lunedì 28 febbraio 2011

povera italia



http://www.youtube.com/watch?v=mT2aaxTr9yg


“Adamo ed Eva sono 
personaggi storici e sono i progenitori dell’umanità”.

(Roberto De Mattei - docente di Storia del Cristianesimo presso l'Università Europea di Roma - direttore del CNR dal 2004 al 2008 - direttore del mensile "Radici Cristiane" - curatore del convegno: "Evoluzionismo: il tramonto di un'ipotesi" - autore di volumi come: "Turchia in Europa. Beneficio o catastrofe?"; "De Europa: Tra radici cristiane e sogni postmoderni"; "Holy War Just War"; "La dittatura del relativismo".)

domenica 27 febbraio 2011

scherzi da wiki

(clicca sull'immagine per ingrandire)

sabato 26 febbraio 2011

lampi - 110




“MA CEEERTO che mi ricordo di te!!”

(“...ti ho toccato una tetta in seconda liceo.”)

venerdì 25 febbraio 2011

è morto un poeta


Un poeta che non conoscevo, che scopro solo adesso.
Luigi Di Ruscio (apprendo) era marchigiano, emigrato in Norvegia alla fine degli anni Cinquanta, aveva sempre fatto l'operaio metallurgico e non aveva mai pubblicato per un grande editore.
Della sua poesia hanno scritto Franco Fortini, Salvatore Quasimodo, Antonio Porta, Sebastiano Vassalli, Tiziano Rossi.
E' morto mercoledì scorso, 23 febbraio 2011, a 81 anni.
Su Nazione Indiana (da dove traggo le poesie che seguono) c'è un suo ricordo; qui c'è un sito su di lui; e qui si può scaricare in pdf un suo intero libro, Le streghe s'arrotano le dentiere (1966).

* * *

con la fine degli umani i grattacieli
si copriranno improvvisamente di licheni spumosi
gli asfalti inizieranno fioriture
che richiameranno gli insetti più luminosi
nessun gatto
rischierà di venire castrato
e nell’universo rimarrà lo splendente ricordo
di essersi visto con l’occhio umano

* * *

stuoli di zanzare gigantesche
poi piogge che scoperchiavano i tetti
fischiavo continuamente nel vano tentativo
per fare sapere a tutti che c’ero anche io
con tutti i miei versi che venivano decifrati solo
dei complici della nostra congiura poetica
anche quando era andata via la luce
e ci urtavamo ridevamo
poi ritornò tutto come prima
e rivedemmo nelle nostre facce la solita ferocia

* * *

fate molta attenzione alle cose la realtà era una capsula fulminante
le parole più reali della realtà stessa
la mia povertà me le faceva amare disperatamente
poesia istantanea senza incertezze
a comunicazione rapidissima come segnali stradali
negli ingorghi stradali potevi anche metterti a volare
le cose perse le ritrovavo subito appena smettevo di cercarle
trovo tutto meno quello che cerco

* * *

oggi primo aprile festa della creazione del mondo
anniversario dell’esplosione dell’uovo comico o cosmico che sia
la rivelazione del verbo essere
quando tutti i verbi iniziarono l’espansione universale
qui viviamo sotto l’influenza dell’oceano
lunghi gli inverni e cortissime le primavere
qui morirò in piedi o in bicicletta
o fulminato dal traffico o dall’arteriosclerosi
e quella la sfera metallica durissima va scalfita
scovare la belva rintanata dentro di noi
segnalare col solo fischiare
questa vita assolutamente non richiesta

* * *

sapevo bene che andare contro la propria coscienza
è pericolosissimo soprattutto per me
che vado sempre in bicicletta
uno rischia come niente fosse la catastrofe sull’asfalto
rischi un cancro al cervello come niente fosse
insonnie e lutti in un inferno continuo

* * *

la speranza andava mostrata subito
inutile tenerla nascosta
per paura che venisse derubata
sostenerla con versi blasfemi o sferici
e alla fine delle composizioni
come sbattendo il coperchio
di una cassa da morto
per chiudere tutto

giovedì 24 febbraio 2011

noi qui


Noi qui, separati dai nostri gesti. Tu blocchi
il flusso dei secondi con un gemito. Componiamo
l’antica rima e subito cadiamo. Le pareti
restano lì, macchiate di rimmel.
L’angelus dell’alba ti guarda, nuda e taciturna.
Oscilla nel respiro la chiave. Ogni porta,
ogni lampadina, ogni spruzzo della doccia dicono
che si è rotta l’alleanza.

Milo De Angelis
(da "Tema dell'addio", Mondadori 2005)

mercoledì 23 febbraio 2011

archeologia informatica

Ovvero: abbastanza vecchio da aver usato questa roba.


Floppy disk da 5 pollici e 1/4 (quelli grossi e flessibili) - fine anni '80



Commodore 64, con mangianastri e joystick - metà anni '80



Sistema operativo MS-DOS - prima metà degli anni '90



"Budokan - The martial spirit" - primissimi anni '90

martedì 22 febbraio 2011

lunedì 21 febbraio 2011

visioni - 3


Gran Torino (2008), di Clint Eastwood (116')
(DVD, domenica 20 febbraio 2011)

Lo so, ormai è di prammatica osannare l'ultimo Eastwood: di conseguenza, è anche very cool parlarne male. Però a me delle mode me ne frega assai poco, e se un film mi piace, mi piace, sennò ciccia.
Detto questo: io volevo vedere “Gli spietati”, solo che per qualche motivo nel dvd l'audio in italiano non funzionava, e il film era solo in francese o in inglese. Ora, con il francese manco ci provo; con l'inglese me la cavo discretamente, ma devo essere concentrato, ed è difficile concentrarsi mentre si stira (sì, ho passato il pomeriggio di domenica a smaltire un mucchio di panni da stirare, mentre la moglie stava dietro ai marmocchi). Quindi è andata con “Gran Torino”.
Venendo al film: Walt Kowalski (Eastwood) è un reduce dalla guerra di Corea, un uomo invecchiato male, burbero, xenofobo, nemico del mondo, tormentato dai ricordi della guerra. Da poco è rimasto vedovo, il suo quartiere si è riempito di asiatici, che lui disprezza. I suoi unici affetti sono un cane e una macchina sportiva, la Ford "Gran Torino" che dà il titolo al film.
Finché un giorno, per puro caso, Walt salva il figlio dei vicini, un adolescente timido e insicuro, dall'aggressione di un gruppo di teppisti. Diventa, suo malgrado, l'eroe della locale comunità di immigrati (si tratta degli Hmong, un'antichissima etnia diffusa tra la Cina e il Sud-Est asiatico).
Il rapporto tra l'uomo e il ragazzo è quello che ci si può aspettare: il ragazzo impara a diventare uomo, l'uomo esce a poco a poco dalla sua astiosa solitudine. Ma davanti a Walt tornano a pararsi davanti i fantasmi della violenza, imponendogli una scelta: restare schiavo del passato, oppure trovare una strada nuova.
Il finale, ovviamente, non si rivela, ma basti dire che è la più radicale negazione dello stereotipo del duro Callaghan-style, a cui Eastwood è associato. Un finale cristiano, nel senso più alto e più puro del termine.
Il film è asciutto, essenziale: sceneggiatura millimetrica, personaggi perfetti, interpretazioni senza una sbavatura, regia tanto più magistrale in quanto quasi invisibile. Un film morale senza mai essere moralista, commovente senza essere melenso, ricco di una sua sottile e sorniona ironia.
Dicevo che è très chic parlar male di Eastwood, ma io che posso farci? Un capolavoro è un capolavoro.

domenica 20 febbraio 2011

recensioni in pillole 97 - "L'orso"

Michel Pastoureau, L'orso. Storia di un re decaduto, Einaudi 2008 (348 pp. + illustrazioni, € 26)

Quanti di voi, regalando un orsacchiotto di peluche ai propri bambini, pensano di star regalando l'ultima reliquia di un antico dio?
E invece è questa una delle tante scoperte che si fanno leggendo questo libro.
Michel Pastoureau è uno dei massimi specialisti mondiali nel campo del simbolismo medievale; i suoi saggi, come “Medioevo simbolico” o “Blu. Storia di un colore” sono veri e propri capisaldi sull'argomento. Qui, allarga l'analisi a un arco temporale che va dal Paleolitico ai giorni nostri.
Scopriamo così che l'orso era venerato probabilmente già nella Preistoria, e che nel sistema simbolico di molti popoli europei era ben più che una bestia: lo si vedeva come un parente stretto dell'uomo, una sorta di tramite tra mondo umano e mondo animale, e anche come un essere da venerare e rispettare, nel quale identificarsi per assorbirne le virtù di forza e di coraggio. Apprendiamo che, per secoli, il “re degli animali” fu proprio l'orso, e non il leone; che il suo culto era diffuso in una vasta area che comprendeva buona parte dell'Europa settentrionale (ma si allargava tranquillamente fino ai Greci e ai Romani); che fino all'Alto Medioevo era lui l'animale simbolicamente associato ai sovrani e ai guerrieri.
Il predominio dell'orso nell'immaginario degli uomini d'Europa fu pressoché incontrastato fino a tutta l'Antichità, con tracce profonde anche nel folklore. Solo con l'avvento del Cristianesimo, la Chiesa intraprese una sistematica opera di sradicamento di questi culti, che erano avvertiti come pericolosamente legati al paganesimo. Ecco dunque che le festività legate all'orso furono sostituite con feste di santi cristiani (santi, non di rado, collegati a leggende in cui sconfiggevano e sottomettevano la belva), che all'orso furono via via attribuite caratteristiche ora ridicole, ora tout court diaboliche, e che il suo trono nel mondo animale fu via via usurpato dal leone, animale esotico e perciò molto meno compromesso con il passato pre-cristiano. L'orso divenne il buffo protagonista di favole e racconti umoristici, venne domato, umiliato, esibito come curiosità nelle fiere di paese.
Un libro affascinante, erudito e divulgativo allo stesso tempo. Nel quale si intravvede anche quanto le menti degli uomini del passato fossero capaci di gestire un'enorme complessità simbolica; una capacità che, forse, noi stiamo perdendo, se non l'abbiamo già perduta.

sabato 19 febbraio 2011

l'ultimo istante


Poi dissolti i legami chimici
irradiato nell'aria il sangue
resta la pena
lo stormo staccato dalla grondaia traccia
segni deride il senso
dovremmo riunire fino alle più minute schegge
il fiore chino l'aria che si intorbida
la vena rotta la lingua
violata
ma nemmeno allora c'è scampo
l'ultimo istante si flette
a nuove generazioni.

venerdì 18 febbraio 2011

...e poi vengano a dirmi che mozart è "apollineo"



http://www.youtube.com/watch?v=5aFZ8xz-3gg


Ach, ich fühl’s, es ist verschwunden!
Ewig hin der Liebe Glück!
Nimmer kommt ihr Wonnestunden
Meinem Herzen mehr zurück!

Sieh, Tamino! diese Tränen
Fließen, Trauter, dir allein.
Fühlst du nicht der Liebe Sehnen
So wird Ruhe im Tode sein!

* * *

Ah, lo sento, è svanita!

Andata per sempre la felicità dell'amore!

Non tornerete ore di gioia

mai più al mio cuore!


Guarda, Tamino, queste lacrime

scorrere, caro, solo per te.

Se tu non senti il desiderio d’amore

allora la quiete sarà nella morte!

giovedì 17 febbraio 2011

lampi - 109


"Come da piccolo con la febbre", pensa quando, svegliandosi una mattina, scopre di non essere più innamorato.

mercoledì 16 febbraio 2011

recensioni in pillole 96 - "Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm"

J. R. R. Tolkien (a cura di Wu Ming 4), Il ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm, Bompiani 2010 (95 pp., 9 €)

L'ho detto e non lo nego: i Wu Ming mi stanno antipaticuzzi, però è innegabile che sanno scrivere, e che come agents provocateurs culturali sono quasi sempre intelligenti e acuti.
Poi, non so se l'ho già detto, ma comunque lo dico ora: considero Tolkien uno scrittore di gran lunga superiore ai suoi tanti epigoni e mi pare un vero peccato relegarlo nell'odiosissima categoria della “letteratura per ragazzi”.
Detto questo: Wu Ming 4 si era già occupato di questo testo in un interessante libretto che avevo letto e recensito qualche mese fa. Ora lo ripubblica, con una serie di utili apparati.
Si tratta di un racconto nato a margine della “Battaglia di Maldon”, uno dei più noti poemi dell'antica letteratura anglosassone, incentrato sull'ultima eroica battaglia del conte Beorhtnoth, anziano condottiero inglese caduto in uno scontro con gli invasori vichinghi, il 10 agosto del 991.
In estrema sintesi: Beorhtnoth ha fermato i nemici in una strettoia, dove potrebbe facilmente tenerli inchiodati; ma tutto d'un tratto cambia idea e concede loro di passare per affrontarlo in campo aperto. Grave errore, perché gli avversari, in numero soverchiante, massacrano il conte e il suo esercito per poi dilagare rovinosamente in tutto il paese.
Tolkien compie una doppia operazione, filologica e meta-narrativa. Filologica, perché rilegge uno dei termini-chiave del poema, ofermod, con il quale l'antico poeta definisce il comportamento del conte. Tolkien ne rovescia completamente l'interpretazione: non semplicemente “orgoglio”, ma “orgoglio smisurato”, “temerarietà”. Meta-narrativa, perché per sostenere la sua tesi scrive un'ipotetica prosecuzione del poema, nella quale due personaggi, Tìda e Totta, raggiungono il campo di battaglia per riportare indietro il cadavere decapitato del condottiero.
Entrambe le operazioni hanno un identico fine: una critica radicale dell'ideale eroico, basato sulla ricerca della gloria personale a scapito di qualunque altra considerazione. Secondo l'interpretazione di Tolkien, Beorhtnoth ha agito spinto dall'ambizione di conquistarsi una morte gloriosa, senza tener conto di un dovere più alto, quello di difendere l'intero paese e la popolazione a lui affidata.
Considerazione utile a quanti considerano l'epica tolkieniana un'esaltazione nazistoide dell'eroismo superomistico.
Il libro include anche il poema originale e un bel saggio dell'esperto tolkieniano Tom Shippey.

martedì 15 febbraio 2011

recensioni in pillole 95 - "L'amore molesto"

Elena Ferrante, L'amore molesto, e/o 2008 (prima ed. 1992) (178 pp., € 8)

Una volta tanto, mi ricordo dove e quando l'ho comprato: alla libreria della Stazione Termini, l'ultima volta che sono stato a Roma, nel novembre scorso. E anche perché: perché anni fa registrai dalla tv l'omonimo film di Mario Martone, su un vhs che poi non rividi più e che deve essere ancora lì a prender polvere nella casa in Puglia.
Solo dopo ho scoperto che di Elena Ferrante non si sa quasi nulla, che ha sempre rifiutato di comparire in pubblico e che molti sospettano sia un pseudonimo, forse addirittura di un uomo. Non che la cosa mi interessi più di tanto, comunque.
Questa, ad ogni modo, è la sua opera prima. La protagonista, Delia, è una donna di mezza età che, dopo molti anni, torna nella sua città natale, Napoli, per i funerali della madre, morta annegata in circostanze misteriose (suicida? uccisa?). Il ritorno costringerà Delia a fare i conti con un passato rimosso, fatto di violenze familiari, colpa e oppressione.
La scrittura della Ferrante affonda il bisturi in una materia psichica sgradevole, satura di antichi rancori e di ricordi irranciditi. Si focalizza su Delia, ne segue gli andirivieni della memoria, la progressiva presa di coscienza, man mano che si confronta con i traumi della propria infanzia, con una madre amata e odiata, un padre debole e tirannico, una famiglia devastata.
Il tutto in uno stile fermo, privo di patetismi, misurato anche nei momenti più intensi.
Sullo sfondo, una Napoli cupa, oppressiva, una “città senza colori” segnata dalla decadenza e dalla sopraffazione.

lunedì 14 febbraio 2011

lampi - 108


L'autore, questa fastidiosa inevitabile escrescenza appiccicata al testo.

domenica 13 febbraio 2011

già: quando?


Iniziativa nobile, condivisibilissima. Multo laudabilis, come diceva un prete di mia conoscenza.
Però non ho firmato l'appello.
Non perché non sia d'accordo. Sono il primo ad essere stanco della mignottocrazia, delle battute fallocratiche, dell'esibizionismo machista di Colui-che-sappiamo. Io, poi, ho anche una bambina, e l'ultima cosa che mi auguro per lei è di finire a far da odalisca per un vecchio satrapo, al pari delle varie Ruby, Noemi, Mara o Nicole (a proposito, ma ce n'è una con un nome da essere umano?).
Ma non ho firmato, e i perché sono tanti.
Perché, come dopo tutte le manifestazioni, ognuno resterà della propria opinione: chi è contro di Lui resterà contro di Lui, chi è per Lui crederà alla versione data da Lui (a grandi linee: iniziativa pretestuosa della Sinistra che vuole sovvertire il voto popolare, gli Italiani sono con me).
Perché, per male che possa fare il sentirselo dire, gli Italiani sono davvero con Lui. Forse gli italiani sono come Lui.
Perché, manifestazioni o non manifestazioni, zoccolette pronte ad accorrere per soddisfarlo ce ne saranno sempre.
Perché, anche ammesso che Lui cada, o lasci, qual è l'alternativa? A sinistra, taccio per carità di patria; a destra, c'è Fini, ed è tutto dire; al centro, come sempre, governa la forza di gravità e confluisce la merda.
Ma soprattutto perché più passa il tempo, più mi convinco che Berlusconi sia molto meno la causa che non la conseguenza di quel che oggi ci succede intorno. Perché, se c'è un evento che condivido con la mia generazione, è il funerale della Speranza. Non la speranza, proprio la Speranza, quella con la S maiuscola, insomma l'Utopia, il Grande Cambiamento, o come volete chiamarlo.
Quando dico "la mia generazione", parlo di coloro che oggi sono tra la fine dei venti e l'inizio dei quarant'anni; quelli nati tra l'ultimo scorcio degli anni Sessanta e i primissimi anni Ottanta (io sono esattamente nel mezzo: 1975).
Odio parlare al plurale, ma per una volta consentitemi di farlo.
Noi conserviamo tra le nostre prime memorie i cartoni giapponesi.
Noi abbiamo cominciato a prendere coscienza dell'Eterno Femminino grazie a Edvige Fenech, Gloria Guida, Lamu, Occhi di Gatto, Colpo Grosso, Drive In e i cataloghi della biancheria intima di Postalmarket.
Noi eravamo tra l'infanzia e la prima adolescenza quando sono comparsi in casa dei grossi e goffi scatoloni che abbiamo imparato a chiamare “personal computer”.
Noi abbiamo acquisito una coscienza politica tra gli ultimi sinistri bagliori della Prima Repubblica e conserviamo un flebile ricordo di nomi che oggi sanno di preistoria: Dc, Psi, Pli, Pci, Cigiellecisleuìl, Craxi, Occhetto, De Mita, Pentapartito, Forlani, Gava, Goria, Spadolini.
Noi eravamo adolescenti, o poco più, quando abbiamo visto crollare muri, bandiere, statue, abbiamo guardato in TV statisti poco prima potenti e osannati e ora bersagliati da insulti e monetine, bombe sulle autostrade, guerre sull'altra sponda del mare; abbiamo visto tramontare per sempre un simbolo glorioso e infame, e lasciare al suo posto un deserto che nessuno ha ancora popolato.
Noi abbiamo accolto i primi modem, macchine fracassone, tardigrade, l'avanguardia del futuro.
Noi abbiamo sentito parlare di Mani Pulite, di Seconda Repubblica, di fine della Storia. E si è visto come è andata a finire.
Noi abbiamo assistito agli anni Novanta: la discesa nel Maelstrom, la morte cruenta di tutto quanto di buono e di cattivo aveva prodotto il Novecento.
Noi abbiamo imparato dall'esperienza dei nostri padri e dei nostri nonni: e ci siamo abituati, forse per la prima volta, a pensare che saremmo stati peggio di loro; a non pensare al futuro, perché un futuro non c'era, e se anche c'era era meglio non vederlo.
Noi abbiamo un autoritratto, ed è questo:


http://www.youtube.com/watch?v=_RFOdJmBlz8

sabato 12 febbraio 2011

bagno di sangue

Poi dice che le nuove generazioni crescono con le turbe psichiche.
Comunque, bell'anime. Un tantino troppo ripreso da Akira, ma carino.






...ed essendo giapponesi, non poteva mancare il coté perverso (da 6'50" a 7'30"):

venerdì 11 febbraio 2011

lampi - 107


Averla accanto in minigonna per due ore, e va bene.
Vederla alla spiaggia con quel micro-bikini, si può anche reggere.
Ma rendersi conto che è praticamente identica a Sheila Tashikel no, è davvero troppo.

giovedì 10 febbraio 2011

lampi - 106


Se la gente che mi conosce conoscesse anche i miei pensieri.

mercoledì 9 febbraio 2011

recensioni in pillole 94 - "Fondazione Babele"

Massimo Semerano/Marco Nizzoli, Fondazione Babele, Blackvelvet Altrevisioni 2008 (183 pp., € 19)

“Fondazione Babele” la ricordavo perché nei primi anni Novanta, quando leggevo fumetti in maniera pressoché compulsiva, mi erano capitati in mano degli albetti con un paio di avventure della serie. È probabile che li avessi comprati al Buco, un posto alquanto sordido, praticamente uno scantinato in un vicolo di Perugia, nel quale un vecchio dall'apparenza laida smerciava di tutto, dai numeri originali di Frigidaire ai pornazzi usati (per la cronaca, il posto è stato chiuso qualche anno fa, quando la finanza scoprì un giro di film porno amatoriali, realizzati da coppie perugine e venduti sottobanco dal suddetto vecchio).
Comunque, lo stile di Marco Nizzoli – all'epoca esordiente – mi aveva colpito, e negli anni successivi lo avevo incrociato altre volte, ad esempio in un paio di numeri della bella (e purtroppo defunta) serie bonelliana “Napoleone”, o in alcune storie erotiche davvero ben fatte. Poi l'avevo perso di vista, e solo di recente ho scoperto che ormai lavora in prevalenza per il mercato fracese (come al solito, noi italiani i nostri talenti ce li teniamo ben stretti). Se volete un'idea, diciamo che è un qualcosa che sta tra Milo Manara, Moebius e i manga giapponesi, con una spruzzata di Schiele a redere il tutto più elegante. Per i curiosi, qui c'è il suo blog.
“Fondazione Babele” consiste in dieci storie, uscite tra il 1991 e il 1993 su “Cyborg”, una delle tante riviste di fumetto che in quegli anni nascevano e morivano come funghi.
I protagonisti sono tre cinici artisti multimediali che si muovono in una futuribile New York cyberpunk: il nasuto Vincent “Squalo” Klein, il palestrato Kurt Interior, l'adolescente tecnomaniaco Mitsuhiro Honda e lo spregiudicato manager Pantaleo. A loro si aggiunge Rosa Casta, procace ex-pornostar dalla pettinatura fallica, morta nell'esercizio delle sue funzioni e poi risorta grazie a una misteriosa entità aliena che ha preso possesso del suo corpo.
Le tavole di Nizzoli sono esplosioni di virtuosismo grafico, sovraccariche di dettagli, e Semerano le serve con sceneggiature grottesche e lisergiche.
Nell'introduzione, si parla di un possibile prosieguo della serie. Io ci spero.

martedì 8 febbraio 2011

la memoria dei morti


Antoine batte le unghie sulla lampadina e la fa dondolare; da un graffio sullo smeriglio esce un filo di luce chiara che scivola su e giù per le pareti e si spezza lungo gli angoli dei mobili.
– Era un ragazzo qualsiasi – sospira Fiore lisciandosi i capelli sulla fronte – come me. Poi si sdraia nuovamente e riprende a soffiare in aria delle piume che via vi sfila da un cuscino. – A quest'ora si andava sulla collina a lanciare razzi o a far scoppiare il tritolo nella cava di lignite. Ma già, lui non sa niente di quest'ora.
– No – risponde Antonie, e picchia più forte le unghie sulla lampadina, – e non importa. Mio caro – si avvicina al ragazzo fino a toccarlo con il volto – e neanche a lui, ora importa. Lascia stare, succede sempre così; si va e si viene e non facciamo in tempo neppure a guardarci attorno. Un giorno anche tu non sarai più niente e anch'io, prima di te. Vuoi dell'altro bodino?
Il ragazzo non gli risponde ed egli si alza dal divano e va a chiudere le imposte, marcie e piene di fessure; prima di chiudersi sbattono sui fili di ferro per la biancheria e stridono a lungo nel solco del davanzale. – Tuttavia dimenticare – soggiunge Antoine – non è così facile come sembra, ci vuole del tempo. Anche se si è morti.
Ora che le imposte sono chiuse la camera sembra più buia; ad eccezione di quel filo che oscilla, la luce rossocupa della lampadina non illumina nulla in modo particolare; si disperde nella stanza come un riflesso rilevando soltanto lo specchio, gli oggetti di vetro, gli occhi, e le scarpe di Antoine.
– Con questa luce non ci si vede.
– Non ci si vedeva neanche prima, sono le sei.
– A lui non importerà niente di quest'ora?
– Mah, può darsi che se ne sia già dimenticato, – sussurra Antoine e, immerso il dito nel bodino lo succhia rumorosamente.
– Credi in Dio tu? – continua con il dito in bocca.
– Ci ho sempre creduto, se vuol dire l'Inferno, il Paradiso e il Purgatorio.
– Ah, sì?
– Certo, e ci penso sempre anche. Penso a Dio, alle anime del Purgatorio; una volta mia nonna mi faceva dire il requiem aeternam; ma ora l'ho dimenticato. Sarebbero inutili perché, tanto, i morti riposano in pace lo stesso.
– Lui non credeva in Dio, – dice Antonie. Ferma la lampada, per favore, appena la tocchi va avanti e indietro e non la finisce mai.
Fiore la prende in mano e chiude un occhio per guardare dentro lo spiraglio; ma subito dopo chiude anche l'altro perché l'intensità del filo luminoso lo fa lacrimare.
– Hai ragione a non dirle più – riprende Antoine – non potrebbero ascoltarti là dove sono; hanno altro da fare.
– Cos'hanno da fare? Sono morti.
– Non sono morti del tutto, mio caro; prima devono marcire, devono andare via dalla terra, il più presto possibile, andarsene, buttar via tutto. Credimi, non è mica facile dimenticare; noi li dimentichiamo, ma loro, poveretti, restano anche oltre il nostro ricordo. La terra serve, poco; sai, ci vogliono anni per marcire, per buttar via questa bella polpa cicciosa, e poi ci sono le ossa, dure come pietre, che si sciolgono un poco, un poco alla volta, queste puttane: dopo dieci anni si spellano un pochino; dopo altri dieci, se la terra è buona e l'acqua vien giù a diluvi, allora cominciano a marcire, ma poco, soltanto alla superficie. Così passa il tempo e loro stanno là fermi senza muovere un dito, rabbiosi e cattivi come cani, ad aspettare i temporali per fare più presto. Poi, eh! Poi c'è la cosa più brutta di tutte.
– Cos'è? – chiede Fiore debolmente; e gli sembra di avere ancora negli occhi quel filo luminoso che a tratti si spegne e gli chiude le pupille nel buio.
– Il ricordo di tutto quello che avevano addosso, mio caro; occhi, capelli, braccia, sentimenti, cose viste, tutto, per dispetto si riunisce e li fa vivere ancora; vanno in giro per la città, per le case e vengono a salutarci. Ma loro non sanno niente, hai detto giusto tu, sono morti, non sanno niente, stanno fermi immobili dove li hanno messi; in qualunque posto, sotto terra o sopra la terra, o ingorgati dentro una fogna, per loro, va tutto bene. Non mangiano più come noi; ma non hanno finito di pensare. Nessuno sa cosa sono, mio caro, e forse non sono niente. – Si china a succhiargli le labbra.
– Era il mio migliore amico – sussurra Fiore dopo una pausa, e allunga una mano a raccogliere una piuma.
– Già, a te importa solo lui, non hai altri a cui pensare. A te importano la sua voce, la sua figura; ti aspetti che a quest'ora, come al solito, lui si faccia vedere a quella porta, tutto nero e con quel suo sorrisetto; che venga avanti con le mani in tasca e si sieda qui a scaricare lo stomaco. Capitava anche a me una volta, quando la gente moriva sotto i baldacchini e a tutti dispiaceva; ma adesso, mio caro, la gente muore con le unghie sporche e il cappello che cade da un lato; e lascia perdere l'agonia, il segno della croce e anche chiamare aiuto.
Antoine parla lentamente, e a ogni parola getta per terra una pallina di vetro colorato che stride sulle piastrelle e corre ticchettando fin sotto l'armadio.
– Alla mattina presto i gelatai o un contadino che vende erba melissa trovano uno seduto nei pisciatori con le gambe larghe e i pantaloni sbottonati che invece di essere ubriaco è senza il cuore. Oppure, all'ospedale, una monaca passa davanti al letto di una donna e vede che quella non si muove più; due ore fa continuava a lagnarsi e lei allora le aveva dato un uovo che ora vien fuori dalla bocca e dal naso; allora pensa: «Un uovo portato via dalle mani della Divina Provvidenza». E se tu muori, tua madre, che ha più soldi di quella di lui, dopo le lacrime penserà al carrozzone di lusso e a una bella corona di fiori bianchi. – Infila la mano in un sacchettino di broccato. – Per tutti, quanti siamo, un giorno o l'altro c'è la fine; dicono che sia stato Dio, ragazzo, quando era al mondo, ad avere per noi questo pensiero gentile. Fiore caro, c'è poca speranza che il tuo amico faccia la strada fin qui. Sarebbe bello, lo so; ma non arriverà a tanto; e tu dovresti pensare piuttosto a te stesso, – soggiunge stirandosi le labbra in un sorriso.
Il ragazzo si liscia ancora una volta i capelli e la piuma gli sfugge dalla mano; poi si alza e va a scostare la tenda che copre l'uscio.
– Veniva di qui – dice con la faccia protesa nell'andito buio e le lacrime gli cadono sul petto, sconsolatamente. – In fondo, che cos'ha fatto, Dio, per lui?

Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete (Neri Pozza 1951, pp. 98-102)

lunedì 7 febbraio 2011

il giudice e il boia

In quella prima c'erano già trenta ragazze. Trenta.
Trenta quattordicenni che, legittimamente, hanno per la testa tutt'altro che ascoltare me, specialmente adesso che queste prime giornate quasi primaverili ne mettono in fermento gli ormoni.
Stamattina ne è arrivata un'altra. Dico: stamattina. Il sette di febbraio.
E per di più tedesca, in Italia da poco più di un anno, quindi con competenze in lingua italiana tutte da verificare.
E siamo a trentuno. Trentuno contro uno (io).
Ed è già il secondo quadrimestre.
Ora, tutto ciò è normale? Sì, è normale: perché, se fino all'anno scorso il rapporto massimo consentito era di 25 a 1, quest'anno la Marystar Gelmini ha deciso che si poteva portare a 32 (trentadue!) a 1, e in culo alla sicurezza, e in culo anche alle esigenze didattiche.
Non so se mi spiego: 32 (dico: trentadue) alunni per classe, come se fosse tutto a posto.
Però pensavo: davvero possiamo prendercela con la Gelmini? La quale, in fondo, ha la stessa responsabilità che può avere un boia nei confronti della sentenza capitale che sta eseguendo.
Insomma: sono almeno vent'anni che tutti i governi, di destra e di sinistra, perseguono con criminale ostinazione il progetto di demolire la scuola pubblica, o meglio di svuotarla dall'interno, fino a lasciarne una crisalide rinsecchita.
Adesso, alla Gelmini è stato assegnato il lavoro sporco: dare l'ultimo scossone alla catapecchia. Anzi, la poveretta non dovrà fare nulla di particolare, perché la meccanica del crimine è stata concepita con assoluta precisione: metti la persona più palesemente incapace nel punto di massima responsabilità, e tutto finirà per sbriciolarsi da solo, come un edificio nelle cui fondamenta venga ad aprirsi un vuoto.
Dunque, ora in classe sono trentuno. So già che, nel giro di un paio d'anni, almeno cinque o sei rimarranno sempre più indietro e infine daranno forfait, e io non potrò farci assolutamente niente.
Del resto, chi sono io per oppormi alle magnifiche sorti e progressive?

recensioni in pillole 93 - "Rosso Oltremare"

Manuele Fior, Rosso Oltremare, Coconino Press, 2006 (pag. non num, 16 €)

Detto fatto. Mi ero ripromesso di leggere “Rosso Oltremare”, ed eccolo qua.
Si tratta, se non erro, dell'opera d'esordio di Manuele Fior.
Riassumere la trama non è poi così difficile. Da una parte ci sono Dedalo e Icaro, che trovano la via d'uscita dal Labirinto nel modo che tutti sappiamo. Dall'altra c'è Fausto, un architetto dei nostri giorni, che si è perso in un altro labirinto, quello della sua mente, nel tentativo di ridurre tutto il mondo a raziocinio, ad “armoniosa consonanza”, trovandosi invece assediato dai mostri annidati in fondo alla nostra coscienza. E c'è Silvia, moglie di Fausto, che nel tentativo di aiutarlo consulta un inquietante dottore e la sua misteriosa assistente.
Attraverso un viaggio (reale? onirico? magico?) nel mito, Silvia troverà la chiave per aiutare Fausto.
Non sarebbe difficile nemmeno sciogliere i simboli che stanno al di sotto della superficie narrativa: il labirinto è la psiche, Fausto/Dedalo è il Super-Io, il Minotauro è l'Es, Silvia è il principio femminile, elemento mediante tra ragione e istinto.
Ma poi, che cosa rimane di un simbolo, una volta spiegato? Poco o nulla. E infatti Fior, saggiamente, non spiega, ma mostra. Il resto spetta al lettore.
Anche perché, appunto, c'è tutto il resto. Soprattutto, c'è una ricerca della sintesi grafica estrema, con segni spessi e densi che scavano le figure in torsioni espressioniste, e con l'insistenza su tre soli colori, stesi puri, senza sfumature: il bianco della pagina, il nero della china e il rosso acceso che riempie le forme. Colori che si fanno anche elemento simbolico: il bianco abbacinante di Creta, la voglia rossa sul viso di Silvia, i personaggi rossi del mito contrapposti a quelli bianchi del mondo reale, il nero delle allucinazioni di Fausto.
Vivamente consigliato.

domenica 6 febbraio 2011

sabato 5 febbraio 2011

ultimi


No’ semo ji ultimi
che gimme a scola a piedi coi calzoni corti,
la cartella de fibra col guaderno
e ‘l grembiul nero col colletto e ‘l fiocco,
che c’emme sopra ‘l banco ‘l calamaro
e ‘nt’ la saccoccia ‘l pane nostro sciapo.

No’ semo ji ultimi
che giocamme a tappini e figurine
n’mezzo a le strade senz'avè paura
e gimme giù pe’ le scese a capoficco
sul carrozzon co’ i cuscinetti usati.

No’ semo ji ultimi
ch’em visto le botteghe
co’ i bocconotti sfusi ‘nt’i cassetti,
la saponina, la carta moschicida,
l’ojo che se comprava a butijine
e ‘l sale fraido drent’a la buca scura.

No’ semo ji ultimi
col sacchettin de la canfora sott’a la camigina
e ‘l santin per giunta, contro le fantignole,
che ce lavamme i ricci co’ l’aceto
e li lustramme co’ la brillantina.

No’ semo ji ultimi
che facemme festa pe’ ‘na pigna,
‘na merangola, ‘na melagrana,
ch’em visto ‘l rosso vero del cocomero,
grande, verde-nero, che scricchiava a tajallo.

No’ semo ji ultimi
che facemme i bomb’li col sapone
per colorà quele stradette buie
del centro, che nn’evon visto mai le farfalle,
ch’em visto ‘l car’ ch’i bovi a l’Alberata
‘nì su per recà ‘l mosto ta i padroni.

No’ semo ji ultimi
che sguillamme ch’i ferretti
sott’a le scarpe nove e rare.

No’ semo ji ultimi a sapè
quil che voleva dì nn’avecce gnente
e non sentisse poveri
sotto ‘sto cielo
‘n mezz’a ‘sti muri de ‘sta città.

(Giampiero Mirabassi)

venerdì 4 febbraio 2011

recensioni in pillole 92 - "From Hell"

Alan Moore / Eddie Campbell, From Hell, Magic Press 2005 (pag. non num., € 35)

Alan Moore è probabilmente il più grande sceneggiatore di fumetti vivente: il genio folle che ha sconvolto fin dalle fondamenta l'universo dei supereroi americani e che ha prodotto almeno tre pietre miliari del fumetto contemporaneo: il cupo e apocalittico “V for Vendetta” (1982-85), il labirintico “Watchmen” (1986-87), vera e propria pietra tombale sul genere superomistico, e questo “From Hell” (1991-1996).
In sedici capitoli (per un totale di oltre quattrocento pagine, seguite da un'altra quarantina, fitte di minuziose note storico-bibliografiche), Moore ricostruisce la storia dei delitti che nell'autunno del 1888 terrorizzarono Londra e che passarono alla storia come quelli di “Jack lo Squartatore”.
Il vero assassino, com'è noto, non venne mai catturato, e negli anni sono fiorite decine di teorie, più o meno fantasiose, sulla sua identità. Moore adotta qui quella del “Royal plot”, secondo cui gli omicidi vennero commissionati da ambienti vicini alla Corte (se non dalla Regina Vittoria in persona) per coprire gli scandali creati dal comportamento del principe ereditario Albert Victor, pazzo e sifilitico, nonché omosessuale e abituale frequentatore di prostitute. L'assassino sarebbe stato William Gull, medico personale della Regina; che, essendo per di più massone, offre il destro per inserire tutta una complicata sottotrama magico-simbolico-esoterica.
Va detto, comunque, che Moore non ebbe mai alcuna intenzione di avvalorare simili ipotesi, ma ha sempre affermato di averle prese solo come un buono spunto di partenza per la propria narrazione (e anzi, nelle appendici al testo non manca di ironizzare sui tanti sciacalli che negli anni costruirono improbabili teorizzazioni circa i delitti).
Ma, soprattutto, Moore, coadiuvato dai disegni scuri e graffiati di Eddie Campbell, riesce a produrre un'opera grandiosamente visionaria e, allo stesso tempo, a tracciare l'affresco scrupolosamente realistico di una Londra sordida, sudicia, sempre avvolta in una nebbia fumosa, nella quale vediamo muoversi decine di personaggi, storici o fittizi (fanno la loro comparsa, fra i moltissimi altri, Oscar Wilde, Alester Crowley, G. B. Shaw, la regina Vittoria, William Blake, Robert Louis Stevenson, oltre naturalmente a Walter Sickert, il pittore indicato da alcuni come il vero assassino).
Tanto per informazione, da una quindicina d'anni Moore si è autoproclamato “mago” e si è dedicato a bizzarri spettacoli teatral-musicali. Nessuno sa se sia serio o se ci stia prendendo tutti per i fondelli.

giovedì 3 febbraio 2011

quelques instants secrets



http://www.youtube.com/watch?v=l4Q7urIVYAE


Voglio dedicare questa poesia
a tutte le donne che si amano
in qualche istante segreto.
A quelle che si conoscono appena
che un destino diverso trascina
e che non si ritrovano più.

A quella che si vede apparire
un secondo alla sua finestra
e che veloce svanisce
ma la cui sagoma slanciata
è così graziosa e delicata
che si indugia raggianti.

Alla compagna di viaggio
i cui occhi, paesaggio affascinante,
fanno sembrare breve il cammino,
che sei il solo, forse, a comprendere
e perciò la lasci scendere
senza averle sfiorato la mano.

A quelle che sono già prese
e che, vivendo delle ore grigie
vicino a una persona troppo diversa,
ti hanno, inutile follia,
lasciato vedere la malinconia
di un avvenire disperato.

Care immagini intuite
speranze di un giorno deluse
sarete nell'oblio domani.
Per poco che la felicità ritorni
è raro che ci si ricordi
degli episodi del cammino.

Ma se si è sbagliata strada
si sogna con un po' di desiderio
tutte quelle felicità intraviste
i baci che non si è osato prendere
i cuori che devono aspettarti
gli occhi che non si sono mai rivisti.

Allora, nelle sere di stanchezza,
mentre si popola la propria solitudine
con i fantasmi del ricordo,
si piangono le labbra assenti
di tutte le belle passanti
che non si sono sapute trattenere.

Georges Brassens - da una poesia di Antoine Pol




http://www.youtube.com/watch?v=XFT29VuKLkw

mercoledì 2 febbraio 2011

per vie misteriose


Pasolini non ha mai ragione, eppure, paradossalmente, ce l'ha sempre. Le sue idee non si accampano quasi mai nel territorio della Ragione, ne fuggono la logica, mirano più a fondo, e quel fondo lo raggiungono quasi sempre per vie misteriose, e ne restano avvinte.

Marco Belpoliti (Settanta, Einaudi 2001, pag. 7)

martedì 1 febbraio 2011

elaborazione del lutto


Essere uomini lasciare che il dente separi fibra
da fibra l'attesa del proprio cadavere l'attraversamento
dei pomeriggi l'ostinazione a tracciare ancora
il profilo degli scomparsi. La morte è una per chi muore
per chi vive si moltiplica nel numero
dei gesti mancati. Potremmo adesso riparlarne
adesso nella breve misura che mi imponevi
adesso indietreggiare fino all'ultimo muro
se tu non fossi già oltre.
A tragedia conclusa sono tornato
eri già uno sfarinio tra le cose consuete
mi sono stretto alle cerimonie
ho obbedito all'ora di buio
docile ho consumato il tradimento.