lunedì 27 aprile 2009

italo calvino 6 - Calvino e il Sessantotto


Sesto estratto dalla mia tesi di laurea.
I capitoli precedenti:
0. introduzione
1. la fine dell'impegno (1974-1985)
2. la belle époque inaspettata
3. Pavese se ne va
4. Vittorini e l'utopia
5. Eremita a Parigi


* * *

Per Calvino, Parigi non fu solo un “eremo” in cui ritirarsi, ma significò anche il rifiuto di ogni visione campanilistica della cultura: “cos’è questa contrapposizione tra cultura italiana e “estero” - scriveva nel ‘69 a Gianni Celati -, oggi che ognuno studia quel che gli pare, appartiene alla cultura che sceglie?”. I suoi contatti con la cultura francese vanno dal dibattito filosofico (Derrida, Lacan) alla semiologia di Barthes e di Greimas, dall’antropologia di Lévi-Strauss alla ricerca letteraria dei gruppi di “Tel Quel” e dell’Ou.Li.Po. (soprattutto Queneau e Perec, e attraverso di loro anche Jarry e Roussel), fino a intellettuali come Foucault, Leiris e Blanchot, anche se Calvino, con il suo solito spirito empirico, dichiarava di provare interesse per discipline come la semiotica, ma diffidenza per ogni tipo di sapere che avesse ambizioni totalizzanti:

Io non sono mai stato capace d’accettare un linguaggio codificato, sento subito il bisogno di romperlo, di dire le cose in un’altra maniera, ossia di dire altre cose. [...] Insomma non è che stando a Parigi mi senta spinto a seguire dall’interno lo sviluppo delle varie scuole, settimana per settimana. [...] Sono le ricerche che non hanno una suggestione letteraria diretta, che mi interessano di più [...]. Ma siamo sempre lì, sono cose che un empirico come me non può permettersi, bisogna adottare quel modo di pensare e lasciar perdere tutto il resto, e io non sono mai stato capace di pensare una cosa per volta, penso sempre qualcosa e il suo contrario, quindi è inutile che mi ci metta.

Inoltre, anche se in questo periodo scarseggiano gli interventi diretti sulle pagine dei periodici, che erano stati il principale campo d’azione del Calvino critico fino a tutti gli anni Sessanta e che riprenderanno nel ‘74 sul “Corriere della Sera”, l’atteggiamento verso gli avvenimenti di questi anni risulta ben lontano dall’ “estraneità” di cui parla Ferretti.
Gianni Celati, che in questo giro d’anni fu molto vicino a Calvino, racconta di averlo incontrato a Urbino nell’estate del ‘68 e di averlo visto entusiasta degli avvenimenti del maggio di quell’anno:

Per tre giorni abbiamo parlato quasi ininterrottamente e lui era ancora eccitato da quello che aveva visto durante le giornate di maggio a Parigi. Ne parlava con straordinario entusiasmo; diceva che era andato in giro per le strade con un senso di liberazione; e mi raccontava che gli psicanalisti parigini durante quelle giornate avevano perso tutta la clientela; e infine mi spiegava la sua sensazione di essersi levato dei pesi di dosso, e che adesso si sentiva di “voltare pagina”.

L’articolo Per una letteratura che chieda di più (Vittorini e il Sessantotto) individua nel maggio parigino la stessa istanza antiautoritaria che aveva animato Vittorini (nell’intervista con Camon, Calvino dichiarerà che “Vittorini era morto alla vigilia d’un momento che sarebbe stato il suo momento [...]. La spinta antirepressiva, antiautoritaria era stata il suo motivo costante, fino all’ultimo. [...] La sua presenza [...] avrebbe dato a questo periodo una dimensione che poteva avere e non ha avuto”). La reazione di Calvino a quegli avvenimenti fu la voglia di rilanciare un’idea di letteratura che riuscisse a dire qualcosa di veramente nuovo, rispetto al tran-tran della “industria culturale”:

Nella letteratura c’è la diffusa sensazione d’un fallimento, d’una voglia di ricominciare da zero [...]. Se la letteratura è vissuta come ragione rivoluzionaria (come pare lo sia nella gioventù francese, a livello di massa, non di leaders) lo è come richiesta ancora da assolvere, esigenza in larga parte in bianco, pagina ancora da scrivere [...]
Così vedo la letteratura che caratterizzerà l’inizio di secolo che ora stiamo vivendo: come discorso che conta per l’esigenza su cui si apre, e non per il modo in cui può soddisfarla. Una letteratura che deve servire ad alzare continuamente la posta.

Proprio in questi anni (dal 1968 al 1972) Calvino aveva raccolto un gruppo di giovani intellettuali (“negli ultimi anni gli amici con cui discuto con soddisfazione sono tutti molto più giovani di me” affermava nell’intervista con Camon) che comprendeva tra gli altri Gianni Celati, Carlo Neri e Carlo Ginzburg; con loro progettava una rivista che avrebbe dovuto esprimere tali esigenze. Di questo progetto, Mario Barenghi sottolineava l’importanza in quanto “anello mancante della catena dell’impegno calviniano”, “stazione intermedia tra l’esperienza interrotta del «Menabò» [...] e una stagione successiva, caratterizzata da un lato dalla collaborazione individuale con i grandi giornali italiani, dall’altro [...] dalla partecipazione [...] a un movimento letterario assolutamente sui generis come il parigino Oulipo”.
Anche se la rivista non uscì mai, gli scritti calviniani ad essa collegati, insieme a tutto il materiale preparatorio, recentemente pubblicato1, consentono di farsi un’idea piuttosto precisa di quale dovesse essere il suo indirizzo e di comprendere meglio gli orientamenti teorici di questi anni: ad essa si collegano, infatti, oltre a Lo sguardo dell’archeologo, già edito in Una pietra sopra, e a un breve testo pubblicato nel Meridiano Mondadori dei Saggi (pp. 1710-17) col titolo Un progetto di rivista, anche scritti importanti, come la recensione del ‘69 all’Anatomia della critica di Northrop Frye e quella del ‘70 al Dostoevskij di Michail Bachtin, tradotto due anni prima - autori di cui Calvino discute ampiamente nelle lettere a Celati - oltre a una, più tarda, a Spie: radici di un paradigma indiziario di Carlo Ginzburg (pubblicato su “la Repubblica” del 20-21 gennaio 1980); inoltre, molti pezzi poi compresi in Una pietra sopra (Il sesso e il riso, Il romanzo come spettacolo) riecheggiano i temi che avrebbero dovuto entrare a far parte della rivista.
Sono articoli che vengono a delineare quell’idea “antropologica” di letteratura come “repertorio del narrabile”, “combinatoria di archetipi”, che Calvino andava sviluppando in questi anni .

In definitiva, si può dire che, nonostante il “romitaggio” parigino e l’eclisse di quella figura di intellettuale militante che aveva incarnato per oltre un ventennio, Calvino fosse ancora lontano dall’estraniarsi dalla realtà contemporanea e dal rinchiudersi nella perfezione di un “mondo scritto” senza più contatti con il “mondo non scritto”. Come vedremo in questo capitolo, il discorso critico di questi anni continua sempre a fare i conti con la politica, a voler delineare una nuova idea di società, anche se l’utopia sarà costretta, di fronte alla caoticità del mondo, a ritirarsi sempre più nell’ordine astratto e smaterializzato della pagina scritta.

1 commento:

Anonimo ha detto...

è guido neri, non carlo neri