mercoledì 30 aprile 2014

belle scoperte

Digitarsi su YouTube e scoprire di avere degli ammiratori (anzi, delle ammiratrici).





Grazie di cuore a Greta Rosso...

(qui il testo della poesia)

lunedì 28 aprile 2014

braccia rubate all'agricoltura (cronache scolastiche)



Io - Ragazzi, fra i testi che vi ho dato da leggere, qualcuno ha scelto l'Ortis?
Eleonora - E che è l'ortis?
Jacopo - E' quillo 'ndua va a zappà 'l tu nonno!

domenica 27 aprile 2014

senza paura



I rami attraversano la strada
senza paura di investire nonni e fanciulli.

A volte sono i dettagli a incantare
altre volte l'intero: che non ha eguale.

Non è roba da bambini l'amore
e se chiedo un bacio un bacio arriva,

via cavo perlopiù come spinto
da un segreto, che nessuno tranne te

può sopportare di vedermi lacrimare
non d'amore o di bellezza, ma di pena,

di tristezza. Arriva e gli occhi mi pulisce,
li rialzo, capace nuovamente di vedere

il mondo circostante, il mutamento.
Ma che dico il mutamento: in primavera

si va di fretta! Ma che gli passa, di 'sti giorni
agli alberi per la testa? Sempre lì

a cambiarsi d'abito - voler stupire?
Qualcosa c'è - Qualcosa deve accadere.

Miriam Bruni

sabato 26 aprile 2014

il ritorno dell'orso (esercizio di traduzione) - parte terza


Ci fu un lungo quasi-blues, la ritmica solida, il basso di Malachi Favors enorme e caldo senza, notò con una certa sorpresa l'Orso, l'aiuto dell'amplificazione. L'Orso si divertì con Bowie, fecero qualche scambio, poi si spostarono su un po' di chiamate-e-risposte meno caratterizzate. Ci fu una lunga improvvisazione collettiva alle percussioni, in cui lui attraversò il palco, afferrò un mazzuolo e lo sbatacchiò su una grancassa, e poi qualcuno iniziò “Ohnedaruth”, l'omaggio di Jarman a Coltrane dal tempo spaventosamente veloce, e tutti i fiati in successione suonarono come dannati. Bowie suonò per ultimo, tirò fuori la pistola alla fine del suo intervento e svuotò il caricatore a salve contro le luci.
E fin qui tutto a posto, pensò l'Orso mentre stringeva forte l'ancia ed emetteva uno stridio di multifonie, ma poi Bowie, con una faccia da pazzo, con tutta la sobrietà scientifica del suo grembiule da laboratorio, si frugò nelle tasche, mise un altro caricatore nell'automatica e sparò un'altra raffica di salve sui tavoli affollati e appassionati del club, urlando: “Bam, bam, figli di puttana”, e una compagnia di turisti in una fila di tavoli vicino alla prima fila – qualche agenzia di viaggi doveva averli spediti a vedere l'Art Ensemble per sbaglio, o per scherzo – che erano stati solo leggermente allarmati dai primi colpi e dalla presenza sul palco di quello che sembrava un autentico orso, ora precipitò nel cieco panico, gettò da parte le sedie e schizzò attraverso la fitta folla verso l'uscita. Il panico si diffuse per il club, nessuno era sicuro di che cosa fosse successo e di che cosa no, e la sala fu quasi svuotata. La band andò dietro le quinte ridendo, Jarman minacciò due volte di ammazzare Bowie, e l'Orso stette lì sul palco a guardare attraverso il fumo della pistola.
Sentì Jones che lo chiamava dall'entrata del club, ma vide anche una figura solitaria seduta a un tavolo, e la mascella dell'Orso cascò giù in venerazione: era Ornette Coleman: il maestro: è venuto per me.
L'Orso scese dal palco attraverso i resti del fumo e si avvicinò al tavolo di Ornette. Ornette indossava un vestito nero di seta e non sembrava turbato dagli spari e dallo svuotamento del club. Sorrise all'Orso. “È stato interessante”, disse Ornette con voce gentile e distaccata, “ma quel che mi chiedo, anche se tu suoni mille volte meglio di quanto io sarei mai capace, è come mai tu suoni così simile a un essere umano. Quel che vorrei sapere è se trasponi dall'orso all'umano e in tal caso perché lo fai, perché se io suonassi con te quel che mi piacerebbe è che tu suonassi l'orso senza trasporre e io suonerei come me anche se non so se ciò equivarrebbe a un uomo e poi potremmo vedere qual è il risultato totale se nessuno fa l'addizione. Sai?”.
Anche se sentiva gli emisferi del cervello che gli si incrociavano, l'Orso era sicuro che Ornette avesse ragione. Perché mai trasponeva? Perché era così debole da volersi assimilare? “Hai ragione”, rispose superfluamente a Ornette.
“Vedi”, gli disse Ornette, “Io credo che tu suoni da quadrupede, quindi come sarebbe un suono quadrupede se non lo trasponessi in musica bipede. Quello sarebbe davvero interessante. Comunque”, disse, “io non mi preoccuperei se il pubblico se n'è andato. Quando suonavo io se ne andavano sempre”.
“Orso”, si sentì chiamare da Jones. “C'è un sacco di gente per strada e mi pare di sentire una sirena”.
“Potremmo suonare qualche volta”, suggerì Ornette.
“Potremmo andar via insieme”, disse l'Orso.
“No, va bene così”, rispose Ornette. “Vorrei sentire il resto del concerto”. Indicò il palco vuoto.
Jones si avvicinò, afferò l'Orso per un braccio e raggiunsero la porta posteriore e il furgone proprio mentre il rumore all'entrata cominciava a crescere.
Ci vollero un paio di giorni all'Orso per riavere indietro la custodia del suo sax, ma l'Orso considerò quella serata con l'Art Ensemble un eccellente successo, non ultimo perché arrivò per posta un inaspettato assegno da parte di Lester Bowie, e per un importo niente affatto insignificante. Lui avrebbe suonato anche gratis. Certo che l'avresti fatto, disse Bowie all'orso quando gli telefonò per ringraziarlo, ma non potevamo permetterlo, no?
L'assegno era bastato per affittare un furgone, e ne rimase un po' per finanziare l'organizzazione di un tour.
Come sarebbe stato, di preciso?

venerdì 25 aprile 2014

il ritorno dell'orso (esercizio di traduzione) - parte seconda



“Annoiato?” gli chiese Jones.
“A morte”, disse l'Orso, e buttò giù il mucchio di carne alla tartara in due grossi bocconi. “Voglio dire, ballare va bene, anche danzare per strada. È la poesia del corpo, la carne che aspira alla grazia o invita lo spirito a venire a farle visita. Ma la musica”. Scosse la grossa testa da una parte all'altra. “È un'altra cosa. È più alta di un livello. Voglio dire, se l'universo è vibrazione, e dopo Einstein chi potrebbe negarlo, l'energia filtra giù fino alla materia e prima di arrivarci si manifesta in forma di suono. Perciò suonare... suonare bene”, si corresse, “è come prendere parte attiva al futuro... Jones? Mi segui? Mi pare di vedere uno sguardo vitreo nei tuoi occhi”.
“È un po' troppo oscuro per me”, ammise Jones, in mezzo a una cortina di vapore. “Hai letto le riviste sbagliate”.
“Gli orsi hanno una bella testa per la metafisica, Jones, ma i nostri piedi non abbandonano mai la terra. So di che cosa sto parlando”.
“Beh, almeno uno di noi due lo sa”.
“Tu mi capisci bene”. L'Orso si leccò via dal muso i pezzetti di carne e riattaccò il sassofono alla tracolla. “Hai solo paura che io dia di matto e diventi impossibile da gestire”.
“È solo che non voglio che ti vengano idee strane”.
“Troppo tardi”, disse l'Orso. “Ne ho la testa piena”. Si alzò e cominciò a camminare in giro per il soggiorno, tenendo fermo il sassofono con le zampe. “Amico mio, non trovo pace”.
“Posso fare uno squillo a Mirelle”, propose Jones.
“Ne ho abbastanza di puttane”, disse l'Orso, “e a loro non piaccio. E quelle a cui piaccio, mi sa che sono malate. Danno così tanto di matto per farlo con un orso, che alla fine è a me che passa la voglia. Mirelle un'altra volta. Forse potremmo andare su a nord e dare un'annusata nei boschi”.
“Questo è lo spirito giusto”, disse Jones. “Un'orsa di Big Indian”.
“Un'orsacchiotta di campagna”, riprese l'orso. “Niente idee per la testa. Un tipetto ordinario, tutta bacche e radici. Un'hippie. Ma poi di che cosa potremmo parlare? Non ha mai letto Proust o Victoria's Secret, e dopo che l'ha fatto comincia a difendere il territorio. Questo mondo comincia a stancarmi, Jones. Non mi ci ritrovo. Non è il mio posto”.
“Sai qual è il tuo problema?”, gli domandò Jones, assaggiando dal bordo di un cucchiaio di legno un po' di salsa che aveva fatto freddare soffiandoci sopra. “Tu sei troppo bravo”.
L'Orso annuì con forza. “L'hai detto. Troppo bravo. L'ho pensato spesso ma non l'ho mai sentito espresso così bene”.
Jones e l'Orso si fecero un'altra risatina.
“Ti ricordi quando suonavo su ad Harlem con quei ragazzi della band di Lionel Hampton?”, chiese l'Orso.
“E chi se lo dimentica?”
“Non sapevano proprio come trattarmi, vero? Ehm, e tu, ehm, di dove sei?” La voce dell'orso diventò una risata. “Se non fosse stato per Julius tutta quella storia sarebbe diventata insostenibile. Ma sapevo suonare, vero? E ti ho salvato il culo ad Harlem. Ricordati, Centoquarantesima strada, mica Un-due-tre”.
“Tutta quella storia”, disse Jones, “era un rischio calcolato”.
“Ho persino fatto quel disco”.
Jones, mettendo una manciata di spaghetti nell'acqua bollente, rise a bassa voce, poi imitò la vocetta nasale del sindacalista. “Ehm, chi è quell'artista con l'anello al naso? Suona, ehm, il contralto? Non mi pare di vedere il suo nome sulla lista”.
“Julius gli andò vicino”, e qui l'Orso rifece la voce di Julius e torreggiò sul sindacalista per parlare: “'Mi scusi ma si è mai chiesto come fanno i Dogon a sapere senza l'aiuto di un telescopio come Po Tolo esegua la sua danza attorno a Sirio e perturbi la sua orbita? Dovrebbe indagare su quel ahhhh signore con la pelliccia e come lei ha osservato con l'anello al naso. Potrebbe condividere un po' di fatti con lei. Non si sa mai'. Il sindacalista stava per morire”.
“'Indossare la pelliccia'”, continuò Jones facendo la sua imitazione della voce lenta e profonda di Julius, “'allude all'attirare il potere primordiale...'”
“Se vogliamo parlare di tirarsela...”
“'...l'assunzione del manto rituale di selvaticità e di notte. Davvero lei non mai indossato la maschera di Dio? O magari lei adopera soltanto la forma esterna dell'essere umano'”.
“Dio, che idiota quel tipo”, disse l'Orso.
“Ma ostinato. Tutte le cose belle”, disse Jones, “devono finire”.
“Ma a volte ricominciano, no? Lo sa il Cielo se non ho voglia di tornarci”.
“Solo perché sei tondo e scuro”, disse Jones, “non significa che tutti debbano scambiarti per ArthurBlythe”.
“C'è qualcosa in TV stasera?”
“È venerdì. Possiamo guardarci una replica di The Rockford Files”.
“Bene!”, disse l'Orso. “Salvami la vita. Diamo ascolto a Big Jim Garner!”
“La cena è quasi pronta. Vuoi mangiare davanti al televisore?”
“Dove caca un orso, nei boschi?”, chiese l'Orso. “Esclusi i presenti”.

giovedì 24 aprile 2014

il ritorno dell'orso (esercizio di traduzione) - parte prima



Sto leggendo "The Bear Comes Home" di Rafi Zabor, che passa (e in effetti è) come uno dei più bei romanzi sul jazz mai scritti.
L'autore è un batterista e critico musicale. Cominciò a lavorare al romanzo negli anni Settanta, ne diffuse alcuni capitoli isolati nel 1979, poi lo abbandonò per anni e infine lo completò e pubblicò nel 1997. Da allora, ha scritto un solo altro libro, che a quanto ne so è stato un totale insuccesso.
"The Bear Comes Home" ha per protagonista un orso. Un normale orso, un plantigrado della famiglia degli Ursidi, che vive nella New York degli anni Settanta. L'Orso (così viene chiamato, senza altra specificazione) in realtà non è poi tanto comune, perché ha due particolarità: parla e ragiona come un uomo, e ama il jazz. Anzi, lo suona: per la precisione, è un sassofonista con il culto di Charlie Parker e di Ornette Coleman. Un vero hip-bear, insomma.
Queste le premesse, che danno il pretesto per un acuto (e spesso esilarante) ritratto della subcultura jazzistica newyorkese.
"The Bear Comes Home", che io sappia, non è mai stato tradotto in italiano. Quella che trovate qui sotto è una mia prova di traduzione, tratta dalle prime pagine del libro.
Un altro estratto domani, su queste stesse pagine.


* * *


“Sai”, disse [l'Orso], “non devo nemmeno suonare un mucchio di strana roba fuori tonalità per essere felice. C'è così tanta saggezza nel bebop che basta per una vita intera. Tutte le cose che devi sapere per far funzionare un singolo chorus nel modo giusto. Devi conoscere la vita proprio bene. Per non parlare dello strumento.”
“Tu suoni bene.”
“Lo so che suono bene. Forse non di prim'ordine, non di livello mondiale, ma bravo abbastanza per guadagnarmi da vivere a New York.”
“Hai un bel fraseggio.”
“Certo che ho un bel fraseggio. Gli orsi sono gente piena d'anima e di fantasia. Siamo amichevoli, siamo creativi, e siamo fighi. Ma il mondo,” disse a Jones, “non ci conosce.”
“Io ti conosco.”
“Tu. Certo. Tu mi conosci”. L'Orso si mise il sassofono in bocca ed eseguì degli arpeggi su un tipico cambio d'accordi assassino alla Coltrane fine anni Cinquanta: do maggiore settima, mi bemolle settima, la bemolle maggiore verso si settima, mi maggiore verso sol settima, e concluse su un do risonante, che bemollizzò leggermente per metterlo in risalto. “Prova tu a farlo con le zampe, stronzo. Prova tu a sviluppare un'imboccatura adatta a un grugno. Sì, tu mi conosci. Certo. Saresti capace, tu?”
“Bistecca alla tartara”, disse Jones, ponendogli davanti un piatto di carne trita cruda, ricoperta da una spolverata di paprika e mescolata a spezie verdi fresche. “Sei di un umore schifoso”.
“Scusami”, disse l'Orso. “È che mi sento così frustrato. Vuoi una mano con gli spaghetti?”
“Nah. Grazie”.
“Posso darti una mano con gli spaghetti”.
“Va bene così”. Jones si schiarì la voce e si mise una mano sulla clavicola. “Mi piace cucinare.”
L'Orso suonò delle scale a toni interi mentre Jones sminuzzava cipolle, aglio, peperoncini secchi e prezzemolo. Jones scaldò l'olio d'oliva e ci versò le spezie a soffriggere, tenendo da parte l'aglio. L'Orso passò a dei fraseggi in legato su un re minore dorico e Jones mise dieci pomodori freschi in una pentola d'acqua bollente. “Vuoi andare giù a Woodstock questo fine settimana per suonare un po' con Julius? Julius è forte. Posso chiamare Julius”.
“Sì, Julius è forte”, disse l'Orso, mettendo giù il sax, “ma quando arriva un ospite devo andare in cortile e comportarmi come una bestia”.
“Possiamo andarci”.
“E mi sa che Julius è in Europa questo mese”.
“Buon per Julius”, disse Jones, mettendo l'aglio nella padella e cominciando a pelare i pomodori che aveva estratto dall'acqua con un cucchiaio.
“Già. Buon per Julius. Abbiamo del vino decente in casa?”
“Credo un rosso italiano niente male”.
“Proviamo questo rosso italiano niente male”, disse l'Orso stancamente.

mercoledì 23 aprile 2014

questo è l'esilio


 
«Oh se tu capissi:
chi soffre
chi soffre non è profondo».
(Milo De Angelis)



È come quando afferravi la falda
perché l'areola era impigliata all'occhio
quando la palpebra cadeva a picco
su ciò che il corpo aveva già negato.
Come ogni volta che qualcuno arriva
a riconoscere la forma vera
e poi torna a perderla nella stasi.
Come tutte le volte che lo specchio
piomba a interromperti a metà del passo.
Non chiamarlo destino: è solo carne
inchiodata per sempre al proprio corso.

Dovrei aver imparato ormai – da un pezzo
ad accettare ciò che è inevitabile
non credi? Dovrebbe essere superfluo
persino dirlo – e ancora di più scriverlo.
(Se non sono bastati quarant'anni
quand'è mai che arriverà la saggezza?)
Solo una cosa è certa: la poesia
non chiede svolgimento o evoluzione
è un attimo immobile la poesia
e i labbri della ferita rifiutano
di accostarsi. (Quanto sbaglia chi ha detto
che la Bellezza redimerà il mondo:
la Bellezza è il dolore più crudele
quello che agisce alla radice stessa
del nervo). Tutto potrei accettare
ma non questo lanciarsi sulla soglia
soltanto per saperla invalicabile
questa distanza che separa i petti
e rende così inutile l'abbraccio.

Ciò che possiedo è ciò che più mi manca
ciò che ho intravisto premere la stoffa
senza poter mai completare il gesto.

martedì 22 aprile 2014

orari sindacali (cronache familiari)



"Lorenzo, dai, spegni il Sapientino, che sennò si scarica."
"Va bene, ola ppengo. Cotì ti lipota anche quetto tignole qui dentlo."

lunedì 21 aprile 2014

lampi - 246


Non bevo, guido con prudenza, non ho mai fumato una sigaretta in vita mia, né fatto qualcosa di nemmeno vagamente pericoloso. Tutti mi considerano l'immagine dell'equilibrio e della serenità.
Eppure io, proprio io, mi chiedo perché le cose che ci fanno male esercitino su di noi un'attrazione così irresistibile; perché, nonostante tutti gli sforzi, vi torniamo sempre; per assaporare di nuovo la morsa, lo spasimo, il crepacuore.

domenica 20 aprile 2014

tutto è stato già detto



Que c'est triste Venise  
Au temps des amours mortes...



Venezia è l'ideale
per essere infelici: specialmente
se il giorno è nel pieno della sua oltranza
e i passi seguono i passi che seguono
la traccia di un odore.
In nessun altro luogo la bellezza
è talmente impudica
sulla sua carne erosa
vanno a impattare i pensieri astratti.
Ad esempio: che la forma più alta
di amore è la rinuncia
lo penso proprio davanti al rollio
di due gondole in plastica
(una otto euro – due tredici)
in Campo San Moisè
alle sedici e trenta del ventotto
di marzo del quattordici
con un forte dolore tra le vertebre.
Un cameriere si affaccia a scrollare
lo straccio della polvere
e solo per un attimo i suoi occhi
colgono la mia sagoma.
Io continuo a pensare
a cose che resteranno pensieri
e la luce dall'alto del rosone
inquadra le Tavole della Legge.
I turisti hanno un'aria insoddisfatta
ascoltano cantare 'O sole mio.
Tutto è stato già detto
tante altre volte – e meglio di così.


nell'immagine: l'altare maggiore della chiesa di San Moisé, a Venezia,
di Enrico Merenga (sculture) e Giacomo Casa (tela), 1851

sabato 19 aprile 2014

invano sono cresciuta (due poesie di Ana Blandiana)




Cerco il principio del male
come da bambina cercavo i margini della pioggia.
Con tutte le forze correvo per trovare
il luogo dove
sedermi per terra e contemplare
da una parte pioggia, da un'altra parte niente pioggia.
Ma sempre la pioggia smetteva prima
che ne scoprissi i confini
e ricominciava prima
di capire fin dove è sereno.
Invano sono cresciuta.
Con tutte le forze
corro ancora per trovare il luogo
dove sedermi a terra e contemplare
la linea che separa il male dal bene.
Ma sempre il male smette prima
che ne scopra il confine
e ricomincia prima
di capire fin dove è bene.
Io cerco il principio del male
su questa terra
volta per volta
grigia e assolata.


* * *


Il nostro posto non è qui.
Invano cerchiamo di marcire -
i semi in noi,
molti come nelle melagrane,
non troveranno abbastanza
terra in cui attecchire.
Ancora non moriamo,
abbiamo ancora
da patirlo questo splendore
che si lascia varcare
dormendo nel sogno che ci assorda,
il nostro posto
è altrove, più lontano,
o magari è passato
e non l'abbiamo riconosciuto.


Ana Blandiana

venerdì 18 aprile 2014

nothing's so unimportant



Ho ritrovato un foglio
in realtà non è altro
che uno qualunque dei nostri handout
un foglio come tanti
solo c'è sopra – scritto con la tua
calligrafia – il mio nome.
Adesso però devo
metterlo via – subito
non sta mica bene alla mia età
che mi commuova su cose del genere
cose come la curva di una esse
la profondità del solco che ha inciso
la tua mano – o il semplice fatto che
sia pure per un attimo
tu hai pensato al mio nome.

giovedì 17 aprile 2014

esattamente



Potrebbe essere una giustificazione
il fatto che oggi a Santa Maria Rossa
almeno metà del cielo sia serena
e che l'altra metà – nonostante
i cumulonembi che torreggiano
pronti a scaricare pioggia –
sia gentilmente modellata dalla luce
questa luce dorata quasi orizzontale
che depone lungo la strada le ombre
dei tronchi e gonfia il rosa
della tortora appollaiata sul cancello.
È così grande il cielo a Santa Maria Rossa
alle cinque e ventisette del pomeriggio
esattamente a quest'ora in questo punto.

mercoledì 16 aprile 2014

lampi - 245


La brevità della concentrazione.
E quella del fiato corto.

martedì 15 aprile 2014

l'unico spiraglio (poesia con appendice)



Non puoi fingere di non esser triste
e non puoi rimangiarti l'allegria
il tempo del tuo respiro mi parla
fin troppo chiaramente.

Ecco – il punto è proprio questo – il tempo:
se le parole sanno o no trovare
l'unico spiraglio a disposizione
la chiave del tuo petto.

* * *

Appendice

Ho appena scritto una poesia
e mi viene voglia di nascondermi
quasi mi fossi accorto di avere
la patta aperta
o un buco in un calzino.
Eppure ho scritto. Eppure
immagino queste parole stampate
la mia pelle divaricata.

lunedì 14 aprile 2014

"Approssimazioni" a San Severo e a Locorotondo



... "la città del mio pensiero / dove prospera la vite / e l'inverno è alquanto mite". Chi ha letto Andrea Pazienza sa di che cosa parlo.
A San Severo (pron.: Sanzevéiro, con la "z" dolce, please), provincia di Foggia, il prossimo mercoledì, 22 aprile 2014, avverranno due fatti storici.
Il primo è che io tornerò al mio paese, evento che merita la stessa attenzione delle eclissi, dei terremoti e dei cambi di pontificato.
Il secondo è che incontrerò Antonio Lillo, dopo anni di frequentazioni puramente telematiche. Nell'occasione, presenteremo il mio/suo/nostro (mio come autore, suo come editore, quindi nostro) ultimo libro di poesie, "Approssimazioni" (Pietre Vive, 2014).
L'incontro avverrà alle ore 20, presso le Cantine d'Araprì (via Enrico di Troia, 12). Interverranno anche il poeta Enrico Fraccacreta, l'attore Luigi Minischetti e il guppo jazz Bulles Notes Quartet. Seguirà rinfresco.
Insomma: poesia, musica, il bel cielo della Puglia, e alla fine si mangia pure. Che volete di più, il sangue?
Chiunque voglia partecipare è il benvenuto. Si entra pure a gratis, pensate un po'.

* * *

Ma, dato che noi pugliesi non ci facciamo mancare proprio niente, per chi si dovesse perdere l'evento (oppure volesse addirittura duplicarlo), due giorni dopo, giovedì 24 aprile, io e l'inestimabile Lillo saremo a Locorotondo (BA), presso la Libreria "L'Approdo" (Largo Mitrano, 5).
Presenta Daniela Gentile, ospite Michela Neglia, autrice delle bellissime illustrazioni che arricchiscono il libro. Anche qui, è previsto un momento musicale i cui dettagli sono in via di definizione.

Oh, io sono in tour. Il mio fan club si mobiliti.

domenica 13 aprile 2014

mi si recensisce...



Un libro di poesie erotiche, con una copertina esplicita e disegni all’interno particolarmente maliziosi. Salvo poi scoprire che i disegni sono di una ragazza, Michela Neglia, e allora il tutto acquisisce un significato armonico di unione, di unita centralità, di abbraccio esistenziale. L’umida soglia del corpo femminile diventa non solo desiderio (o agonia) maschile ma punto focale e d’equilibrio per entrambi i generi, e non solo per la sua proprietà riproduttiva. Quella sottile fessura diventa un punto d’appoggio come lo erano le rime per gli aedi. Diventa abbraccio dove sentirsi amati, a casa. Fermi e al sicuro nonostante l’incertezza della quotidianità...

...continua a leggere sul blog di Alessandro Canzian.

sabato 12 aprile 2014

per me già si piacciono (una poesia di Silvia Vecchini)



Il nostro matrimonio
compie quindici anni
se fosse un ragazzino saprebbe ormai
guidare un motorino
andrebbe a zonzo a cercar ragazze,
farebbe il grande per poi tornare
con la coda tra le gambe
sbatterebbe la porta
resterebbe a letto qualche volta
fino a mezzogiorno.
Se fosse una ragazzina
avrebbe innamorati attorno
eppure s'infilerebbe i pattini
sfidando una discesa
andrebbe a fare la spesa
sbagliando il conto, studiando
userebbe troppi colori
guarderebbe sempre fuori.
Li vedi? Per me già si piacciono
eccoli abbracciati, dentro
ci siamo noi
anche soltanto immaginati.



Nell'immagine: un disegno di Antonio "Sualzo" Vincenti
(che è, per inciso, l'altra metà del matrimonio di cui si parla qui)

venerdì 11 aprile 2014

dopo



E poi c'è l'amore dopo l'amore
(forse più dell'amore)
quando è quasi consumata la fiamma
allora sì che si può ben distinguere
dedicarsi ai dettagli
sezionare i sapori.
Lo so che senti freddo ma ti prego
mi serve ancora tempo
è difficile sai memorizzare
mettere in serbo gli attimi.

giovedì 10 aprile 2014

un ridente paesino



Visintini (o Vizintini), oggi, è un paesotto nell'alto Carso, a pochi chilometri dal confine sloveno. Forse, definirlo "paese" è persino esagerato: visto da Google Maps, appare più o meno come nella foto qui sopra. Quattro case, una chiesetta, una strada principale. Basta. Intorno, vallate ricoperte di boschi verdissimi.
Nel 1916, proprio per di qui passava il fronte. A due passi, c'è San Martino del Carso, quello della celebre poesia di Ungaretti. Chi si trovi da quelle parti, può ancora ripercorrere gli itinerari della Grande Guerra.
A Visintini, fra le migliaia di disgraziati travolti dall'uragano della guerra, c'era un soldato del mio paese. Tota Felice, di anni 27, professione "ortolano", arruolato nel 137° Fanteria, Prima sezione mitraglieri, matricola N. 25028. Tota Felice era nato a San Severo, provincia di Foggia, il 5 settembre 1889, paternità Tota Paolo, maternità De Martino Lucia. Sposato con Visconte Rosa in data 21 febbraio 1914. Un figlio, Paolo, nato mentre lui già era al fronte, mai conosciuto.
Il 3 novembre 1916, Tota Felice ricevette una "ferita da fucile penetrante (al) fianco destro", "durante fatto di guerra". Morì quello stesso giorno, come risulta dall'attestazione del medico militare, dott. Giuliano Tagliabatela, e del cappellano militare don Giovanni Teobaldi. Autenticano il documento il sottotentente d'amministrazione Mario Massi e il maggiore medico A. Ferulli. La sua morte fu trascritta nei registri comunali il 13 gennaio 1917, a firma Fortunato Calabrese, segretario del Comune. 



Felice Tota era il mio bisnonno. Suo figlio Paolo era mio nonno, padre di mia madre. Mio zio, suo nipote, porta il suo nome (e, onestamente, non gli ha portato molta fortuna). Il suo ritratto è rimasto per decenni in casa dei miei nonni. Ora che la casa è stata venduta, è sulla parete dello studio di mio padre, insieme alla medaglia al valore che gli fu conferita. Ovviamente, alla memoria.



Mio nonno, quando ero piccolo, mi cantava sempre La canzone del Piave (io, che non capivo la parola  "placido", la storpiavo in "tiepido") e mi diceva che tra quei fanti c'era anche suo padre.
Il corpo dell'infelice bisnonno Felice, oggi, riposa nel sacrario di Redipuglia. Sono andato da quelle parti una sola volta. Pioveva a dirotto e non riuscimmo a visitare il cimitero.

mercoledì 9 aprile 2014

cronache familiari: just in case...



"Mamma, ma... i dinotauli... tono motti?"

(Lorenzo, dopo aver visto "Jurassic Park")

martedì 8 aprile 2014

cronache familiari: sdolcinerie assortite



"Papà!"
"Dimmi, ciccio."
"Io voio giocare con quaccuno."
"La sorellina sta finendo i compiti, aspetta un po' e poi viene a giocare."
"Va bene."
"Me lo dai un bacino?"
"Lo tapevo, che volevi un bacino."
"Certo, il papà, la mamma, la sorella, tutti vogliono un bacino da te."
"Eh, tì! Pecché mi volete tanto bene!"

* * *

"Mamma! Mammina! Mamma due!"
[Lorenzo, abbracciando la sorella]

* * *

"Mamma, è ttato il compleanno più bello della mia vita."
[il quarto, NdR]

* * *

Uffa, ma quando alliva la mamma? Tono anni che la appetto!"

* * *

"Mamma, tu e la tolella tiete pemmine, io e i' ppapà tiamo macchi. Tiamo una pamiglia!"

lunedì 7 aprile 2014

certe volte...



...basta solo qualche buon colpo di forbici per trasformare una poesia nata storta in qualcosa di ascoltabile.

* * *

La domanda di stasera è se indossare
una faccia consona
o se invece favorire gli attriti.

Mi pare già di vedere tutti i loro sogni
della prossima notte
però solo io conosco la strada
per affondare tra un seno e l'altro

so quanto sono attutiti lì i rumori
quanto è dolce l'asfissia
quanto è vero e pulito quel calore.

Qualcuno è rientrato in una scia d'aria
ma io ora troverò un posto
dove scrivere dei versi
dopo mi dedicherò alla tua bocca.

Anche una sera come questa può offrire qualcosa
per esempio il tuo morso di faina
e il buon sapore del sangue.


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nell'immagine: Suzanne Valadon, "Nudo di schiena allo specchio" (1910)

domenica 6 aprile 2014

sabato 5 aprile 2014

du bist was du isst


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La colecisti e l'epididimo e l'intero apparato circolatorio
oltre alla mia mano addormentata sulla tua mammella
per non parlare ovviamente del corpo calloso delle più delicate
sinapsi e del glande venuto in contatto con il collo dell'utero
insomma ogni sistema resta tale finché è integro e interconnesso
e per sistema intendo ovviamente anche uno binario.
Il primo colpo di bisturi lo scompagina senza rimedio
la resezione lascia in eredità ispessimenti e cheloidi
l'ustione compromette per sempre la sensibilità.

Del resto una volta violate dalla lama e dal dente
anche le preparazioni più laboriose assumono l'aspetto
di organismi squarciati e una tavola dopo il pasto
è un repertorio di dissezioni e di sevizie.
È tutta lì l'arte: approntare bellezza per la devastazione.

Tu però cerca di essere prudente perché una volta
svuotato il mediastino difficilmente ritorna
all'equilibrio originario.

venerdì 4 aprile 2014

lampi - 244


Non combattere il caso.
Accettarlo.
Amarlo.

giovedì 3 aprile 2014

aforismi post-onirici




La prima fase della poesia è il poetico.
La seconda è l'impoetico.
La terza, di nuovo, il poetico.



(Mi sono addormentato sul divano e mi sono risvegliato con quest'aforisma in testa.)

mercoledì 2 aprile 2014

dalle vette




Leggo Lo stile classico. Haydn, Mozart, Beethoven di Charles Rosen (Adephi, 2013). Tomone di 600 pagine sulla genesi e l'evoluzione del classicismo viennese. Una di quelle robe che appassionano me e fungono da narcotico per gli altri. Comunque, libro geniale, senza mezzi termini.
A pagina 44, trovo questo brano:

La storia della musica, come quella di ogni arte, è spinosa proprio perché l'oggetto di interesse è l'eccezione, non la regola. Ciò vale anche per il singolo artista: a caratterizzarne lo “stile” personale non sono i procedimenti consueti, bensì gli esiti più riusciti e originali. Il che parrebbe, in ultima istanza, negare la possibilità stessa di una storia dell'arte: vi sarebbero soltanto singole opere, ciascuna delle quali autosufficiente e capace di definire un proprio canone. L'opera d'arte, ed è una contraddizione essenziale, non consente parafrasi né traduzione, eppure può essistere solo entro un linguaggio, il quale implica, come condizione necessaria, che parafrasi e traduzione siano possibili.

E più avanti (pp. 80-81):

Lo “stile anonimo” di un'epoca, i palazzi costruiti da architetti di poco conto, i libri interessanti per una sola stagione, la pittura che non va al di là della decorazione, tutto ciò si sedimenta poco alla volta [...]. Non che lo “stile anonimo” sia particolarmente tenace, ma ha un'immensa inerzia. Se guardiamo invece allo “stile” come a una forma integrata di espressione, alla portata solo degli artisti migliori, […] portar[lo] avanti, in quest'accezione, è un atto eroico quanto l'inventarlo. […] Le possibilità dell'arte sono infinite, ma non senza confini. Anche una rivoluzione stilistica è delimitata dalla natura del linguaggio in cui ha luogo e che poi trasformerà.

Le trovo osservazioni profondamente vere.
Se pensiamo al grande musical americano classico, vediamo i Cole Porter, i Gershwin, gli Irving Berlin, non le centinaia, migliaia di anonimi mestieranti. Nello swing, vediamo Basie, Goodman, Fletcher Henderson, non la miriade di umili band che non hanno lasciato tracce né hanno mai calcato i grandi palcoscenici (si legga L'era dello swing di Gunther Schuller, per farsene un'idea). Persino nella carriera dei grandi musicisti, focalizziamo i capolavori, gli once-in-a-lifetime, non la routine dei concerti, delle serate, dei viaggi, delle tournée massacranti.
Lo stesso vale per qualunque arte: i grandi capolavori del romanzo ottocentesco e i tanti libri dimenticati e finiti al macero; le opere sublimi del Rinascimento e le infinite, anonime pale d'altare disseminate nelle pievi e delle cappelle di campagna.
Forse questo è anche il motivo per cui il passato sembra sempre più bello del presente, per cui c'è sempre un laudator temporis acti pronto a intonare la trenodia dell'arte. Dalla lunga distanza, noi distinguiamo le vette, non le pianure e le depressioni. Riconosciamo i giganti e ignoriamo non solo i nani, ma anche gli uomini comuni.
E lo stesso ragionamento, in fondo, si può applicare alla nosta vita: dell'adolescenza, si ricordano i primi amori e le nottate con gli amici, si dimenticano l'inquietudine, l'angoscia, la libido dissipandi.
Forse è una condizione necessaria per continuare a vivere.

martedì 1 aprile 2014

sono loro




Lo fanno loro questo squillo
altissimo. Sono le cose
che si aprono, e cantano,
e ci spalancano il cuore.

Umberto Fiori




nell'immagine: Canadian dawning (foto mia)
Toronto, giugno 2013