martedì 31 marzo 2009

"canarino"

(per Michael S. Harper)

La voce bruciata di Billie Holiday
aveva tante ombre quante luci
candelabro doloroso contro un piano tirato a lucido
la gardenia la sua firma sotto quella faccia in rovina.

(Ora sì che vai forte, dal basso alla batteria,
magico cucchiaio, ago magico.
Prenditi tutto il giorno se ti serve
con il tuo specchio e il tuo braccialetto di canzoni).

Il fatto è che l'invenzione delle donne sotto assedio
è stata affilare l'amore al servizio del mito.

Se non puoi essere libera, sii un mistero.

Rita Dove (1989)


lunedì 30 marzo 2009

tre poesie di orazio


Odi, I, 23

Quando mi sfuggi, Cloe, sembri un cerbiatto
che per monti e dirupi va cercando
la madre, e sobbalza se il vento
soffia per il bosco;

(se viene primavera e abbrividiscono
le foglie leggere, o se una verde
lucertola smuove un arbusto,
gli tremano cuore e ginocchia).

Ma io non ti inseguo per sbranarti
come un leone africano o una tigre spietata.
Stàccati da tua madre: ormai è tempo
di prendere marito.

* * *

Odi, I, 38

Odio, ragazzo, il lusso dei Persiani
e le corone intrecciate di tiglio.
Non cercare la rosa che si attarda
fuori stagione.

Ti chiedo solo del semplice mirto.
Non ti affannare: il mirto non disdice
a te che mesci il vino o a me che, sotto
la folta vite, bevo.

* * *

Odi, I, 9

Guarda il Soratte carico di neve
e i rami stremati sotto il peso
e i fiumi rappresi
per il freddo pungente.

Sciogli le membra gelate, getta legna
sul fuoco, e dall’anfora sabina
mesci in abbondanza, Taliarco,
il vino invecchiato per quattro anni.

Il resto, lascialo agli dei. Ecco, si placa
la rissa dei venti sul mare che ribolle,
i cipressi e i vecchi orni
non si muovono più.

Che cosa avverrà, non chiederlo:
tutto ciò che la sorte ci assegna è guadagnato.
Sei giovane: danza, fa’ l’amore
senza rimorsi,

finché è verde l’età ed è lontano
l’astio della vecchiaia. Cerca le piazze,
le parole bisbigliate nella notte
all’ora stabilita,

il riso traditore che ti svela
la fanciulla nascosta, e dalle dita
che giocano a sfuggire
strappale il pegno d’amore.

domenica 29 marzo 2009

certe volte il doppiaggio...

... rovina un sacco di belle cose.
Avete presente "Guardo gli asini che volano nel ciel"?
Beh, sentite l'originale, che meraviglia.



E a proposito, per chi è abituato ad ascoltare Laurel e Hardy nel doppiaggio italiano, queste sono le loro vere voci.



STAN LAUREL: "Sa, infermiera, adesso vorrei tanto essere a sciare".
INFERMIERA: "Non sapevo che le piacesse sciare, Mr. Laurel".
STAN LAUREL: "Non mi piace, ma preferirei quello a ciò che sto facendo adesso".
(Ultime parole di Stan Laurel, sul letto di morte)

sabato 28 marzo 2009

recensioni in pillole 11: "Le terre del Sacramento"


Francesco Jovine, Le terre del Sacramento, Einaudi 1979 (prima ed. 1950)

È l'ultima opera di Francesco Jovine, che morì nel 1950 a soli quarantotto anni, pochi mesi prima dell'uscita del libro.
Si svolge nel Molise dei primi anni Venti, nei due paesi immaginari di Calena e Morutri. Un mondo arcaico, immobile, con i “signori” da una parte, i “cafoni” dall'altra, e in mezzo una casta di piccoli legulei, impiegati, ufficiali giudiziari, curati, studentelli universitari, che rosicchiano le briciole cadute dalla tavola dei ricchi.
Di quest'ultima classe fa parte il protagonista, Luca Marano, figlio di contadini che ha potuto studiare in seminario, ora spera di laurearsi in legge e intanto aiuta lo zio a notificare sfratti e un vecchio notaio a ricopiare atti e rogiti. All'inizio del romanzo è un giovanottone confuso, insicuro di sé, ingolfato in vestiti sempre troppo rattoppati.
Al centro della trama c'è il feudo delle Terre del Sacramento, terreni incolti da secoli perché invischiati in una ragnatela di ipoteche, processi, beghe legali, e un più considerati maledetti dai contadini. Appartengono a don Enrico Cannavale, ultimo rampollo cinquantenne di una famiglia decaduta, pigro e apatico, di vaghe e velleitarie idee socialiste. Enrico sposa Laura, una ragazza giovane e ambiziosa che si ficca in testa di rimettere a frutto le Terre del Sacramento, di riassestare il patrimonio del marito. Chiede a Luca Marano di aiutarla, di fare da mediatore con i contadini, i quali accettano di dissodare le “terre maledette”, spinti dal sogno di poter avere finalmente un pezzo di terra tutto loro. Luca si appassiona alla loro causa, diventa il loro eroe, il loro difensore.
Sullo sfondo, sempre più minacciosa, scorre la Storia: i primi Fasci di Combattimento, la violenza squadrista, le camicie nere che pestano gli operai e gli studenti, la Marcia su Roma.
Quando si scopre che le terre dissodate non andranno ai contadini, che era tutta l'ennesima truffa, Luca deve decidere da che parte stare: da quella dei ricchi (e dei fascisti) o da quella dei suoi compagni di sventura.
Sceglierà di restare accanto ai contadini, fino all'estremo sacrificio.
Un'opera che discende, più che dal Neorealismo, dalla grande letteratura meridionalistica: Verga, De Roberto, Silone, Alvaro, Tomasi da Lampedusa, ma con un respiro da epica popolare che spesso manca nei modelli.
Realismo, linguaggio duro e corposo, narrazione sapiente e secca, tagliata in scorci potenti. In questo periodo mi ci voleva proprio, un libro così.

venerdì 27 marzo 2009

"T.S."


I

Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l'albero, la scorza, l'alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell'autombulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l'attimo dell'offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

II

E poi avrete sentito, almeno una volta
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si affanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l'isola corallina
e sotto l'oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche,
gli insetti che hanno coperto l'aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
l'accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un'altra voce.
Milo De Angelis

martedì 24 marzo 2009

oscar


Seria candidata per l'Oscar mondiale delle frasi idiote:

"Quando non sai che cos'è, allora è jazz".
(A. Baricco, "Novecento")

lunedì 23 marzo 2009

vuoi giocare?


Dimmi, vuoi essere la mia compagna di gioco?
Vuoi sempre, sempre giocare?
Andare insieme nel buio,
con cuore infantile sembrare importante,
prendere posto con serietà a capotavola,
versare vino e acqua con sapienza,
lanciare perle, gioire per niente,
e con nostalgia indossare vecchi vestiti?
Dimmi, vuoi giocare a tutto quel che è vita,
all'inverno nevoso e al lunghissimo autunno,
si può bere il tè, muti,
il tè di rubino e il vapore giallo?
Vuoi vivere davvero con cuore puro,
stare in silenzio a lungo, a volte aver paura,
perché sulla piazza si aggira il novembre,
perché lo spazzino è un uomo povero e malato,
che fischia sotto la nostra finestra?
Vuoi giocare al serpente, all'aquila,
ai lunghi viaggi, al treno, alla nave,
al Natale, al sogno, a tutte le cose belle?
Vuoi giocare all'amante felice?
Fingere il pianto, il funerale colorato?
Vuoi vivere, vivere per sempre,
vivere nel gioco che è diventato vero?
Stare distesi per terra tra i fiori
e vuoi, vuoi giocare alla morte?
Dezső Kosztolanyi

domenica 22 marzo 2009

sabato 21 marzo 2009

italo calvino 4 - Vittorini e l'utopia

Pavese e Vittorini erano stati i due scrittori italiani più influenti per la giovinezza di Calvino.
I loro libri (Lavorare stanca, La casa in collina, Conversazione in Sicilia, Uomini e no, l'antologia Americana) erano stati i testi fondanti della sua generazione, e lui stesso si era trovato a lavorare fianco a fianco con loro all'Einaudi per anni.
Gli anni Sessanta vedono un progressivo distacco di Calvino da entrambi. Di Pavese abbiamo detto la volta scorsa. Congedandosi da Vittorini, Calvino si congeda anche da molte delle idee che avevano segnato la sua gioventù: la fiducia nel ruolo sociale e politico dell'intellettuale, nella sua capacità di progettare una società nuova e di accompagnarne la nascita, la razionalità illuministica, l'umanesimo.
Di Vittorini, Calvino cerca di salvare almeno l'utopia, quell'utopia che sarà la cifra principale del suo capolavoro degli anni Settanta: Le città invisibili.
I capitoli precedenti: introduzione / la fine dell'impegno (1974-1985) / la belle époque inaspettata / Pavese se ne va.

* * *

Il saggio del ‘67 Vittorini: progettazione e letteratura rappresenta, alla vigilia del trasferimento a Parigi, quasi un congedo da un intellettuale che era stato a lungo un compagno di strada e la cui esperienza letteraria ed esistenziale si era più volte incrociata con la sua.
Nel definire le caratteristiche salienti del Vittorini saggista e le categorie di pensiero che lo guidavano, Calvino sembra continuamente sforzarsi di tracciare paralleli e differenze con quella che era ed era stata la sua propria attività. La sua opera, ad esempio, viene caratterizzata soprattutto da un’istanza di “progettazione”, che si esprime sia nella sua continua attenzione al presente, sia nel suo rifiutarsi di fermarsi sulle posizioni via via raggiunte. Lo scopo di Vittorini è

contestare le nozioni abitudinarie siano esse percettive o linguistiche o concettuali [...] stabilendo il modo di una nuova percezione, [ma] non lasciarsi mai prendere fino in fondo dal meccanismo dell’astrazione mentale.

Sono posizioni sicuramente molto vicine a quelle di Calvino, che alla “passione ordinatrice e catalogatrice” affiancava sempre la riluttanza a lasciarsi assoggettare da un particolare metodo o punto di vista. Anche Calvino lo ammette quando scrive:

Spero di non stare forzando le linee del progetto vittoriniano per avvicinarle al punto in cui oggi mi accade di trovarmi, cioè per identificare il suo metodo con quello del modello costruito per via deduttiva e che ha valore d’ipotesi operativa fino a quando non viene smentito sperimentalmente.

Al contempo, però, emergono evidenti le differenze, ad esempio tra l’umanesimo di Vittorini e l’aspirazione di Calvino a “spostarsi verso una conoscenza in cui ogni ipoteca antropocentrica sia abolita”, o tra la fiducia incondizionata di Vittorini nel progresso e nella tecnologia e il sottile scetticismo che Calvino comincia a nutrire nei confronti della società contemporanea (“la sempre più odiata storia contemporanea” di cui parlava Fortini [1]). Se Vittorini “crede che il mondo esiste nella sua ricchezza sensibile e fruibilità o intollerabilità immediate [...], crede nella conoscibilità del mondo [...] e crede nel cambiamento del mondo attraverso la pratica”, nelle pagine calviniane la distanza tra modelli logici e mondo sensibile si farà sempre più marcata, fin quasi a identificare nei primi l’unica realtà conoscibile e nel secondo il caos, il disordine, l’entropia, e a smarrire la fiducia che l’intellettuale possa davvero agire nella politica e nella società.
Di certo, un’esigenza di Vittorini che Calvino sentiva molto vicina a sé è quella di tenere sempre agganciati il momento della contestazione e quello dell’affermazione, ossia di non ridurre la letteratura a una pura e semplice “negazione” (si pensi ad esempio a certa neoavanguardia), ma di tenere aperta la strada per proporre un “valore letterario affermativo”. Come si legge in uno scritto del ‘63, indirizzato ad Angelo Guglielmi, che aveva contestato le posizioni espresse da Calvino nella Sfida al labirinto:

A me, tutte le riduzioni a zero mi interessano e rallegrano per vedere cosa ci sarà dopo lo zero, cioè come riprenderà il discorso [...]. Mi vuoi convincere [...] che la realtà non ha senso? Io ti seguo, contentissimo, fino alle ultime conseguenze. Ma la mia contentezza è perché già penso che, arrivato all’estremo di questa abrasione della soggettività, l’indomani mattina potrò mettermi [...] a re-inventare una prospettiva di significati.

Anche molti dei punti di riferimento del loro discorso critico degli anni ‘60 erano stati gli stessi (Robbe-Grillet, Butor, Uwe Johnson, etc.). In più, nell’individuare i possibili sviluppi delle posizioni vittoriniane, Calvino enumera proprio gli autori che stavano prendendo importanza fra i suoi propri modelli: dopo aver parlato dei legami di Vittorini con la cultura francese e della sua opposizione all’area “postsurrealista” rappresentata da Bataille o Blanchot, prosegue: “eppure, [...] non è detto che non si possa derivare dal surrealismo una visione del mondo simile a quella cui Vittorini tende. E questo è provato da Raymond Queneau”.
E, poco più avanti, cercando di delineare la figura di un intellettuale che potesse essere “l’interlocutore ideale di [...] Vittorini”, ne individua il modello in Roland Barthes: “orecchio attento a ricevere dai testi letterari l’informazione più sottile e umbratile, e abito mentale rigoroso nel sottomettere la complessità del reale a un metodo semplificatore e razionalizzatore: questi potrebbero essere - come in Roland Barthes - i connotati di un nuovo tipo d’intellettuale”.
Insomma, proprio alle soglie di un periodo in cui la lezione vittoriniana di impegno e combattività andrà pian piano sfumando, Calvino cerca di trarre dalla sua opera un consuntivo e di estrapolarne le linee di una nuova poetica.
Ciò che di Vittorini può restare come testamento è “il primato dell’esperienza e dell’immaginazione sull’assolutizzazione ontologica o gnoseologica o moralistica o estetistica: poesia scienza tecnologia sociologia politica come esperienza e immaginazione. Qui sta il senso di un lavoro che tende a muoversi dalla profezia al progetto, senza che la sua forza visionaria e allegorica si perda”.
Non a caso, uno degli ultimi interventi calviniani su Vittorini sarà un pezzo del ‘70 sulle Città del mondo, che mette in risalto proprio la profonda componente utopica che sta alla base di tutta l’opera vittoriniana e che non si può non avvicinare a quella che Calvino coltiverà nelle Città invisibili.

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[1] Cfr. Ritorno al Calvino critico e giornalista, “Corriere della Sera”, 10 aprile 1989, pag. 3. Si tratta di una recensione a Le capre di Bikini di Gian Carlo Ferretti, in cui Fortini, con l’acutezza del vecchio avversario ideologico, avverte nell’opera saggistica di Calvino il progressivo perdersi di quell’ “attrito” con il reale che all’inizio ne costituiva il nerbo: “[nella] prima parte della sua opera, il reale gli fa resistenza [...]. Ove quella “sfida” decada, Calvino splendidamente decade”.

venerdì 20 marzo 2009

padri bambini

I genitori-bambini venivano ai colloqui in bermuda e camicia hawaiana, mi davano del tu e grandi pacche sulle spalle.
Pretendevano di venir ricevuti in qualunque momento, anche se ero in commissione a correggere i compiti della maturità. Quando chiedevo perché non erano venuti prima a ritirare le pagelle, rispondevano che erano in vacanza con i figli. Vacanza-premio di fine anno, anche se il figlio era stato bocciato o aveva quattro debiti formativi.
Oppure, in seconda media, mandavano i figli in gita con cinquecento euro in tasca, o l’intera carta di credito per togliersi il pensiero.
Quando raccontavo che avevo trovato i figli tutti intorno al compagno handicappato a gridargli “mongoloide, ritardato”, rispondevano “Professò, e ce l’emo avuto tutti ‘l compagno cicciottello che lo pijavamo 'n giro, no?”.
Erano in maggioranza quarantenni, figli degli anni Sessanta e Settanta, ma ce n'era anche qualcuno che si avvicinava alla cinquantina.
I loro figli li riconoscevi: a undici anni pensavano di sapere già tutto sul sesso, avevano spesso le occhiaie per aver dormito poco, se mettevi un’insufficienza ti rispondevano “non la voglio”, e ridevano sempre, sempre, ma di una risata sinistra, vuota come le loro teste.

recensioni in pillole 10: "L'innocenza del male"


Antonio Lillo, “L'innocenza del male”, Lietocolle 2009

Scrivere poesia vuol dire sempre, in qualche modo, scommettere: sulle proprie esperienze, sulla propria visione del mondo, sulla propria personalità intera, e sulla capacità di trasformare tutto ciò in lingua (o, se vogliamo, di trasformare la lingua in tutto ciò). C'è chi scommette verso l'alto, verso il sublime, e chi verso il basso, verso il quotidiano: e non è detto che una scelta sia più o meno facile o difficile o rispettabile dell'altra
Antonio Lillo segue la seconda strada: la sua è una lingua che parte dal sermo cotidianus, da frammenti di conversazione di tutti i giorni, per realizzare dei piccoli scarti laterali, delle piccole levitazioni.
Il libro è, per esplicita ammissione dell'autore, il diario di un anno, il 2007, e nella sua trama emergono, quasi di straforo, frammenti di esperienze, allusioni, flash privati.
Ogni tanto Lillo inserisce alcune liriche dialettali, nelle quali il medium espressivo facilita ancor di più la freschezza, l'aderenza alle cose, rendendo l'impressione di una lingua viva, colta e assemblata direttamente da anonime bocche parlanti.
Se un limite si può individuare, è in qualche passo dove si avverte un eccessivo ricalco di modelli illustri (Montale, Fortini, Bertolucci, Pasolini). Il libro, in realtà, è percorso da una fitta trama di citazioni, implicite o esplicite, di cui l'autore stesso si dimostra ben cosciente (“i poveri Strumenti umani / che cito senza ritegno”). A volte il gioco rischia un po' di cadere nel meccanico, di portare troppo alla luce una dialettica che potrebbe (dovrebbe?) rimanere più implicita, sotterranea. In questo senso, funziona meglio una poesia come Pasolini, dove il dialogo con il poeta viene portato avanti a carte scoperte, in seconda persona; qui Lillo rischia parecchio sul versante del prosastico, della poesia-pensiero (seguendo, del resto, il modello pasoliniano), ma riesce anche a riprendersi prima di cadere, grazie a un abile wit finale che interviene a sdrammatizzare il tono quando rischiava di diventare troppo serioso.
L'impostazione diaristica espone inevitabilmente al rischio di incorporare e di portarsi dietro qualche scoria: ma in fondo fa parte del gioco. Ciò che sempre salva l'autore è l'orecchio, l'intuito per la lingua e per il “tono” giusto, quello che permette di mantenere il verso in carreggiata.
È, in fondo, l'unica vera forma di etica possibile in poesia.

(Cliccare sul titolo per leggere alcuni testi).

giovedì 19 marzo 2009

recensioni in pillole 9: "Questa è la stanza"


Gipi, Questa è la stanza, Coconino Press 2007, € 17

Gipi sta diventando una malattia. Lo testimonia il fatto che, appena visto questo libro sullo scaffale della libreria, l'ho preso senza nemmeno aprirlo, anzi senza nemmeno guardare il prezzo e controllare se avevo in tasca abbastanza soldi.
Dopo la magistrale graphic novel “Appunti per una storia di guerra” (l'ho detto e lo ripeto: uno dei più bei romanzi italiani di quest'ultimo decennio) e prima dello struggente ed esilarante “La mia vita disegnata male”, con questo “romanzo a fumetti” Gipi si era confermato come uno dei pochi veri narratori che abbiamo in questo paese.
Il tema è, ancora una volta, l'adolescenza. I protagonisti sono quattro ragazzi che si muovono nel solito paesaggio di provincia, tra campagna e periferia, e hanno il sogno comune di quasi tutti gli adolescenti: fondare una rock band. La stanza del titolo è una porta d'accesso verso se stessi: un posto tutto loro, dove possono “chiudere fuori il mondo, suonare e basta”, coltivare i propri sogni lontano dagli adulti.
Tutti e quattro hanno vite difficili, tese sul filo: il padre di Giuliano ha occhi solo per i suoi cani da caccia; a Stefano è morto un fratello, i suoi genitori vivono nell'angoscia e lui dà fuori di matto per mascherare il dolore; Alex ha la camera piena di poster nazisti e vive con una madre e una zia a lui morbosamente devote (il padre è sparito, scappato chissà dove con tutti i soldi della ditta) ; Alberto si dedica al padre, che dopo una malattia si trascina in un'esistenza spenta e catatonica, perso dietro i suoi modellini di aereoplano.
Ma tutto ciò Gipi lo lascia solo intuire. Il centro del racconto è la stanza dove i ragazzi provano, i loro strumenti che sfrigolano e si guastano, la voglia di spaccare il mondo, di fregarlo. Gipi, l'ho già detto, è uno dei pochi che riescono a raccontare l'adolescenza per quel che è: l'età in cui si è senza pelle, in cui tutti i sensi sono dolorosamente acuti, in cui le responsabilità non esistono, si vive e basta, per sé e per gli amici, e questo è tutto quel che conta, il mondo finisce lì.
Un mondo raccontato senza filtri, con una precisione e un'adesione lancinanti, e insieme con il totale controllo dei propri mezzi, grafici e narrativi. Ed è la prima volta che mi capita di trovare spiazzante un lieto fine.

mercoledì 18 marzo 2009

principi morali

"Non mi era piaciuta l’ultima parte della Bibbia, perché è quasi tutta predica e non c’è vera lotta, e non c’è più tanto su e giù. A me piacciono le parti in cui quei vecchi ebrei si picchiano di santa ragione, e poi sturano alcune bottiglie di vino israeliano e si infilano a letto con le damigelle delle mogli."

da Yahoo Notizie:
Los Angeles, 17 marzo 2009 - Una punizione d'altri tempi per la cantante Britney Spears. La regina del pop dovrà leggere la Bibbia per almeno un'ora al giorno, al fine di rinsaldare i propri traballanti principi morali. La condanna, scrive il 'Daily Mail', le è stata imposta dal padre Jamie, che cura anche gli interessi economici della turbolenta cantante.
Jamie ha fissato per la figlia una serie di rigide regole di comportamento ad evitare che prenda una delle solite sbandate nel corso del suo ciclo di esibizioni, il tour 'Circus Starring Britney Spears'.
La fonte citata dal 'Daily Mirror' riferisce che Jamie è deciso a far sì che nulla vada storto durante il tour di Britney. Perciò la obbliga a leggere la Bibbia per almeno un'ora prima di andare in scena, e le ha vietato di entrare in Internet. Sorveglia anche quello che mangia, per evitare che ricada nelle tentazioni del cibo-spazzatura.
Tentazione che l'ha fatta presentare visibilmente sovrappeso sulle scene. Britney non può inoltre uscire dall'albergo se non è accompagnata dalle guardie del corpo, e non può parlare con l'ex marito Kevin Federline se non in presenza del padre o del manager.

storia del jazz con l'espresso - seconda parte


Della prima parte di quest'opera ho già parlato qui e qui.
Venerdì è uscita la seconda, che solo ieri mattina ho trovato il tempo di vedere e che lascia un po' gli stessi mixed feelings della prima.
Innanzi tutto risulta inspiegabile lo scollamento fra cd, dvd e libretto.
Il cd è, come il primo, una miscellanea di materiale molto noto (East St. Louis Toodle-Oo e Creole Love Call di Ellington, Body and Soul e Picasso di Hawkins, Nuages di Django Reinhardt, Rosetta di Earl Hines, One O' Clock Jump di Basie, In a Mist di Beiderbecke), che data dagli anni '20 agli anni '40, assortito in maniera abbastanza casuale e senza un riconoscibile filo conduttore, né tematico né cronologico, tranne quello piuttosto esile delle “città del jazz”.
Il libretto è una trattazione piuttosto frettolosa e sommaria del tema “le città del jazz”, che spazia addirittura dalle origini agli anni '80 in una quindicina di raffazzonate paginette, foto incluse. Per inciso, scorrendo i nomi degli estensori si incontra quello di Gino Castaldo, il che spiega molte cose.
Il dvd, così come il primo, alterna parti buone ad altre piuttosto raccogliticce.
Gustosissimo il cameo iniziale di Remo Remotti, che legge un anatema contro il jazz “corruttore della gioventù”, da un articolo di fine anni '20. Bella l'evocazione della New Orleans dei primi del secolo, del ruolo del creoli nello sviluppo del jazz, abbastanza accurata la trattazione di Morton (fra cui l'osservazione, tutt'altro che banale, che nelle sue incisioni con gli Hot Chili Peppers c'è poca o nulla improvvisazione), molto riuscita l'intervista a Gabriele Mirabassi (musicista di cui ho immensa stima sia artistica sia umana).
Insignificante, ma c'era da immaginarselo, il contributo di Franco Fayenz, personaggio insopportabile, autore di libri mediocrissimi, la cui fama di critico (addirittura “decano della critica jazzistica italiana”) è secondo me del tutto usurpata. Troppo sommario e ideologico il giudizio di Vittorio Franchini sul jazz di Chicago (“jazz falso, senza sentimenti, borghese, fatto da figli di papà che non venivano dalla strada e avevano il caffellatte caldo tutte le mattine”).
Insomma, l'impressione generale è simile a quella del primo: episodi di notevole sciatteria alternati ad altri più positivi.
Saltano all'occhio almeno due svarioni colossali: i minstrels definiti dal solito Renzo Arbore “cantanti chitarristi che cantavano delle ballate un po' antiche” (stendiamo un pietoso velo...) e l'affermazione, contenuta nel libretto, secondo cui uno dei campioni delle “street parades” di New Orleans sarebbe stato... Chick Webb!
A proposito, il dvd è molto più breve del primo, poco più di trenta minuti contro un'ora circa.
Giudizio: se non bocciato, rimandato a settembre con una bella sfilza di insufficienze (o “debiti formativi”, come si dice oggigiorno).

martedì 17 marzo 2009

listen to the silence - postilla




Tanto per avere un termine di confronto. E' un signore manco tanto anziano, e non porta né canottiera né mutandoni.
Domanda: è diverso dal precedente? E se sì, perché?

P.S.: voglio proprio rovinarmi. Ne posto un altro. Guardate che cosa fa questo tizio da 3'32" a 4'37".

lunedì 16 marzo 2009

listen to the silence (questioni di estetica)



Domande:
- questa musica è bella?
- questo è musica?
- se è bello, perché?
- in base a quali criteri si giudica?
- sono gli stessi criteri che si userebbero per una sonata di Mozart o per un corale di Bach?
- se non sono gli stessi, si può ancora dire che questo e un corale di Bach sono la stessa forma d'arte?
- si tratta di arte "universale"?
- questo brano sarebbe bello anche eseguito da un vecchio pensionato in canottiera e mutandoni?
- perché qualcuno, vedendo il video, potrebbe ridere?
- qual è il confine tra sublime e ridicolo?
- finito di ascoltare, qualcuno ha voglia di riascoltare?
- è bello anche al secondo, terzo, quarto ascolto?
- se io facessi le stesse cose, ma improvvisando e senza uno spartito, cambierebbe qualcosa, e cosa?

domenica 15 marzo 2009

sabato 14 marzo 2009

scary mary

Dedicato a chi, come me, ha sempre pensato che "Mary Poppins" sia uno dei film più sinistri della storia del cinema.

venerdì 13 marzo 2009

questi poeti...


Ero appena arrivato a Perugia, e un circolo letterario locale aveva invitato a parlare Attilio Bertolucci.
Ricordo un signore distinto, un po' curvo, un po' stanco (era la metà degli anni '90, quindi aveva già superato l'ottantina).
Si lessero alcune poesie, qualcuno parlò, lui disse qualcosa, poi si passò alle domande.
Una signora dalla pettinatura fantascientifica si alzò e gli chiese con aria ispirata come mai nelle sue poesie c'era sempre un certo tipo di fiori, glicini mi pare, quale profondo significato simbolico potessero avere. Bertolucci risposte qualcosa come che i glicini gli piacevano, o che ne aveva una pianta davanti a casa sua.
Poi la signora gli chiese perché per non scriveva poesie che proponessero grandi ideali, pensieri positivi, perché, declamò, "il poeta è quello che deve indicare la strada all'umanità".
Bertolucci, sorridente, garbato, se la cavò con qualche frase di circostanza.
Poi un ragazzo gli disse che a volte, scrivendo, si ha l'assoluta necessità (disse proprio così, "l'assoluta necessità"), di usare una certa parola, e allora se la parola non entrava nel verso lui come faceva? Bertolucci rispose, citando Flaubert, che per qualche misteriosa ragione la parola più appropriata è anche, sempre, quella più musicale.
Dopo l'incontro gli chiesi una dedica su una raccolta delle sue poesie. Lui, con una calligrafia minuta, firmò "Attilio B.", mi lanciò un'occhiata sorniona, mi salutò e andò via.

giovedì 12 marzo 2009

quando i rumeni eravamo noi

(Cliccare sull'immagine per ingrandirla).

Dal "Mascot" del 7 settembre 1888. "Riguardo la popolazione italiana".
Le didascalie:
- prima vignetta: un disturbo per i pedoni;
- seconda vignetta: gli appartamenti dove dormono;
- terza vignetta: i piacevoli divertimenti del pomeriggio;
- quarta vignetta: che cosa fare di loro;
- quinta vignetta: il modo per arrestarli.

mercoledì 11 marzo 2009

vox populi


Sentita l'altro giorno in autobus. Mi scuso con chi non conosce il vernacolo perugino.

"E pu' dice che 'sti stranieri 'n vengheno a rubacce 'l lavoro. I mi fiji evno fatto domanda p'entrà a la Coppe e 'n l'hon pijati. A mo vè giue ta la Coppe d'la Stazione e èn tutti stranieri. E pecché ai mi fiji je farebbe schifo d' lavoracce a la Coppe, che è come avecce 'l post' fisso?".

storia del jazz con l'espresso - reprise


In uno dei primi post di questo blog, riflettevo sui pro e contro del tenere un blog. Uno dei punti era che, scrivendo un blog, ogni parto del proprio pensiero viene reso di pubblico dominio. Questo potrebbe essere un "contro", ma a ben pensarci anche un "pro", nel senso che il confronto con le idee altrui è sempre un'occasione di arricchimento e, se necessario, di rettifica delle proprie posizioni. Sapientis est mutare sententiam, dicevano gli antichi. Ma veniamo al punto.

Qualche giorno fa avevo recensito (positivamente) la "Storia del Jazz" in edicola con l'Espresso. Nei commenti aveva risposto il blogger che si firma Alien Life Form (qui c'è il suo blog), con una stroncatura radicale dell'opera.
Le obiezioni da lui mosse erano parecchie, ma mi pare si possano riassumere in questi punti:
1) critiche al cd, considerato poco rilevante e poco in linea con il contenuto del dvd;
2) eccessivo peso dato all'elemento europeo (in particolare italiano) nella formazione del jazz;
3) scarse menzioni dell'elemento nero;
4) tutti i musicisti e critici intervistati erano bianchi, anzi italiani (centro-meridionali, per la precisione);
5) alcune affermazioni specifiche, su cui tornerò più avanti.

Ora, devo precisare che quando ho postato il commento precedente avevo visto solo i primi 20-30 minuti del dvd, che dura in tutto poco più di un'ora: ma anche su questo tornerò più avanti.
Riguardo al punto 1, avevo già sottolineato che il cd è la parte più debole dell'operazione, e sostanzialmente concordo con le critiche mosse da AlienLifeForm.
Riguardo il punto 2, avevo già risposto nei commenti al post precedente, specificando che a mio avviso questo costituisce proprio uno dei punti di forza del dvd.
La rivalutazione dell'elemento bianco-europeo nella storia del jazz è uno dei fronti più interessanti della ricerca musicologica afroamericana degli ultimi 10-15 anni, in particolare di quella italiana (Zenni, Piras).
Beninteso, "rivalutare dell'elemento bianco" non significa negare l'importanza degli afroamericani, ma piuttosto correggere una sorta di "pregiudizio alla rovescia", che si può far risalire a opere come Blues People (1963) di Leroi Jones, o Amiri Baraka che dir si voglia, o The Music of Black Americans di Eileen Southern (prima ed. 1971). Che sono e rimangono grandissimi libri, veri e propri punti di svolta negli studi afroamericani, ma che, nella loro volontà di rivendicare la "negritudine" del jazz (comprensibile e giustificata in quella particolare temperie storica), finiscono per appiattirlo su una dimensione esclusivamente "nera", che ne sminuisce la ricchezza e complessità.
Oggi si sta sempre più affermando la convinzione che il jazz sia musica non semplicemente "nera", ma bensì "afro-americana", ossia si sta evidenziando la natura duplice di quell'aggettivo: una matrice africana (il ritmo, l'emissione, l'intonazione, l'elemento improvvisativo) che si innesta su elementi europei (l'armonia, lo strumentario, la tradizione bandistica desunta dalle bande francesi ed europee).
Tanto per fare un esempio, l'um-pa um-pa che caratterizza la mano sinistra dei pianisti ragtime e stride non è altro che la traduzione di un ritmo di marcia, tipico delle bande (e anche la struttura formale dei primi ragtime ricalca quella della marcia), su cui però viene innestato un incrocio ritmico di sincopi e controtempi tipico della musica africana.
Del resto, non è un caso che il jazz sia nato proprio a New Orleans, che era un vero crogiolo di razze ed etnie, dove si mescolavano popoli e musiche di tutto il mondo e dove - come sottolinea Marcello Piras nel dvd - l'opera italiana era conosciuta ed amata. Per inciso, molti dei primi jazzisti, da Armstrong a Jelly Roll Morton, erano conoscitori dell'opera: Armstrong citava spesso arie verdiane nei suoi assolo e nelle celebri registrazioni di Alan Lomax si può sentire Morton che esegue non ricordo più quale aria.
Insomma, per quanto possa sembrare strano, è vero che il jazz (o almeno, il jazz come lo conosciamo oggi) non ci sarebbe stato se i neri non avessero incontrato, conosciuto e assimilato anche la musica di tutte le etnie presenti in America, italiani compresi.
Fra l'altro, questi studi permettono anche di correggere un certo pregiudizio "primitivista" che porta a vedere sempre i jazzisti come musicisti "istintivi", persino analfabeti musicalmente (assolutamente falso, dato che persino Armstrong, pur essendo autodidatta, leggeva e scriveva benissimo la musica), e a riaffermare con maggior forza e motivazione la genialità del loro contributo musicale. Gli afroamericani, partendo da una situazione di subordinazione sociale e culturale, riuscirono a incorporare gli elementi della cultura dominante e a reinterpretarli in maniera del tutto inedita. Il jazz è il prodotto di questa mescolanza.
Temi ormai abbastanza ovvi per chi conosca gli sviluppi più recenti della musicologia afroamericana, ma che non mi risulta siano mai stati introdotti sistematicamente in un'opera di divulgazione, rivolta ad un pubblico di non specialisti (e che, purtroppo non permette una trattazione troppo tecnica e approfondita, ma tant'è).
Per quanto riguarda il punto 3, mi pare che nella prima mezz'ora del dvd venga ripetuto più volte che il jazz è stato creato dai neri, che riflette tradizioni africane (ad esempio il paragone fra i griot africani e i primi bluesmen), che la batteria è una creazione degli afroamericani, che il ragtime riflette l'approccio nero a una musica di origine bianca, ecc.
La scelta di musicisti tutti bianchi, italiani e di area romana (punto 4) è di sicuro un po' discutibile, ma di per sé non inficia il valore dell'operazione, dato che si tratta pur sempre di nomi di un certo livello. Certo, anche a me sarebbe piaciuto vedere un'intervista a Sonny Rollins o a Ornette Coleman, o qualche materiale d'archivio su King Oliver o Jabbo Smith, ma immagino ci possano essere anche ragioni di costi, diritti d'autore ecc. (però queste sono ipotesi mie, lo ammetto).
Che poi quel "certo giro" di musicisti stia oggi esercitando una vera e propria egemonia sugli spazi già limitati del jazz italiano, è un problema che non riguarda solo questo dvd, ma un discorso più ampio che qui non è il caso di affrontare.
Per quanto riguarda il punto 5, il discorso di Roberto Ciotti sul blues (alcuni neri si integrano e danno origine al gospel, altri sono ribelli e fanno blues, è dalla prima tendenza che deriva la Motown) non è del tutto sbagliato, anche se la cosa detta così risulta un po' banale e andrebbe argomentata e differenziata un po' meglio.

E qui comincian le dolenti note: perché finora ho parlato solo della prima mezz'ora del dvd, per la quale mi sentirei di confermare il mio giudizio, ripetendo che è un'operazione di buonissimo livello, che unisce il taglio divulgativo con un certo spessore teorico.
Però, a partire da questo punto, il tutto subisce un inspiegabile tracollo verticale.
Già la trattazione del blues, affidata a cinque minuti di chiacchierata con Roberto Ciotti, è come minimo inadeguata all'importanza dell'argomento.
Ma il punto di svolta è segnato dall'affermazione (davvero sconvolgente) di Antonio Ballista secondo cui "il ragtime veniva suonato nei saloon, tra una rissa e l'altra, con il cartello non sparate sul pianista". Una baggianata bella e buona, e stupisce che una persona preparata quale credo sia Nunzi non abbia fatto un salto sulla sedia.
Il successivo discorso sull'improvvisazione contiene osservazioni senz'altro giuste, ma è a dir poco confuso e arruffato. Anche qui, si rimane stupiti, considerando che ad essere intervistati sono musicisti seri come Danilo Rea, Rita Marcotulli ed Enrico Pieranunzi (a proposito: il pezzo che Pieranunzi esegue dopo quello di Bach non è una sua parafrasi, ma un tema di Charlie Parker di cui non riesco a ricordare il titolo; credo che l'intenzione fosse di mettere in evidenza certe somiglianze tra i due brani, peccato che la cosa non venga affatto spiegata e che l'intero discorso risulti pressoché incomprensibile).
Il fondo si tocca negli ultimi 15-20 minuti, nei quali parlano due personaggi cialtroneschi come Lino Patruno e il mio (purtroppo) quasi-compaesano Renzo Arbore, uno che ha avuto sul jazz lo stesso effetto che l'Aids ha avuto sulla vita sessuale. Su quest'ultima parte nemmeno mi soffermo, perché è di un dilettantismo e un pressappochismo inqualificabili.
Insomma, volendo riassumere, la prima mezz'ora del dvd è buona, la seconda è poco più che paccottiglia.

Ora, non so di chi sia la responsabilità di questo disastro finale. Piuttosto, tutto sta a vedere se le prossime puntate proseguiranno la linea della prima metà, o quella della seconda.
Vi terrò aggiornati.
(continua qui)

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Avevo sempre dimenticato di segnalarlo: "Il culto dei morti nell'Italia contemporanea" (Einaudi 2000), unico libro di versi di Giulio Mozzi, è ora scaricabile gratuitamente in formato pdf su Vibrisse, messo a disposizione dall'autore stesso.

martedì 10 marzo 2009

italo calvino 3 - Pavese se ne va

Terzo estratto della tesi su Calvino. Ancora sul periodo di passaggio fra l'impegno degli anni 1945-1955 e la crisi della fine del decennio.
Uno dei segni del mutamento in corso in Calvino è il progressivo allontanamento dalla figura di Pavese, che era stato uno dei numi tutelari della sua prima produzione saggistica, insieme a Vittorini, Hemingway e agli amati classici dell'Ottocento (Stendhal, Stevenson, Cechov, Tolstoj).
Il Calvino giovane vedeva in Pavese l'archetipo del duro, del lavoratore, dello scrittore proteso a una sua inflessibile missione morale, e non vedeva - o si rifiutava di vedere - la parte oscura della sua personalità.
Ora la figura di Pavese comincia a sfocarsi, ad allontanarsi nel passato, fino a diventare tout court il simbolo di un'epoca ormai conclusa.
I capitoli precedenti: introduzione / la fine dell'impegno (1974-1985) / la belle époque inaspettata.

* * *

Nel 1956, rispondendo a un’inchiesta del “Caffè”, Calvino indicava in Pavese “il più importante, complesso, denso scrittore italiano del nostro tempo. Qualsiasi problema ci si ponga, non si può non rifarsi a lui”. Ancora nel 1959, rievocandone la figura, sottolineava il suo valore di modello e letterario e umano, leggendone anche gli aspetti negativi (le tendenze autodistruttive, il suicidio) come “rigoroso e tragico approfondimento” del suo esempio morale.
I primi segni dell’appannamento della figura di Pavese si avvertono in concomitanza con l’inizio degli anni ‘60, ossia di quel “cambio d’epoca” che, come abbiamo visto, portò Calvino a una radicale revisione dei propri punti di riferimento letterari e ideologici. Nel 1960 escono un’intervista di Carlo Bo, in cui Calvino parla a lungo anche di Pavese, e il saggio Pavese: essere e fare, commemorazione dello scrittore a dieci anni dalla morte.
L’intervista di Bo si apre proprio con una domanda relativa a ciò che resta dell’opera pavesiana e ciò che di essa sembra invece superato: Calvino risponde che

esiste già un’ “epoca di Pavese”, con un suo volto ben preciso, ed è quel ventennio ‘30-‘50 che solo ora ci appare con una fisionomia unitaria [...]. Questo già basta ad allontanare Pavese nel passato, ma anche ad affermarne il valore in una dimensione di cui prima non tenevamo abbastanza conto: di autore di un affresco del suo tempo come non ne esistono altri. [...] Quante cose proprio per essere lontane e oggi quasi incomprensibili, non ci si rivelano piene d’un’affascinante forza poetica! [...] Ma tutto è così chiaro, doloroso e lontano, come chiaro, doloroso e lontano è Leopardi.

Non si può non misurare la distanza con le affermazioni di soli quattro anni prima: lo scrittore a cui “non ci si può non rifare” è diventato uno scrittore già leggibile in chiave storica e quindi relegato in un ambito cronologico ormai conchiuso. Anche il suo esempio, letterario e umano, si rivela improponibile, di fronte a una realtà profondamente mutata:

La via di Pavese non ha avuto seguito nella letteratura italiana. [...] Pavese è tornato a essere “la voce più isolata della poesia italiana” come si leggeva sulla fascetta d’una vecchia edizione di Lavorare stanca” [...].
A Pavese mi lega la comunanza d’un gusto di stile poetico e morale, [...] ma nell’opera, in dieci anni, mi sono allontanato da quel clima.

E, in maniera anche più esplicita, nella Sfida al labirinto:

Se in fondo Pavese si può valutare completamente soltanto ora, il suo aver vissuto questi temi [quelli della realtà industriale, del contrasto città-campagna etc.] come precorritore isolato fa sì che sentiamo quanto siano stati lunghi e decisivi i dodici anni che ci separano dalla sua morte e già tanti suoi aspetti [...] ci appaiono ormai con l’inconfondibile colore dell’epoca; e già il fatto di poterlo ora riconoscere e definire ci prova che siamo entrati in un’epoca diversa.

Anche Essere e fare, nonostante lo sforzo di ribadire il valore letterario e umano di Pavese, finisce per confinarlo in una dimensione storica ormai definita e quindi per allontanarlo dalla realtà contemporanea:

Pavese appartiene a una stagione della cultura mondiale tesa a integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia. Una stagione di cui la morte dello scrittore piemontese pare segnare un limite cronologico. Difatti, dobbiamo dire che in questi dieci anni, se la fortuna di Pavese ha continuato ad allargarsi, le possibilità d’influsso della sua lezione sulla letteratura contemporanea paiono essersi rapidamente ristrette.

“Integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia” è esattamente lo scopo del Calvino dei primi anni. Riconoscere tale progetto come facente parte di una stagione ormai cronologicamente lontana ha il senso di un’acquisizione di coscienza: i tempi sono cambiati e la fiducia, rivelatasi semplicistica, nella possibilità di un’azione diretta degli intellettuali sulla politica cederà sempre più il passo a un’inquieta esplorazione di territori letterari e culturali, a quell’attitudine di perplessità sistematica che d’ora in poi segnerà l’opera di Calvino.
[...]
L’ultimo intervento di un certo impegno sull’opera pavesiana è la cura dell’edizione dell’intero corpus poetico, che uscirà presso Einaudi nel ‘62.
[...]
Al 1965 risale uno scritto su La luna e i falò (Pavese e i sacrifici umani, “Revue des études italiennes”, avril-juin 1966; ora in Saggi, Meridiani Mondadori, 1995, pp. 1230-33). Le riserve sull’ultima opera pavesiana, accennate nel saggio del ‘60, vengono qui esplicitate: il romanzo gli sembra fin troppo “fitto di segni emblematici, di motivi autobiografici, di enunciazioni sentenziose”, privo di quell’allusività e reticenza che erano il fascino della prosa di Pavese. Ma la maggior novità sta nel concentrare l’analisi sul nucleo mitico, antropologico attorno a cui l’opera ruota (non che tale aspetto fosse assente nei saggi precedenti, ma qui esso diventa il nodo centrale della lettura critica): il contrasto e insieme la compresenza della “storia rivoluzionaria” (la guerra, la Resistenza) e dell’ “antistoria mitico-rituale” (i “falò” del titolo). Qui sta forse il nocciolo segreto e irrisolto del romanzo:

Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, [...] come quando tutto è già inteso [...]. Non c’era nulla di inteso, invece, il punto di sutura tra il suo “comunismo” e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo [...].
L’uomo che è tornato al paese dopo la guerra registra immagini, segue un filo invisibile d’analogie. I segni della storia [...] e i segni del rito [...] hanno perso significato nella labile memoria dei contemporanei.

Siamo ormai lontanissimi dal Pavese tutto “attaccamento appassionato alla vita” di vent’anni prima, come anche dal Pavese in bilico tra ermetismo ed engagement di Natura e storia nel romanzo; si inizia invece a intravvedere il Calvino che di lì a poco comincerà a interessarsi della “critica archetipica” di Frye e dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss.
L’anno seguente, i risvolti di copertina all’edizione delle Lettere sanciranno definitivamente la distanza storica del Pavese uomo e scrittore:

Alla svolta di quel 1950 che ci appare già una data d’altro secolo, s’intravede come uno scorcio di quella che sarà un’epoca più tarda, l’Italia insoddisfatta e nevrotica degli anni ‘60. [...] Il breve 1950 di Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo “facile” che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara. Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va.

lunedì 9 marzo 2009

non so voi...

... ma io raramente ho visto qualcosa di più inquietante.

domenica 8 marzo 2009

la nostra civiltà è al punto di non ritorno

da Yahoo Notizie:

Milano, 8 marzo 2009 -
"A Milano sono stata diverse volte per promuovere la mia linea di abbigliamento e anche per andare a vedere qualche sfilata. La trovo una città bellissima, vivace con tanta gente simpatica. Ma quello che non capisco è perché ci sia cosi poca vita notturna rispetto alle altre capitali europee".
Paris Hilton, la miliardaria ereditiera ora diventata stilista, non ha dubbi sul fatto che Milano non abbia nulla da invidiare alle altre grandi città, almeno di giorno. "Sembra che la gente pensi solo a lavorare e poco a divertirsi. A me piace stare sveglia anche fino alle sette del mattino e li di martedì è difficile". E la rivista Metropolitanpost che raccoglie le confidenze della nipote dellex patron della catena Hilton.
"Quando uno va in Italia pensa che gli italiani siano superficiali e pensino solo a divertirsi, ma chi va a Milano capisce che non è cosi, gli italiani lavorano tantissimo, lo dice anche Victoria Beckham".
Comunque Paris salva i locali che ha frequentato: "Sono molto eleganti e curati. Ad esempio il Nobu, il Gold e l'Armani Cafe, solo ne vorrei molti di più. A differenza delle città americane a Milano il centro di notte si svuota. I pochi che rimangono aperti però sono molto piacevoli".
[...]
"L'apprezzamento alla Milano di giorno di Paris Hilton non può che farmi piacere, significa che in questi anni l'amministrazione sta svolgendo bene il suo lavoro mettendo la città al pari delle grandi metropoli mondiali", ha risposto sempre al Metropolitanpost Giovanni Terzi, assessore allo sport e al tempo libero di Milano. "Non le si può dare torto però per i suoi giudizi sulle notti milanesi. Ma anche a questo stiamo cercando di porre rimedio con il programma After Midnight. Un progetto che ha lo scopo di ridare alla città una vitalità notturna che sempre, in anni passati, le è appartenuta. L'obiettivo - ha concluso Terzi - è creare, in accordo con gli esercenti e con tutte le parti coinvolte, una vita notturna regolata capace di soddisfare le esigenze di chi la notte lavorerà e di chi vorrà divertirsi".

otto marzo


Un po' in zona Cesarini, ma faccio in tempo a postare un piccolo omaggio alla Festa delle Donne.
La canzone è di Chico Buarque, la canta uno dei personaggi più bizzarri della scena musicale brasiliana (e non sto a spiegare il perché dell'aggettivo: guardate il video), Ney Matogrosso.
Di seguito la traduzione.



Mulheres de Athenas

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
vivono per i loro mariti
orgoglio e razza di Atene

Quando sono amate si profumano
si bagnano con il latte, si acconciano
i lunghi capelli
quando sono fustigate non piangono
si inginocchiano chiedono implorano
le più dure pene
catene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
soffrono per i loro mariti
potere e forza di Atene

Quando i mariti si imbarcano come soldati
loro tessono lunghe tele ricamate
mille quarantene
e quando tornano, assetati
vogliono dare, violenti,
carezze piene,
oscene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
si mettono da parte per i mariti
bravi guerrieri di Atene

Quando i mariti si ubriacano di vino
sono abituati a prendere una carezza
di altre falene
ma alla fine della notte, ai piedi
quasi sempre tornano, per le braccia
delle loro piccole
Elene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
generano per i loro mariti
i nuovi figli di Atene

Non hanno gusti o volontà
né difetti, né qualità
hanno soltanto paura
non hanno sogni, solo presagi
i loro uomini, mari, naufragi,
belle sirene
dalla pelle scura

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
temono per i loro mariti
eroi e amanti di Atene

Le giovani vedove segnate
e le gestanti abbandonate
non fanno scene
si vestono di nero, si stringono,
si conformano e si ritirano
alle loro novene
serene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
appassiscono per i loro mariti
orgoglio e razza di Atene