fatto in cent’anni il cammino che la musica classica ha fatto in cinquecento: la frase è vera solo in parte, però di sicuro esprime bene la tumultuosa evoluzione di questa musica, che ha cambiato faccia almeno una volta per ogni decennio
Eppure, nessun musicista, nemmeno i più sperimentali e avanguardisti, rinuncia mai a citare il passato come la propria fonte di ispirazione più importante (anzi, più il musicista è “d’avanguardia”, più sembra legato al passato: basta pensare a Ornette Coleman o all’Art Ensemble of Chicago). Lo diceva bene Max Roach: “Io vedo il jazz come un grande fiume sempre in movimento, dunque ogni generazione può apportare qualcosa di nuovo. Tuttavia ogni generazione è in un certo senso obbligata a guardarsi alle spalle: quel che conta è la continuità col passato piuttosto che la rottura. Il jazz è una musica democratica, che tiene conto degli apporti individuali per arrivare a una creazione collettiva”.
Pensavo a tutto ciò osservando una foto di Charlie Parker in concerto.
(continua su "La poesia e lo spirito")

giovedì 16 aprile 2009

natura umana


E' di qualche giorno fa la notizia di una rissa nel napoletano, pare originata da un complimento a una ragazza, finita con una coltellata e con un ragazzo morto. Ieri a Roma un automobilista ne ha accoltellato un altro durante una lite per un parcheggio.
Queste storie mi hanno fatto tornare in mente un sacco di cose.
Pensavo, ad esempio, a quando ero bambino, ai bulletti che per divertimento si piantavano in mezzo a un vicolo e ti dicevano "di qua non si passa", e tu dovevi accettare di venire alle mani oppure cambiare strada (io, che sono sempre stato una persona pacifica, cambiavo strada). O a quella volta, alla festa patronale, quando un amico fu preso in mezzo e picchiato a calci sulla testa, perché a un gruppo di teppistelli andava di passare così la serata. O a quell'altra volta che si sfiorò la rissa perché un tizio pretendeva a tutti i costi di voler parlare "a tu per tu" con la ragazza di uno di noi, e a noi toccò schierarci tutti dietro, in fila, cercando di fare le facce più truci possibili. O a quando, al mare, cinque o sei ragazzotti dall'accento milanese circondarono me e un altro e cominciarono a sputarci addosso perché, dicevano, "li avevamo guardati". O a una lontana vacanza-studio in Inghilterra, a Bournemouth, dove il venerdì sera bande di hooligans ubriachi uscivano a caccia di italiani da pestare. O a quella volta in macchina che uno stava per tagliarmi la strada, io gli suonai il clacson e lui mi inseguì, mi si affiancò al semaforo, contromano sull'altra corsia, per vomitare insulti con la faccia deformata dall'odio. O a quando un idiota in Vespa non vide che avevo messo la freccia per girare e mi si schiantò sullo sportello, e poi mi disse con un sorrisetto "io sono un brigadiere dei carabinieri, vedremo a chi daranno ragione".
Oppure pensavo a un libro di Jared Diamonds letto anni fa. Diamonds, naturalista e antropologo, raccontava di una sua visita a una sperduta tribù nell'interno del Borneo, e di come tutte le donne, intervistate sul loro albero genealogico, menzionassero immancabilmente un padre, o un fratello, o un marito, uccisi dalla tribù nemica o sgozzati nel corso di una faida familiare. Raccontava anche di due suoi amici antropologi, i quali avevano studiato una popolazione di cacciatori-raccoglitori che viveva in un immenso acquitrino, punteggiato di isole e coperto da una giungla di mangrovie. Durante la stagione delle piogge la natura del territorio impediva alle diverse bande di avere contatti, perciò una volta all'anno, nella stagione secca, si riunivano tutti per commerciare, concludere matrimoni, risolvere questioni lasciate in sospeso. I due antropologi la raccontavano come un'esperienza allucinante: in un accampamento popolato da centinaia di persone, tra uomini abituati a passare la maggior parte del tempo da soli o in gruppi piccolissimi, la mancanza di solide regole sociali faceva sì che ogni lite potesse degenerare in violenza, com'era già successo in passato. A un certo punto un uomo riconobbe, o credette di riconoscere, l'uccisore di suo padre, afferrò un'ascia e gli si scagliò contro. Ci vollero una decina di persone per separarli, e alla fine sfogarono la rabbia con gli insulti. I due antropologi sudavano freddo, perché era a rischio anche la loro pelle.
E poi pensavo anche a quanto sono belli (e falsi) quei versi del Tasso, nel coro dell'Aminta:

O bella età dell'oro [...]
perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno

quel che dal volgo insano

onor fu poscia detto,

che di nostra natura 'l feo tiranno,

non mischiava il suo affanno

fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge
[...]
Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole

gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe

meschiando a le parole

vezzi e susurri, ed ai susurri i baci

strettamente tenaci...

mercoledì 15 aprile 2009

lavoratoriiiii


"Io penso che in questo mondo si lavori troppo, e che mali incalcolabili siano derivati dalla convinzione che il lavoro sia cosa santa e virtuosa".

Bertrand Russell, Elogio dell'ozio (1935)

martedì 14 aprile 2009

ottima è l'acqua...


... scriveva Pindaro 2500 anni fa.
Beh, godetevela, finché potete. Fra poco, potreste non essere in grado di permettervela: perché qualche mese fa, aumma aumma, con la complicità di entrambe le parti politiche, la gestione dell'acqua è stata privatizzata.
Sappiamo bene che cosa succede quando qualcosa finisce in mano ai privati: si passa dall'inefficienza dello Stato all'efficienza del ladrone di turno. Insomma, aspettiamoci il peggio.
L'articolo intero potete leggerlo qui; un altro sullo stesso tema è qui.

ACQUA BENE COMUNE: storia, civiltà vita - Facoltà di scienze politiche
12 marzo 2009 Intervento Paolo Rumiz

[...]

All'acqua sono arrivato solo pochi mesi fa, quasi per caso, grazie a una segnalazione di Emilio Molinari. Era successo che era stata approvata una legge che rendeva inevitabile la privatizzazione dei servizi idrici.

La svendita di un patrimonio comune, mascherata da rivoluzione efficentista. Tutto questo era avvenuto nel mese di agosto, alla chetichella, senza proteste da parte dell'opposizione.

Il popolo era rimasto tagliato fuori da tutto. Gli interessi attorno all'operazione erano così trasversali che i giornali avevano taciuto, i partiti e i sindacati pure. Mi sembrava inverosimile che una simile enormità potesse passare sotto silenzio. Così ne ho scritto. E la pioggia di lettere attonite che ho ricevuto in risposta hanno confermato l'assunto. L'Italia non ne sapeva niente.

[...]

Televisione, telefonini, I-pod costruiscono una cortina fumogena che incoraggia il singolo ad arraffare e impedisce al gruppo di reagire. E' così evidente. Noi non dobbiamo sapere che esiste un'altra e più grave emergenza: la distruzione del territorio. Un'emergenza così grave che la lingua dell'economia non basta più a descriverla. Oggi serve la lingua del Pentateuco, o dell'Apocalisse di Giovanni, perché viviamo un momento biblico. "E verrà il giorno in cui le campagne si desertificheranno e la boscaglia invaderà ogni cosa, i ghiacciai entreranno in agonia e l'aria diverrà veleno. Il tempo in cui la natura sarà offesa nelle sue parti più vulnerabili".

[...]
Alta Val di Taro. C'è una fabbrica di acque minerali che succhia dalle falde appenniniche in modo così potente che nei momenti di siccità gli abitanti del paese - noto fino a ieri per le sue fonti terapeutiche e oggi semi abbandonato - restano senz'acqua nelle condutture pubbliche.

C'è una protesta ma il sindaco tranquillizza tutti in consiglio comunale. "Non abbiate paura - dice - quando mancherà la NOSTRA acqua, la fabbrica pomperà la SUA nei nostri tubi". L'acqua del paese è data già per persa, requisita dai padroni delle minerali. L'idea che si tratti di un bene pubblico e prioritario non sfiora né il sindaco né la popolazione rassegnata.

Recoaro, provincia di Vicenza. Una pattuglia di "tecnici dell'acqua" (così si presentano), fanno visita a una vecchia che vive sola in una frazione di montagna. Le chiedono di poter fare delle verifiche alle falde. La donna pensa che siano del Comune. Il lavoro dura un mese. I tecnici trivellano, trovano acqua. Poi chiudono il pozzo aperto con dei sigilli. A distanza di mesi si scopre che la fabbrica di acque minerali giù in valle sta facendo un censimento delle fonti potabili in quota, in vista della grande sete prossima ventura della Terra in riscaldamento climatico. I parenti della donna si accorgono del maltolto e sporgono denuncia. Scoprono di essersi mossi appena in tempo per evitare l'usocapione del pozzo. Il sindaco tace. Gli abitanti di Recoaro pure. Ciascuno vende le sue fonti in separata sede.

Castel Juval, in val Venosta. Qui potete fare le vostre verifiche da soli. Vi sedete al ristorante dell'agriturismo di Reinhold Messner e chiedete dell'acqua. Scoprirete di avere due opzioni. L'acqua minerale - la notissima acqua propagandata dall'alpinista sud-tirolese - e l'acqua di fonte. La fonte di Reinhold Messner. Ebbene, anche questa è a pagamento. Metà prezzo rispetto a quella in bottiglia, ma anch'essa a pagamento. E la gente beve, estasiata. Vedere per credere.

Che dire? Come gli abitanti della Somalia o del Mali, siamo disposti a pagare ciò che ci sarebbe dovuto gratuitamente. Abbiamo rinunciato a considerare l'acqua come pubblico bene. La nostra sconfitta, prima che economica, è culturale. La grande vittoria del secolo scorso fu l'acqua nelle case. Oggi abbiamo accettato di tornare indietro. Siamo ridiventati portatori d'acqua. Come gli etiopi, arranchiamo per le strade con carichi inverosimili d'acqua e non riflettiamo che il valore reale della medesima è appena un centesimo del costo della bottiglia. Meno del costo della colla necessaria a fissare l'etichetta.

[...]

lunedì 13 aprile 2009

commenti


Le (pochissime) volte che mi è capitato di pubblicare racconti o poesie, c'è stato sempre qualcuno che mi ha chiesto spiegazioni o commenti: che cosa intendevo con quell'espressione, a cosa alludevo in quel verso, che cosa volevo dire o esprimere.
Io mi sono sempre rifiutato.
E non per una forma di snobismo, ma perché ritengo che un testo, una volta scritto e licenziato, debba vivere senza l'autore: l'interpretazione, casomai, spetta ai lettori.
Ovviamente non voglio dettare regole per nessuno: ci sono stati scrittori che hanno riflettuto in pubblico sulle proprie opere, che le hanno persino chiosate, con risultati anche interessantissimi (penso ad esempio al Saba di Storia e cronistoria del Canzoniere, o a certi "dietro le quinte" delle Occasioni svelati da Montale).
Ma per me una poesia è un po' come un messaggio in una bottiglia: se deve arrivare arriva, sennò pazienza.

domenica 12 aprile 2009

amarcord pasquale


La scarcella, dolce secchissimo, duro, quasi immangiabile, che resiste persino all'immersione nel latte caldo.

L'uovo da rompere a pugni, la sorpresa sempre deludente, i frammenti polverizzati di cioccolata. Ma prima la poesia da recitare.

Pasqua, chissà perché, la ricordo sempre col sole, con luce candida, odore di panni stesi e di primavera, campane, le tende gonfie di vento tiepido, la corsa in chiesa con addosso i vestiti nuovi.

La settimana precedente: la processione delle Palme, le chiese a lutto il Venerdì, le processioni con Cristo flagellato, poi morto nella bara di vetro, la Madonna con il manto nero.

La mattina del Venerdì Santo, all'alba, in una piazza di San Severo, si incontravano la statua del Cristo alla colonna e quella della Madonna Addolorata, si correvano incontro, ma all'ultimo momento la croce si levava a dividerle. Le vecchie piangevano di commozione. Un coro di ragazzini intonava (stonava) canti tristissimi (o chiodi crudeli che al mio Redentore / le carni straziate con tanto dolore / non date più pene al caro mio bene / non più tormentate l'amato Gesù). Lo dirigeva un maestro piccolo, pelato, con un vocione bronzeo da basso, che aveva lo stesso cognome di mia madre.

La felicità del rito.

La domenica, lo spezzatino di agnello con i cardi e l'uovo, da mangiare facendo attenzione alle insidiose schegge d'osso che si nascondono nel brodo.

La tavola apparecchiata in soggiorno anziché in cucina, la tovaglia pulita che sapeva di cassetto, il servizio di piatti e bicchieri di vetro bruno che si tirava fuori solo per le feste.

Una tavolata di parenti, quasi tutti morti o lontani, mai più rivisti.

sabato 11 aprile 2009

recensioni in pillole 12: "Il suono in figure"


Giorgio Rimondi, Il suono in figure. Pensare con la musica, Scuola di Cultura Contemporanea Mantova, 2008, € 20

Lo confesso: ho un problema.
Il mio problema è il filosofese, ossia quel gergo che ha come caratteristica essenziale quella di ammantare la realtà con oscure terminologie e metafore astruse, con l'intento di catturarne chissà quali profondità ontologiche; quasi che parlare, non so, di “agonico tendersi verso l'in-verarsi di un'appercezione” volesse davvero dire qualcosa.
Lo dico perché Rimondi, almeno per i miei gusti, spesso sfiora pericolosamente il ciglio del filosofese, ad esempio in passaggi come (parlando dei diari di viaggio): “la loro iscrizione in un dispositivo testuale comporta un riassetto di ordine retorico, che impone di trasformare l'esperienza diretta in una comunicazione attraverso i segni. Sicché il resoconto si costituisce come personale disponibilità a mescolare (e con-fondere) tracce e momenti veridici con effetti mnestici e psichici, poiché chi racconta un accadimento in realtà lo reinventa, innescando un irreversibile processo di alterazione”.
Però la densità e l'interesse di questo libro è tale da farmi vincere persino quest'idiosincrasia (e ammetto che l'esempio non è rappresentativo dello stile dell'intero libro).
Quel che Rimondi vuol fare non è né “critica musicale” nel senso tecnico del termine, né tantomeno “storia del jazz”. Piuttosto, gli interessa rintracciare e delimitare linee di forza, prospettive concettuali, grimaldelli che permettano di gettare luce su quella “singolarità” che il jazz rappresenta nella cultura del Novecento. L'approccio è quindi interdisciplinare: critica musicale e letteraria, filosofia e fotografia, antropologia e psicoanalisi.
I temi vanno dal conflitto tra “colto” e “popolare” (con un ripensamento della celebre stroncatura del jazz da parte di T. W. Adorno) alla la ricezione delle musiche afroamericane nella letteratura italiana, dal rapporto tra voce e corpo alla rappresentazione del jazz nel cinema, dalla concezione jazzistica del tempo (non solo musicale) al mito dell'Africa come “madre primigenia”.
La seconda parte del libro (“Dialoghi”) contiene interviste realizzate negli anni con personaggi disparati: musicisti di vari ambiti (classico, etnico, jazz), filosofi, poeti, musicologi, antropologi, eccetera.
Un libro stimolante, la cui lettura merita anche la fatica di superare certe asprezze stilistiche.

venerdì 10 aprile 2009

sognare, forse...


Non ricordo quasi mai quello che ho sognato. E mi dispiace.
I sogni mi affascinano non tanto per la loro (eventuale, incertissima) interpretazione, ma perché sono boli di materia psichica che il cervello produce al di fuori del nostro controllo e della nostra volontà. Sono universi autosufficienti, che esistono da qualche parte, lì dentro la nostra testa.
In questo, trovo che abbiano molto in comune con la creazione artistica, con l'ispirazione, insomma con quel nucleo di immagini o di parole che certe volte arrivano e basta, non si sa da dove.

giovedì 9 aprile 2009

no comment


Vista stasera a "Striscia la notizia".
L'inviata di "Matrix" a L'Aquila si aggira in piena notte per un parcheggio dove i poveracci che hanno perso la casa stanno dormendo in macchina. Si avvicina alle auto, bussa a palme aperte contro i finestrini, scuote le maniglie delle portiere urlando: "Scusi, scusi, mi apre? Risponde a qualche domanda?".
I poveracci aprono, insonnoliti e stanchi, lei punta addosso riflettori e telecamere e comincia a fare domande del tipo: "Perché dormite in macchina? Avete perso la casa? Ma è proprio crollata? Come vi sentite?".
Una signora anziana, con la voce impastata dal sonno, la supplica: "Abbassi quella luce, è troppo forte".
A una famiglia chiede: "Avete mangiato? Ah, non avete mangiato? E perché? Non avevate fame?".

La mia domanda è: davvero nessuno l'ha mandata affanculo, oppure (più probabile) è successo ma l'hanno tagliato in fase di montaggio?

mercoledì 8 aprile 2009

alexanderplatz - errata corrige

Ho cercato su internet e mi accorgo di essermi sbagliato.
"Alexanderplatz" non è del 1989, ma di sette anni prima, del 1982, incisa su un disco che si chiama "Milva e dintorni".
Nel 1989 Battiato la ricantò sul disco "Giubbe Rosse". Questa è la versione di Battiato (secondo me inferiore a quella di Milva).



Probabilmente è ispirata al romanzo "Berlin Alexanderplatz" di A. Döblin, del 1929, oppure all'omonimo sceneggiato televisivo che R. W. Fassbinder ne trasse nel 1980.
Il brano è in realtà il rifacimento di una canzone del 1979, firmata da Battiato con Alfredo Cohen, un cantante e attore attivo a fine anni '70-primi anni '80.
Ho persino trovato l'originale, che si chiama "Valery". Onestamente lo trovo alquanto bruttino, nonché incredibilmente prolisso.
Tanto per curiosità, questa è "Valery" cantata da Cohen.



Ma la cosa interessante, per me, è che quando "Alexanderplatz" uscì non avevo quattordici anni, ma sette.
Questo significa che deve davvero far parte dei miei ricordi più antichi.
Trovo sempre affascinante, e allo stesso tempo inquietante, quando riesco a far riemergere frammenti di memoria così remoti.

alexanderplatz



La cosa strana è che detesto Milva e non mi piace particolarmente Battiato. Eppure questa canzone, e questa particolare versione, sembra dirmi qualcosa. Non so, forse è legata a qualche ricordo che ho rimosso nel tempo. Mi ricordo vagamente di averla suonata al pianoforte (è del 1989, quindi avevo quattordici anni e studiavo musica da quattro o cinque). O forse sarà quell'atmosfera fassbinderiana, o quelle sonorità così spudoratamente anni Ottanta... Mah.
Però devo ammettere che è bella.


E di colpo venne il mese di febbraio
Faceva freddo in quella casa
Mi ripetevi
Sai che d'inverno si vive bene come di primavera
Sì sì proprio così

La bidella ritornava dalla scuola un po' più presto
Per aiutarmi
Ti vedo stanca
Hai le borse sotto gli occhi
Come ti trovi
A Berlino Est?

Alexanderplatz
Auf Wiedersehen
C'era la neve
Faccio quattro passi a piedi fino alla frontiera
Vengo con te

E la sera rincasavo sempre tardi
Solo i miei passi lungo i viali
E mi piaceva
Spolverare fare i letti
Poi restarmene in disparte come vera principessa
Prigioniera del suo film
Che aspetta all'angolo come Marlene
Hai le borse sotto gli occhi
Come ti trovi
A Berlino Est?

Alexanderplatz
Auf Wiedersehen
C'era la neve
Ci vediamo questa sera fuori dal teatro
Ti piace Schubert?

martedì 7 aprile 2009

con il cuore in mano

"Che cosa prova?" è ormai la domanda standard degli inviati, in ogni situazione. La fanno alla madre che ha perso il figlio in un incidente automobilistico, al tizio a cui è crollata la casa per il terremoto, al padre del ragazzo immigrato pestato a sangue, ai familiari delle vittime che vedono l'ennesimo processo-farsa.
"Che cosa prova?" è l'unica cosa che sanno dire. Emozioni, non pensieri; sensazioni, non discorsi. E' questo che conta.
E il bello è che la gente risponde. Solo un paio di volte mi è capitato di sentire qualcuno che ribatteva con un "si immagini lei che cosa provo, che domande sono?" o con un sano e liberatorio "andate via, sciacalli". La gente, anche nelle peggiori tragedie, sembra ubriacata dall'opportunità di apparire in TV. Si mette subito in posa.
Lo chiamano "diritto di cronaca" e non, come sarebbe più giusto, "imbarbarimento dei costumi".

lunedì 6 aprile 2009

idiosincrasie verbali



Vero
, spontaneo.
Parole che dovrebbero funzionare come garanzie, sigilli di bontà.
“Quella canzone mi piace perché è vera”.
“In TV oggi ci va la gente vera, il pubblico vuole sentimenti veri.”
“Non sono maleducato, sono spontaneo”.
“Mi piaceva Funari perché era una persona spontanea”.

Nessuno è più vero dei cattivi poeti.
Nessuno era più spontaneo di Mengele.

domenica 5 aprile 2009