giovedì 30 settembre 2010

powerhouse - part 4


Powerhouse, Valentine, Scoot e Little Brother escono nella pioggia battente.
“Beh, stanno vuotando i bidoni”, dice Powerhouse con voce addolcita. Per strada tiene le mani in fuori e rovescia i palmi bianchi, come fossero colini.
Un centinaio di neri scuri, stracciati, silenziosi e deliziati sono venuti loro intorno da sotto la tettoia della sala da ballo, li seguono dovunque vadano.
“Badate che Little Brother non si restringa”, dice Powerhouse. “Già adesso sei grande appena quanto basta per non farti risucchiare dal clarinetto. Ti si è seccata la gola, Little Brother, là nel deserto?”. Infila le mani in tasca e e tira fuori una busta di mentine. “Ora tienile in bocca: non masticarle. Non mi porto in giro la roba in quantità illimitata”.
“Andiamo in quel locale a farci una birra”, dice Scott, che cammina avanti agli altri.
“Birra? Birra? Tu lo sai che cos'è la birra? Che cosa dicono che sia la birra? Che cos'è la birra? Da dove vengo?”.
“Laggiù, dove dice World Café: va bene?”. Ora sono a Negrotown.
Valentine sgattaiola avanti e tiene aperta una porta a schermo incavata come una conchiglia, brutto spettacolo con questo tempaccio, ed entrano, anneriti dalla pioggia, lasciandosi dietro impronte sul pavimento. Dentro, odori asciutti e riparati fanno schermo intorno a una tavola coperta da una tovaglia a scacchi rossi, al centro della quale le mosche si aggrappano a una bottiglia di ketchup a forma di obelisco. I muri di mezzanotte sono anch'essi a scacchi, coperti da cartelli ammonitori che dicono “Decliniamo ogni responsabilità”, e da calendari affumicati pieni di figure nere. C'è un juke-box dall'aria disastrata e proprio lì accanto, sul muro, un apparecchio dal lungo collo etichettato come “Telefono d'ufficio, smettere di parlare”. Sopra, da ogni parte, ci sono numeri di telefono cerchiati. C'è una piuma di pavone sgualcita, che penzola legata con un filo a una vecchia, esile, rosata lampadina scoperta, e che gira lentamente su se stessa, al minimo respiro.
Una cameriera osserva.
“Vieni qui, statua vivente, e prendi tutte le grosse ordinazioni di birra che stiamo per fare”.
“Non vi ho mai visto prima, da nessuna parte”. La cameriera si muove e viene avanti, e lentamente mostra foglioline e tralci dorati sui denti. Tira su le spalle e il seno. “Come faccio a sapere chi siete? Rapinatori? Venite fuori dal nero della notte, proprio a mezzanotte, e vi sedete grandi e grossi al mio tavolo”.
“Siamo babau”, dice Powerhouse, con gli occhi che si aprono pigramente come in una grotta.
La ragazza strilla delicatamente di piacere. Santo Cielo, come le piace farsi spaventare da questi discorsi.
“Dove la trovi abbastanza birra da riempirci il tavolo?”.
Corre in cucina, gambe in spalla, a passi felpati.
“Eccovi un milione in spiccioli”, dice Powerhouse, tirando fuori le mani dalle tasche e spargendo monetine tutto intorno, tutte tranne l'ultima, che fa svanire come un mago.
Valentine e Scoot portano i soldi al juke-box, dall'aspetto malandato come una slot-machine, e leggono tutti i nomi dei dischi ad alta voce.
“ 'Tuxedo Junction' di chi?”, chiede Powerhouse.
“Lo sai di chi”.
“Juke-box, ti chiedo per cortesia di suonare 'Empty Bed Blues' e di lasciar cantare Bessie Smith”.
Silenzio: lo tengono per una misura circa.
“Riportatemi qui tutti quegli spiccioli”, dice Powerhouse. “Guardate là! Chi sa dirmi il nome di questo posto?”.
“Ballo per bianchi, giorno infrasettimanale, pioggia, Alligator, Mississippi, tanto lontani da casa”.
“Uh-huh”.
Suonano “Sent for You Yesterday and Here You Come Today”.
La cameriera, poggiando il vassoio di birra su un tavolo di neri, si avvicina tesa e apprensiva come una chioccia. “Dicono in cucina, lì dietro, da dove guardano fuori con gli occhi incollati a piccoli buchi , che lei è Mr. Powerhouse”...
“Ci vedono bene stasera, è proprio lui”, dice Little Brother.
“È proprio lei?”.
“Lui in carne ed ossa”, dice Scoot.
“Vuoi toccarlo?”, chiede Valentine. “Mica morde”.
“È qui di passaggio?”.
“Ora hai proprio capito tutto”.
Aspetta come una goccia, rigirandosi le mani.
“Bocconcino, non ce la porti la birra?”.
Gliela porta, e va dietro il registratore di cassa e sorride, voltandosi da varie angolazioni. Il piccolo filetto d'oro nella sua bocca scintilla.
Una volta dice: “Qui passa il fiume Mississippi”.

(... continua)

mercoledì 29 settembre 2010

powerhouse - part 3


A notte fonda suonano l'unico valzer che mai acconsentirebbero a suonare: su richiesta, “Pagan Love Song”. La testa di Powerhouse ciondola e sprofonda come una zavorra tra le spalle ondeggianti. Geme, e le dita gli si trascinano pesantemente sui tasti, indugia sulle note, resta indietro. È una canzone triste.
“Sapete che cosa mi è successo?”, dice Powerhouse.
Valentine fa un mugugno di risposta, sognando sul contrabbasso.
“Ho ricevuto un telegramma, dice che mia moglie è morta”, dice Powerhouse, vagabondando con le dita.
“Uh-huh?”.
La bocca si raccoglie e forma una barbara O mentre le dita salgono su, senza volerlo, per tre ottave.
“Gipsy? Ma com'è successo, non le hai fatto un'interurbana notturna, appena ieri sera?”
“Dice il telegramma... ecco le parole: Tua moglie è morta”. Sovrappone il 4/4 al 3/4.
“Nient'altro che quattro parole?”. Questo è il batterista, un ragazzo malvisto di nome Scoot, scettico e mezzo matto.
Powerhouse scuote le sue enormi guance. “Ma che diavolo stava cercando di fare? Che cosa aveva in mente?”
“Se hai ricevuto un telegramma, con che nome è firmato?”, sputa fuori Scoot con quelle spazzole.
Little Brother, il clarinettista, che non può parlare, li fissa sporgendosi all'indietro.
“Uranus Knockwood è la firma”. Powerhouse alza gli occhi aperti. “Mai sentito parlare di lui?”. Una bolla gli si gonfia sulle labbra come un piatto sul tavolo di portata.
Valentine dà dei lenti colpi con il palmo, grattando le corde con le sue lunghe unghie azzurre. È innamorato del valzer. Powerhouse lo interrompe.
“Non lo conosco. Non so chi è”. Valentine scuote la testa con gli occhi chiusi.
“Dillo di nuovo”.
“Uranus Knockwood”.
“Non è Lenox Avenue”.
“Non è Broadway”.
“Non l'ho mai visto stampato, nemmeno per una corsa di cavalli”.
“Diavolo, è su una stella, ragazzi, vero?”. Schianto sui timpani.
“Che diavolo aveva in mente?” Powerhouse rabbrividisce. “Ditemi, ditemi, ditemi”. Fa delle terzine, e comincia un nuovo chorus. Leva in alto tre dita.
“Hai detto che hai ricevuto un telegramma”. Questo è Valentine, paziente e assonnato, che ricomincia.
Powerhouse è circostanziato. “Già, il tempo di andar fuori, di andare dabbasso per un lungo co-rri-do-io fino al posto in cui ci hanno sistemati: tornavo per il co-rri-do-io: arriva di corsa e mi porge un telegramma: Tua moglie è morta”.
“Gipsy?” Il batterista come un ragno sui suoi tamburi.
“Aaaaaaaaa!” grida Powerhouse, scaglia entrambe le braccia poderose per tre interi movimenti per flettere i muscoli, poi lavora un impasto di note basse. Gli occhi gli brillano. Certe volte suona il pianoforte come una batteria: perché no?
“Gipsy? Quella gran ballerina?”.
“Perché non l'hai saputo direttamente dal tuo agente? Perché non è arrivato dal quartier generale? Che diavolo fai, ricevi telegrammi nel corridoio, firmati nessuno?”.
Ridono tutti. Fine di quel chorus.
“Che ore sono?” chiede Powerhouse. “Che razza di posto è questo? Dove sono il mio orologio e la mia catena?”.
“Ce l'hai appeso”, si lamenta Valentine. “È ancora lì”.
È lì che spenzola sul grosso stomaco di Powerhouse, laggiù dove lui non potrà mai vederlo.
“Sono sicuro di aver sentito un orologio che batteva le dodici un po' di tempo fa. Dev'essere mezzanotte”.
“Facciamo l'intervallo”, dichiara Powerhouse, sollevando il dito dove tiene l'anello con il sigillo.
Porta a termine il chorus. Dal profondo della tasca degli enormi pantaloni fatti su misura del suo smoking, tira fuori un grosso asciugamano di un albergo del Nord e ci butta dentro la fronte.
“Oh, si è andata ad ammazzare!”, dice nascondendo la faccia. “Oh, è andata a saltar giù da quella finestra”. Si alza in piedi, si volta un po', tenendo l'asciugamano sulla testa.
“Ah, ah!”.
“Lo sceicco, lo sceicco!”.
“Non l'avrebbe mai fatto”. Little Broter mette giù il clarinetto come un vaso prezioso, e parla. Sembra ancora una regina indiana, implacabile, divina, e piena di serpenti. “Non devi aspettarti che la gente faccia quel che dice in un'interurbana”.
“Andiamo!” ruggisce Powerhouse. È già alla porta sul retro, l'ha spalancata, e con la faccia furiosa e concentrata annusa la terribile notte.

(... continua)

martedì 28 settembre 2010

powerhouse - part 2


Powerhouse fa tutto il possibile con i segnali. Tutti, ridendo come per nascondere una debolezza, prima o poi gli porgono una richiesta scritta. Powerhouse le legge tutte, esaminandole con una faccia misteriosa; quella è la faccia che sembra una maschera: quelle di tutti; c'è un momento in cui prende una decisione. Poi una luce gli scivola sotto le palpebre, e dice, “92!” o una qualche combinazione di cifre: mai un nome. Prima di un numero la band è su di giri, tutta chiasso e spintoni, come bambini in un'aula scolastica, e lui è il maestro che fa fare silenzio. Le mani sui tasti, dice con severità: “Tutti pronti? Tutti pronti a fare sul serio?” – attesa – poi, SBAM. Silenzio. SBAM, per la seconda volta. Questo è assoluto. Poi una serie di colpi ritmici contro il pavimento per comunicare il tempo. Poi, O Signore! dicono gli occhi dilatati da dietro il confine delle trombe. Si parte, e tutti giù nella prima nota come una cascata.
Questa nota segna la fine di ogni disciplina conosciuta. Powerhouse sembra abbandonarli tutti – lui stesso sembra perso – giù nella canzone, urlando come preso in un gorgo – non li dirige – li precipita soltanto. Ma lui lo sa, credetemi. Grida, ma deve saperlo con esattezza. “Mercy!... What I say!... Yeah!”. E poi giù, in ascolto – “Dov'è quello scuotitamburi?” – è in cerca del batterista, e una volta partito lascia che tutto sgorghi con enorme, brutale godimento. Sui brani dolci ha quell'occhiatina per ciascuno di noi! Ci guarda tutti dritti in faccia dall'alto, con benevolenza, e ci sussurra il testo della canzone. E se tu potessi sentirlo in questo momento, su “Marie, the Dawn is Breaking”! Va su per la tastiera con un po' di dita, in una beffarda sequenza di terzine, va sempre più su, sempre più su, e poi guarda oltre il limite del pianoforte, come oltre un crinale. Ma non è esibizionismo: è la canzone che glielo fa fare.
Gli piace anche il modo in cui tutti suonano: tutti quelli vicino a lui. La sezione più lontana della band è tutta compunta, portano gli occhiali, tutti: loro non contano. Solo quelli che suonano attorno a Powerhouse sono importanti. Ha un contrabbassista di Vicksburg, nero come la pece, che si chiama Valentine, che suona con gli occhi chiusi, parlando tra sé e sé, molto giovane: Powerhouse deve incoraggiarlo di continuo. “Vai, vai, ora fermo, e adesso tira fuori tutto!”. Quando lo sentivi far così sui dischi, lo sapevi che lo stava chiedendo sul serio?
Chiama Valentine a fare un assolo.
“Che cosa suoni?”. Powerhouse lo guarda con gentilezza da dietro il pianoforte; apre la bocca e mostra la lingua, in ascolto.
Valentine guarda in basso, si appoggia al suo strumento, e senza muovere le labbra dice, “Honeysuckle Rose”.
Ha un clarinettista di nome Little Brother, e adora ascoltare qualunque cosa faccia. Sorride e dice, “Bello!”. Little Brother fa un passo avanti quando suona e se ne sta proprio lì davanti, con il bianco degli occhi simile a pesci che nuotano. Una volta, dopo che aveva suonato una nota bassa, Powerhouse ha borbottato un complimento malizioso: “Se n'è andato fino in cantina per prenderla!”.
Dopo molto tempo, mostra le dita per dire alla band per quanti giri ancora andare avanti: di solito cinque. Tiene tutto sotto controllo con i segnali.
È una cattiva serata, lì in sala. È un ballo per bianchi, e non balla nessuno, tranne qualche jitterburg qua e là e due coppie anziane. Tutti si limitano a starsene intorno alla band e a guardare Powerhouse. A volte si lanciano sguardi in tralice l'un l'altro, come a dire, Ovvio, sai com'è con loro – con i Neri – con i capiorchestra – suonerebbero sempre alla stessa maniera, dando tutto ciò che hanno, anche se ci fosse una sola persona tra il pubblico... Quando qualcuno, chiunque sia, dà tutto ciò che ha, la gente prova vergogna per lui.

(... continua)

lunedì 27 settembre 2010

powerhouse - part 1



http://www.youtube.com/watch?v=v7YAU8CTInw


Eudora Welty (1909-2001) è quasi sconosciuta in Italia, ma in America gode di una certa fama. I suoi racconti sono ambientati principalmente nel Sud degli Stati Uniti; un Sud rurale, vagamente faulkneriano, spesso opprimente nella sua ipocrita grettezza.
Ma Eudora Welty scrisse anche un racconto che è un unicum nella sua produzione. Si intitola "Powerhouse" e uscì nella sua prima raccolta, A Curtain of Green (1941).
Pare sia stato scritto di getto, dopo aver assistito a un'esibizione del grande Fats Waller; c'è chi l'ha definito "il più bel racconto a tema jazzistico mai scritto". Di certo, questa donnina del Mississippi riuscì a cogliere certi aspetti della musica afroamericana con un'acutezza unica. In particolare, colse alla perfezione l'effetto perturbante e insieme ipnotico che la vitalità dionisiaca del jazz esercitava sul pubblico bianco di quegli anni.
Il protagonista, Powerhouse, è un pianista jazz, in tournée con la sua band in un paesino del Mississippi; il personaggio è esplicitamente modellato su Waller, fisicamente e caratterialmente. La trama è piuttosto semplice: Powerhouse suona e racconta una storia. Una storia macabra, triste, truculenta. Poco importa che sia vera o no: l'importante è che lui la racconta, la varia, ci improvvisa, con l'agilità di un'acrobata.
Una perfetta metafora per quel gioco rischioso e affascinante che è l'improvvisazione.

Non credo che "Powerhouse" sia mai stato tradotto in italiano (come quasi tutta l'opera della Welty, del resto).
Io mi ci sono
imbattuto l'anno scorso, mentre raccoglievo materiale per una conferenza su jazz e letteratura. Mi è piaciuto talmente tanto che ho deciso di tradurlo io, e di farlo eseguire a un attore, con accompagnamento musicale.
Ve lo propongo: in più parti, perché è lunghetto. Questa è la prima.

* * *

Powerhouse sta suonando!
È qui in tour, direttamente da New York – “Powerhouse e il suo pianoforte” – “Powerhouse e i suoi Tasmanians” – pensa quanti nomi si è dato! Non ce n'è un altro al mondo come lui. Impossibile dire che cos'è. “Un nero”?... sembra più un asiatico, una scimmia, un ebreo, un babilonese, un peruviano, un fanatico, un diavolo. Ha occhi grigio chiaro, palpebre pesanti, forse ruvide come quelle di una lucertola, ma occhi grandi e ardenti quando li tiene aperti. Ha piedi africani della taglia più grossa, che battono, tutti e due insieme, su entrambi i lati dei pedali. Non è nero carbone – color beveraggio – sembra un predicatore finché tiene la bocca chiusa, ma poi la apre: vasta e oscena. E la sua bocca non sta mai ferma: come quella di una scimmia quando è in cerca di qualcosa. Improvvisa, arriva su una melodia leggera e infantile – smack – la ama con la bocca.
È mai possibile che sia proprio lui, questo! Quando ce l'hai lì, a suonare per te, è così che ti senti. Lo sai, le persone su un palco – le persone di una razza più scura – è così facile che siano meravigliose, spaventose.
Questo è un ballo per bianchi. Powerhouse non è un esibizionista come i ragazzi di Harlem, non è ubriaco, non è matto – è in trance; è un uomo di gioia, un fanatico. Tanto suona, quanto ascolta, con un orrendo, potente rapimento che gli traspare sulla faccia. Quando suona, calpesta pianoforte e sgabello e li schianta. È sempre in movimento – ci può essere qualcosa di più osceno? Eccolo lì, con la sua gran testa, il grosso stomaco, e piccole gambe rotonde a pistone, e lunghe forti grosse dita dalle falangi gialle, che a riposo sono quasi della misura di banane. Ovviamente sai come suona – l'hai sentito sui dischi – ma aspetta di vederlo. È sempre in movimento, come se pattinasse tutto attorno alla pista, o se spingesse una barca a forza di remi. Tutti gli si affollano attorno, qui nella sala senza ombre, foderata d'acciaio, con i poster rosati di Nelson Eddy e il certificato del cavallo telepate, manoscritto e ingrandito cinquecento volte. Poi, con tutta tranquillità, posa il dito su un tasto con la sicurezza e la serenità di una sibilla che tocca il libro.
Powerhouse è così mostruoso che spedisce tutti nell'oblio. Lo sai, quando arriva in città un qualche gruppo, o un qualche spettacolo, la gente esce a dare un'occhiata, si affaccia per capire di che si tratta. Che cos'è? Ascolta. Ricorda com'è andata con gli acrobati. Guardali con attenzione, ascolta fino alla minima parola, specialmente quel che si dicono l'un l'altro, in un'altra lingua: non lasciarteli scappare; è l'unica occasione per l'allucinazione, l'ultima occasione. Non possono restare. Domani a quest'ora saranno altrove.

(... continua)

domenica 26 settembre 2010

marginalità


Quest'anno, lo saprete tutti, è stato consumato l'ultimo degli infiniti, decennali massacri a danno della scuola pubblica: la tanto conclamata "riforma" della Gelmini, che in quattro parole si può riassumere nell'ennesimo taglio di fondi e di cattedre e nell'ennesima coltellata alla schiena per il futuro del nostro Paese.
Oltre al danno, la Mariastella ha pensato di aggiungere la beffa, diramando alle scuole un corposo papier (varie centinaia di pagine) di indicazioni per i nuovi programmi, intitolato Schema di regolamento recante “Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di apprendimento concernenti le attività e gli insegnamenti compresi nei piani degli studi previsti per i percorsi liceali di cui all’art. 10...", eccetera eccetera.

Ora, sorvoliamo sul fatto che il documento è redatto da un comitato di presunti "esperti", che palesemente non hanno mai messo piede in un'aula scolastica, non ne conoscono i problemi e le potenzialità, e che hanno prodotto nient'altro che un pomposo e farraginoso proclama, denso di gergo accademico e povero di concrete indicazioni didattiche.
Sorvoliamo anche sul fatto che, a una drammatica riduzione delle ore, corrisponde un aumento sproporzionato dei programmi che i docenti sarebbero chiamati svolgere.
Sorvoliamo anche sulla totale mancanza di senso di tali programmi, in cui le nozioni si accumulano sulle nozioni, senza mai nemmeno tentare di trovare un filo conduttore, una logica, una linea-guida per chi dovrebbe insegnare e apprendere.
Sorvoliamo, perché a tutto ciò dovremmo essere abituati. E' la scuola italiana, è così da decenni e così resterà, nei secoli dei secoli.

Quel che mi interessa è che il documento menziona (Allegato E) anche un costituendo "Liceo coreutico-musicale": che a conti fatti si rivela essere nient'altro che un liceo qualsiasi, con più o meno gli stessi programmi di tutti gli altri, al quale vengono appiccicate artificiosamente una sezione di musica e una sezione di arte coreutiva.
In pratica, una copia sbiadita di un Conservatorio o di un'Accademia di danza: ancora una volta, senza alcuno sforzo di trovare un'integrazione o una linea comune nei programmi di studio.

Ma la più bella arriva quando si leggono gli argomenti che andrebbero svolti nel quinto anno del corso di Storia della Musica.
Cito testualmente da pag. 282:

Lo studente conosce il profilo storico dal secolo XIX ai giorni nostri e analizza autori come Liszt, Verdi, Wagner, Brahms, Puccini, Debussy, Mahler, Stravinskij, Schönberg, Bartók, Webern, Šostakovic, Britten, Berio, Stockhausen ecc., nonché a margine fenomeni come il jazz, la ‘musica leggera’ e la cosiddetta popular music.

In altre parole: per gli eccelsi intelletti che hanno redatto il documento, jazz e popular music (a proposito: e il rock?) sarebbero un fenomeno "marginale" nella musica del Novecento.
Louis Armstrong, Duke Ellington, Miles Davis, Charlie Parker, Billie Holiday, John Coltrane, i Beatles, Bob Dylan, Leonard Cohen, Jimi Hendrix, Bruce Springsteen, Domenico Modugno, Fabrizio De Andrè, Piero Ciampi, Muddy Waters, Ray Charles, James Brown, eccetera eccetera eccetera. Tutto ciò, nella loro mente, sta "a margine", in un angolino. E di grazia se è stato nominato.

Ora, aiutatemi voi. Come lo chiamiamo questo: snobismo? puzza sotto il naso? o pura e semplice idiozia?

sabato 25 settembre 2010

venerdì 24 settembre 2010

pubblicità


Per chi si trovasse a passare per la Riviera Romagnola questo weekend.
Domenica 26 settembre, a Rimini, presso il Castel Sismondo (piazza Malatesta), dalle 15,30 alle 20,00 c'è una manifestazione intitolata "La storia di un valore", che comprende conferenze, performance teatrali, concerti, e un reading poetico sul tema "Una 'madre' ci accompagna: la scrittura".
Al reading poetico partecipa anche il vostro umile e indegno blogger.
Qui trovate maggiori informazioni e il programma dettagliato.
Vi aspetto.

giovedì 23 settembre 2010

gogna


Gogna, vergogna e pubblico ludibrio per gli autori delle antologie* del liceo.
Con che faccia si riciclano i cascami più stantii dello strutturalismo, esausti da almeno trent'anni, e li si propina per "didattica della letteratura"?
E poi ci si lamenta che "i giovani non leggono".
Gogna, gogna e ancora gogna...




P.S.: Le metafore sono importanti, ci insegna Lakoff. "Antologia", da άνθος, "fiore", e λέγειν, "raccogliere". La metafora è che la letteratura sia un arbusto dal quale si colgono i fiori più belli. Il risultato è che ci si trova con, da una parte, un arbusto spogliato, dall'altra una collezione di cadaverini.

mercoledì 22 settembre 2010

l'estate è finita



A ripensarci bene, non è che sia passato tutto questo tempo. Era la fine degli anni Settanta, forse i primi anni Ottanta.
Si partiva in macchina (ricordo in particolare la Renault 5 color sabbia, praticamente un grosso uovo con le ruote, ma ce ne sono state altre, prima e dopo). Mattina presto, per essere al mare all'ora migliore. Senza cinture né seggiolini né airbag, ovvio. Ne siamo usciti tutti vivi, comunque.
Il tragitto, ad ogni modo, non era lungo: venti, trenta chilometri, una mezz'oretta sulla vecchia statale. Otto di mattina, l'aria sul Tavoliere cominciava già a tremolare per la calura. Stazioni fisse: la masseria con le bufale che si bagnavano nel fango (al ritorno ci si compravano le mozzarelle); San Nazario, vecchia chiesetta in mezzo alla campagna, famosa per le pozze d'acqua dolce immerse tra i canneti e brulicanti di girini; e infine il Lago di Lesina, la lunga e stretta lingua di sabbia che separa la laguna dal mare, con il paese vecchio da una parte e quello turistico dall'altra, le case bianche in lontananza.
Le spiagge: Torre Fortore, Torre Mileto, a volte Lido del Sole o Capoiale. Quasi su ognuna, c'era un'antica torre di guardia, chiusa, mezzo corrosa dal sale. La macchina parcheggiata direttamente sul margine della spiaggia (niente parcheggi asfaltati, anzi, niente parcheggi e basta).
Spiaggia libera (quelle a pagamento erano pochissime), l'ombrellone piantato da mio padre scavando in profondità nella sabbia sempre più fresca e umida. Quando era bassa marea, a pochi metri dalla riva emergeva la secca, meta privilegiata dei giochi.
Scorpacciate di canolicchi e telline, rigorosamente appena pescati, crudi e ancora vivi, senza temere inquinamento e malattie. Scendevi in mare, facevi quattro o cinque metri e tiravi su una manciata di sabbia, e dovevi essere proprio sfortunato se non ti rimaneva in mano qualcosa. In genere telline, se andava bene anche una vongola, o un cardium con la conchiglia striata e convessa, con dentro il mollusco color porpora.
I ricci li riportava mio padre dagli scogli: si aprivano e si succhiava l'interno, di color rosso vivo come un piccolo cuore pulsante. Idem per le patelle, staccate con il coltello, salatissime, dure come gomma sotto i denti.
Il bagno fin quando i polpastrelli si arricciavano. Meglio se c'erano le onde, meglio ancora i cavalloni nei quali ci si tuffava trattenendo il fiato, riemergendone pieni di sabbia e alghe. Ogni tanto un po' di catrame sotto le piante dei piedi, che andava smacchiato con olio e ovatta.
Complicate opere di ingegneria sabbiosa. Altro che castelli: bacini, dighe, canali di derivazione e di svuotamento, interi sistemi idrici, e poi altissime guglie fatte con la sabbia bagnata colata giù dal pugno. Tutto effimero, perciò ancora più bello.
Il ritorno era verso mezzogiorno, quando la spiaggia cominciava ad arroventarsi. La macchina, un forno (niente aria condizionata: siamo sopravvissuti anche a questo), la sabbia nelle ciabatte e nel costume.
Per strada, si attraversava spesso il fumo nero, acre e denso delle stoppie accese. Il fuoco bruciava, quasi sempre incustodito, a pochi metri dalla strada.
Lungo la statale, camion che vendevano angurie e meloni. Angurie enormi, da dieci o dodici chili, che mio padre sceglieva tamburellandoci sopra. E certe piccole pere verdi, durissime e dolcissime.
E poi i granchi: mio padre ne riportava a casa secchiate (si nascondevano nella sabbia, lasciando emergere solo gli occhi e le chele: inutile), li metteva nel lavabo e pescava da quella massa brulicante e ticchettante, e a forbiciate tagliava via tutte le zampe e le chele. Le articolazioni delle chele, minuziose come minuscoli meccanismi.
Non morivano subito: per un po' continuavano a macinare bollicine dalla bocca. Erano morti quando l'addome, prima ripiegato strettamente sotto il carapace, si rilasciava assumendo l'aspetto di una piccola coda.
Poi ci si faceva il sugo.

martedì 21 settembre 2010

incontri


Sull'autobus, due amiche. Entrambe sui quindici anni.
Stesse scarpe da tennis, slacciate: bianche una, nere l'altra.
Entrambe in jeans: una larghi e pieni di strappi, l'altra attillati.
Stessa canottiera: una color giallo canarino, l'altra bianca, con la foto di una modella che mostra il dito medio a chi guarda.
A tracolla, la stessa borsa nera a sacco.
Capelli dello stesso color mogano: una a caschetto, l'altra corti, con un ciuffo da una parte sola.
Entrambe cariche di orecchini, piercing, braccialetti, ammennicoli più o meno etnici.
Una ha una faccia da italiana qualsiasi, l'altra ha occhi stretti, asiatici, a liscio delle guance, senza l'avvallamento delle cavità orbitali.
Smetto di guardarle quando mi rendo conto che sto facendo la figura del pedofilo.

lunedì 20 settembre 2010

suonare di tutto



http://www.youtube.com/watch?v=4boy-eXQBHg

Il jazz contiene tutte le possibilità espressive immaginabili, al suo interno si può suonare di tutto, con la consapevolezza e la volontà di saperlo fare. Voglio dire, se sei in un contesto tipicamente rock, con chitarra e basso elettrico e batteria molto presente e ti viene in mente di infilarci un assolo di sassofono o tromba propriamente jazz, oppure una sonata per pianoforte, ecco, verrebbe fuori una cosa molto posticcia, per niente genuina. Al contrario, nel jazz si può sfruttare tutto ciò che le orecchie umane possono ascoltare. Nonostante ci siano molti puristi che considerano jazz tutto ciò che sia stato prodotto fino a un certo momento, gli anni Cinquanta, con caratteristiche fisse e ripetitive. Invece è una musica fisica, che contiene tutte le sfumature di sentimenti che possiamo immaginare.
(Maria João)

domenica 19 settembre 2010

di gabbie e di telescopi

Oggi sono venticinque anni dalla scomparsa di Italo Calvino, che fu colto da un ictus nella sua casa di Castiglion della Pescaia il 18 settembre del 1985 e morì a Siena la notte seguente.
Negli ultimi giorni sto meditando su un post letto nel blog La scuola dei cadaveri: una caustica - e intelligente - stroncatura proprio di Calvino.
Non solo e non tanto del Calvino scrittore in sé, ma del mito-Calvino, del canone-Calvino che negli ultimi 15 o 20 anni si è consolidato nell'accademia e nella scuola italiana.
Un post con cui sono d'accordo solo in parte, ma che contiene una porzione importante di verità, ad esempio quando parla dell'indubbio e innegabile fiuto che Calvino ebbe per l'autopromozione. Buon ligure, in questo, senza dubbio.
Insomma, per chi, come me, Calvino lo ha amato molto, lo ha assimilato per intero (credo di aver letto la sua opera-quasi-omnia, o poco ci manca) e poi lo ha giocoforza abbandonato (credo di non leggere una sua pagina da almeno una decina d'anni), qualche riflessione è inevitabile.
Prima riflessione è che la canonizzazione uccide gli scrittori, sempre. Uno scrittore in un'antologia è già un cadavere letterario. E Calvino non fa eccezione.
Però, seconda riflessione, Calvino fu qualcosa di più dello scrittore lucido e neoilluminista e ironico e volatile che vogliono spacciarci.
Il problema - e qui veniamo al nocciolo - è che lui stesso tentò sempre, disperatamente, di sfuggire a quella sostanza prettamente tragica che era nella sua vera natura, e che - suo malgrado - emerge, ogni tanto, nelle sue pagine migliori.
Calvino finì per rifugiarsi nella propria bravura e intelligenza, che ci sono, innegabili. E che alla fine divennero una gabbia (gabbia che si era costruito con le sue stesse mani, e lo sapeva benissimo anche lui: provare a leggere "Mondo scritto e mondo non scritto" per credere).
Per esempio: "Le città invisibili", una volta spogliato degli ingegnosi giochi strutturali che mandano tanto in sollucchero la critica accademica, contiene alcune pagine di puro lirismo che sono tra le sue più belle.
Il problema è che Calvino si illuse sempre di poter fare i conti con il reale ingabbiandolo, invece che entrando lui stesso, in prima persona, nella gabbia ad affrontarlo. Calvino finì per trasformarsi in Palomar, nell'uomo-telescopio che osserva il mondo da dietro una lente: e che (c'è da meravigliarsi?) il mondo non riesce più a toccarlo.
E forse lo aveva capito anche lui, se negli ultimi anni stava lavorando al progetto sui cinque sensi, quello che poi fu pubblicato, incompiuto, in "Sotto il sole giaguaro".
Il Calvino più vivo, più vero, resta per me quello che, ne "La giornata di uno scrutatore", fa cozzare il proprio illuminismo con l'irraccontabile e l'indicibile per antonomasia: il dolore, la deformità, la sofferenza.
E' quello il Calvino che avrei voluto continuare a vedere, e che invece si è perso.

sabato 18 settembre 2010

lampi - 70


Il rock, questo interessante fenomeno sociologico della media borghesia tardonovecentesca.

venerdì 17 settembre 2010

la scuola fascista è viva (e lotta contro di noi)

di Valter Binaghi
(dal blog Doctor Blue and Sister Robinia)

E’ uscito (è il caso di dire: a fagiolo) proprio in questi giorni il libro di Girolamo De Michele “La scuola è di tutti” (Minimum Fax, 15 euro), che da oggi ho sulla mia scrivania. In attesa di leggerlo e discuterne come merita [...], vi propongo questo estratto, già pubblicato su Carmilla. Quel che io credo, in proposito, è che un fascismo pedagogico esista e sia implicito in certi atteggiamenti cristallizzati nella scuola italiana, anche se non li declinerei esattamente alla maniera di De Michele. Del pari, credo che oltre al fascismo pedagogico ci si debba guardare da un nichilismo non formale ma sostanziale, che emerge da posizioni relativistiche e da certe pretese di “neutralità” che De Michele invece sembra a volte esaltare. Ma il merito di un testo va al di là dell’adesione alle sue tesi. Chiarezza e determinazione servono a capire di più le proprie ragioni, anche quando non sono le stesse che il testo afferma...

(...continua a leggere su Doctor Blue and Sister Robinia)

giovedì 16 settembre 2010

riflessioni sull'arte della recensione

Si dice il peccato, non il peccatore.
Questo è un estratto da una recensione live, pubblicata da una nota rivista, a firma di un noto recensore.

"Tutto esaurito, la sera seguente, per il duo Corea-Bollani, che meriterebbe una riflessione meno affrettata. Se Corea ha cercato di mantenere dignità espressiva, Bollani ha ecceduto con il suo repertorio di gag e trovate 'comiche' cercando la comunicazione con il suo nuovo pubblico, che non è quello della musica: una scelta che rischia di condurlo verso logiche che poco hanno da spartire con il jazz e l'arte in generale".

Ora, a parte il fatto che la "riflessione meno affrettata" occupa, nell'originale, poco più di 10 righe (e se era affrettata, quanto ci metteva?), ci sono un po' di cosine che non mi tornano.
Da questa recensione apprendo:
- che, per il recensore, è fondamentale "mantenere dignità espressiva" (esiste una definizione "dignità espressiva"? se sì, non è stata fornita);
- che fare battute sul palco farebbe, chissà perché, "perdere dignità espressiva";
- che Bollani fa battute perché ha un "nuovo (nuovo?) pubblico", e che questo pubblico non capisce la musica; ora, chi gliel'ha detto? ha intervistato i presenti uno per uno? (per inciso, Bollani fa battute da quando io mi ricordo, ossia da ben prima di apparire in radio e in tv); e se anche fosse, se Bollani avesse portato a un concerto jazz gente che da sola non ci sarebbe mai andata, che male c'è?
- che la comicità ha "poco da spartire" con il jazz (vallo a raccontare ad Armstrong, a Gillespie, a Errol Garner, a Lester Bowie) e con l'arte (vallo a raccontare a Chaplin, a Buster Keaton, a Totò);
- che il recensore ha un'idea ben chiara di che cosa sia il jazz e di che cosa sia l'arte (beato lui).

Quello che da questa recensione non apprendo è: che musica hanno fatto Bollani e Corea? hanno suonato bene o male? il duo aveva un progetto o hanno improvvisato? eccetera eccetera.
Vale a dire: non apprendo l'essenziale, quello che una recensione dovrebbe, per prima cosa, comunicare, e invece apprendo molto circa le idiosincrasie del recensore.
Delle quali, detto fra noi, nun me ne pò fregà de meno.
Tutto ciò senza voler fare l'avvocato difensore di Bollani; che, per la cronaca, mi sta simpatico, e reputo bravissimo, ma che mi piace a volte più, a volte meno, a volte per niente.

Detto in altri termini: se il recensore ritiene che Bollani abbia suonato male, lo dica, e magari spieghi anche il perché. Se invece Bollani, battute a parte, ha suonato bene, allora dove cacchio sta il problema?

mercoledì 15 settembre 2010

lampi - 69


Su facebook, la fidanzatina del primo anno di liceo.
Sposata con un carabiniere di Potenza; due bambini, Kevin e Nicholas. Le foto della vacanza a Riccione. Iscritta ai gruppi: Le migliori frasi di Vasco Rossi; Padre Pio forever; L'onore del popolo italiano.
Tira un sospiro di sollievo.

martedì 14 settembre 2010

primo giorno di scuola


Tutte le aule hanno lo stesso odore: aria spessa, viziata, carne giovane imbottita di ormoni. Aerare serve a poco.
E tutte le facce, il primo giorno, sono uguali, viste da qui. Non sorridono alle battute, non si fidano. E hanno ragione.
Il lavoro, quello duro, è di espugnarle, una per una.

lunedì 13 settembre 2010

memorandum per il primo giorno di scuola



Ogni attentato alla libera espressione riduce la ricchezza d'un paese. La tirannia è il più rovinoso dei lussi. Questo è vero a tutti i livelli e, in un paese dove i poeti sono imprigionati o esiliati, è fatale che le casalinghe facciano la coda davanti ai magazzini.

(Michel Tournier)

domenica 12 settembre 2010

recensioni in pillole 66 - "il nuotatore"

John Cheever, Il nuotatore, Fandango 2000 (49 pp., € 5,16)

Strano come John Cheever (1912-1982), ai suoi tempi annoverato tra i più grandi scrittori americani, sia oggi semidimenticato.
Il "New York Times", in una celebre recensione, lo definì "il Cechov d'America", affermando che in comune con il grande russo aveva "l'eleganza, il calore, lo humour, un occhio infallibile per le assurdità del mondo e i difetti e le debolezze del genere umano". Tutto vero, ma la cosa buffa è che Cheever non aveva mai letto Cechov in vita sua.
Questo volumetto raccoglie tre brevi racconti, di una dozzina di pagine ciascuno.
Il primo, "Il nuotatore", è uno dei più famosi di Cheever, e nel 1968 ne fu anche tratto un film con Burt Lancaster. All'inizio il protagonista Neddy Merrill, un uomo di mezza età, si trova a casa di amici, a una festa in piscina. E' una bella domenica mattina d'estate, Neddy è soddisfatto di sé e del mondo, e scommette che tornerà a casa sua, dall'altra parte della città, attraversando a nuoto tutte le piscine del vicinato. Il viaggio si trasformerà in una sorta di apologo metafisico sulla middle-class americana e sul mito del successo, di cui la piscina è simbolo. Che, detto così, suona un po' una palla, ma vi assicuro che il racconto è secco, essenziale: tredici pagine magistrali.
Nel secondo, "Una giornata qualsiasi", c'è una famiglia altoborghese in vacanza in campagna, e non succede niente, o quasi: marito e moglie vanno a vedere una vecchia fattoria in rovina (lei vuole comprarla, lui no), una tata assiste una bambina triste e antipatica, un giardiniere impreca contro la padrona, le domestiche chiacchierano e spettegolano, un uomo sistema una trappola per i procioni, e così via. Ma quel "niente" è pervaso da un senso di struggimento, da una solitudine assoluta, irredimibile.
Nel terzo, "Una radio straordinaria", la vita apparentemente perfetta di una giovane coppia newyorkese è sconvolta dall'acquisto di una radio che funziona, diciamo così, un po' troppo bene.
In conclusione: ora mi toccherà disseppellire Amore e la vita (The Wapshot Chronicles), primo romanzo di Cheever, acquistato secoli fa in una vecchia edizione Longanesi anni '50 e da allora mai aperto.
Del resto, ormai ho imparato che quando i libri chiamano, non c'è niente da fare.

sabato 11 settembre 2010

destino


Non so se voi credete ai segni del destino. Io no.
Però l'altroieri ero in treno, stavo lavorando con il portatile, e per caso mi sono ricordato di aver scaricato da internet un po' di poesie, tempo fa.
Ho aperto la cartella dove le avevo salvate e ho visto che uno dei file si chiamava “Vittorio Bodini”. Un poeta pugliese, di cui avevo parlato non so più quando, non so più con chi. Avevo scaricato le sue poesie e non le avevo più lette. Mesi fa, come minimo.
Ho aperto il file, le ho lette e mi è piaciuta molto questa:

Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni cosa, ogni attimo del passato
somiglia a quei terribili polsi dei morti

che ogni volta rispuntano dalle zolle

e stancano le pale eternamente implacati,

compresi allora perché ti dovevo perdere:

qui s'era fatto il mio volto, lontano da te,

e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.


Quando tornai al mio paese nel Sud

io mi sentivo morire.

Un'oretta dopo, arrivato in albergo, accendo la tv. Per caso, senza l'intenzione di vedere nulla in particolare.
Appena accesa, su un canale a caso (credo fosse Rete4, un canale che peraltro non guardo mai, anche perché a casa mia si prende malissimo), compare sullo schermo Michele Placido che recita, tra tutte le possibili poesie del mondo, proprio questa.
Proprio gli stessi versi sui “terribili polsi dei morti” che erano piaciuti a me, e che avevo letto, per la prima volta in vita mia, un'ora prima.
Beh, a questo punto, direi che devo leggere Vittorio Bodini.
Voi che ne pensate?

venerdì 10 settembre 2010

recensioni in pillole 65 - "l'età dello swing"

Gunther Schuller, Il jazz: L'era dello swing. Le orchestre bianche e i complessi (Glenn Miller, Artie Shaw, Woody Herman, Nat King Cole), EDT 2010 (290 pp., €18)

Gunther Schuller afferma di aver ascoltato, per scrivere “The Swing Era”, qualcosa come trentamila dischi: e non c'è ragione di non credergli.
Questo sesto volume completa, dopo ben quattordici anni, la traduzione di “Early Jazz” (1968/1986) e “The Swing Era” (1991), interamente ed esemplarmente curata e tradotta da Marcello Piras.
Stavolta la materia non è, in potenza, delle più interessanti. Il volume copre infatti tre argomenti non interrelati: le orchestre bianche non comprese nei precedenti volumi (Charlie Barnet, Glen Miller, Gene Krupa, Woody Herman, ecc.), le orchestre “regionali” (ossia quelle che giravano nei piccoli circuiti di provincia) e alcuni piccoli complessi non trattati in precedenza (in particolare quello di Nat King Cole).
Eppure anche qui Schuller riesce a far valere le sue doti: conoscenza enciclopedica del jazz (e non solo: è una delle poche figure capaci di muoversi altrettanto a suo agio nella musica classica come in quella afroamericana), acribia critica e capacità argomentative indiscutibili.
Esemplari, in tal senso, la puntigliosa documentazione sulle orchestre regionali, spesso sconosciute anche ai più esperti critici, o le analisi molto equilibrate di orchestre in genere liquidate frettolosamente, come quella di Casa Loma o quella di Glenn Miller, o ancora il giudizio articolato e minuzioso su Artie Shaw.
Sia chiaro: “equilibrato”, “puntiglioso”, “articolato” eccetera non significano necessariamente “giusto” o “definitivo”. Tanto per fare un esempio, quando Schuller disquisisce sulle orchestre che a suo parere preconizzarono la Third Stream, è logico che sta parlando pro domo sua, dato che lui stesso fu, negli anni Cinquanta, uno dei principali fautori di tale movimento. E spesso alcuni giudizi – uno per tutti: quello duro e liquidatorio, al limite dello sprezzante, sul sestetto di John Kirby – lasciano alquanto perplessi.
Ma, in fin dei conti, è sempre un piacere essere in disaccordo con Schuller.

giovedì 9 settembre 2010

aplomb



http://www.youtube.com/watch?v=G2UVsyVLLcE


Okay, è uscita solo sul sito della casa editrice.
Però è pur sempre la mia prima recensione.

Comunque, non preoccupatevi: manterrò il mio proverbiale aplomb, come potete desumere dal video.


(Ah, la recensione è questa).

mercoledì 8 settembre 2010

madeleine (2)


Qui dovremmo essere verso la metà degli anni '90, intorno all'epoca del mio arrivo a Perugia. Diciotto-vent'anni, insomma. Tanto per sapere.


Io non so quale vento tortuoso
mi colma il petto come una conchiglia

La persiana regge a stento la notte
furiosa di fanali

E il mio cuore ha il perimetro dei muri
la loro forza sparuta

che frena il buio allo stupore del canto

* * *

Due giorni di pioggia testarda
hanno chiuso in casa quasi tutto
il paese: quei pochi che scavalcano
pozzanghere di certo busseranno
ad altre porte. Gocce di condensa
sui vetri deformano l'immagine
delle automobili. Eppure sei tanto
vicina se nei fili del telefono
so l'ansia di ciò che non dici

sola in chilometri di grigio.

* * *

E' la musica ormai senza colori
del tramonto che il nido indolente
risveglia del mio cuore

(Scendesse una foglia
una
a scuotere l'acqua in un cerchio
di dolore)

* * *

Nell'ora più azzurra del crepuscolo, tuffato
dal torpido lucore dei lampioni,
che cosa vidi sporgersi e distogliersi sul cavo
d'ombra del balcone?

Nell'ora più incerta tra l'estasi e l'ombra
un'eco di voli rigava le cose semispente
e nel petto sentivo il mio cuore
riscuotersi a un graffio di dolcezza.

* * *

E' acqua o è la tenebra, quella
che bubbola di là dal cerchio esiguo
di due lampioni, falbi sotto il fosforo
dell'Orsa? E' un sapore di giorni
rancidi, quello del groppo
che sputo sulla sabbia bagnata?
Chi mi chiama è la notte dissipata
per un ribollire di sogni
tarati, di baci abortiti?
Il cielo è più cieco del sonno
che serra un corpo spento di ragazza
a due passi da me. Sul cuscino
il buio ha cancellato il suo profilo.

* * *

Sarà forse un tuo slancio di rondine a rompere il cielo
il taglio dei tuoi occhi a fare giorno

E il tempo cadrà esatto come il globo
di luce dalla foglia del mattino

Il grigio torpore di nubi che ora soffoca ogni luce
tu lo sospenderai nello splendore

di un gesto che ha tutta la fermezza di un rapido mattino.

* * *

E oggi mi ritrova questa luce
questo carosello di ombre mute
nel silenzio dorato della stanza.
Come udite di sott'acqua
anche queste parole
ritornano oggi sul mio cuore esausto.

* * *

Il ragno del mattino tesserà il nuovo giorno
freddo d'una purezza di sorgente

La mia mente è un pesce d'oro nell'acquario delle fronde
e il tuo ricordo in me prilla come un'acqua inquieta

* * *

Non ci sono che io a sapere il tuo
rincorrerti al mattino negli specchi
nel gelido sole d'inverno che piomba
sulla stanza ancora calda del tuo sonno.

Non ci sono che io a saperti incerta
sulla soglia del giorno - e il guizzo bianco
della sciarpa ti sospinge nella luce
nel vento arrogante di Perugia.

Non ci sono che io a sapere il tempo
esatto del tuo passo, io che ti guardo
come un graffio leggero che non so
più cancellare dal mio cuore liso.

martedì 7 settembre 2010

la squola



http://www.youtube.com/watch?v=TNORVPdhc18


Come i più fedeli tra i miei lettori forse ricordano, quest'anno, dopo alcuni anni in aspettativa per incarichi con l’università, torno ad insegnare alle superiori.
Venerdì, primo collegio docenti.
Il preside mi assegna tre prime, italiano e storia. Un po’ faticoso, neanche una classe di triennio, ma vabbè. Vado a vedere la lista degli alunni: rispettivamente 29, 30 e 31.
“C’entrano nelle classi?”, chiedo al preside.
“No”, mi risponde, “siamo ben oltre i limiti di sicurezza, ma in Provveditorato un’altra prima non me l’hanno voluta dare”.
“E come facciamo?”.
“Non lo so. Stiamo cercando una soluzione”.
“Manca una settimana all’inizio dell’anno scolastico”.
“Lo so, Pasquandrea, lo so”.

Ieri ho partecipato agli scrutini per gli alunni con “sospensione di giudizio” (ora si chiamano così: in pratica, sono i vecchi “rimandati a settembre”), in sostituzione di una collega che c’era l’anno scorso, precaria, non riconfermata. Mia compagna d'università, per inciso.
Su quattro alunni da giudicare, due non si sono presentati. Uno era ricoverato in nefrologia: è tossicodipendente. L’altro ha 21 anni, è stato già bocciato tre volte, vive praticamente per strada.

Mi ricordo una mia vecchia preside: sosteneva che per fare gli insegnanti "ci vuole spirito di sacrificio" (leggi: lavorare senza esser pagati), e io ribattevo che, finché noi insegnanti saremo considerati (e continueremo a considerarci) missionari, invece che professionisti, la scuola continuerà ad andare a rotoli.
Mi viene da pensare che, certe volte, anche solo fare il proprio mestiere sia quasi un atto d'eroismo.

lunedì 6 settembre 2010

madeleine (1)



http://www.youtube.com/watch?v=keqU3ZeSaDk


Ho preso il coraggio a due mani. Sono sceso in garage, vestito peggio che potevo, ho aperto scatoloni che erano passati intatti lungo tutto l'ultimo decennio. Ho trovato, rinchiusi come in una capsula del tempo, frammenti del me stesso degli ultimi anni dello scorso millennio.
Il sasso di granito raccolto in Egitto, ai piedi di un obelisco che gli antichi tagliapietre avevano lasciato nella cava, incompiuto, ancora in parte inglobato nella roccia (marzo 1996).
L'epibloc che ho portato per venti giorni sul secondo metacarpo sinistro (settembre 2001).
Articoli di giornale ritagliati e mai letti.
I programmi del mio primo anno da prof (scuola media di Colle Umberto, A.S. 2000/2001, classe 3° A).
Schizzi per quadri mai nemmeno cominciati.
Le lettere che mi spediva G., quando ancora si spedivano le lettere (quelle di carta, intendo).
Gli appunti di remoti esami universitari.
Il biglietto aereo per New York (settembre 2004).
La pianta della metropolitana di Parigi (giugno 2005).
Biglietti da visita di perfetti sconosciuti.
I miei vecchi zibaldoni.
Fotocopie su fotocopie su fotocopie, intere foreste disboscate per studiare cose di cui non ricordo nulla, o quasi.
Tutta la bibliografia, annotata e commentata, della mia tesi di laurea (1997-98).
Polvere, polvere ovunque.
Ma soprattutto è riemerso un fascio di fogli rilegati. Dal carattere, direi che la stampa è quella del mio primo, preistorico pc, acquistato nei primi anni Novanta e rottamato dopo oltre dieci anni di onorato servizio.
C'è scritto "Poesie 1987-1997".
Lo apro, e ho un soprassalto. Non credevo di aver scritto tanto: centinaia e centinaia di pagine, versi che scopro di ricordare a memoria. E che non riesco nemmeno a valutare con oggettività, come non riuscirei a farlo con un pezzo di carne strappatami di dosso.
Davvero ero io il ragazzino che scriveva roba del genere? Non ci giurerei troppo...
Comunque, qui avevo forse sedici anni o diciassette anni, diciotto a dire tanto.
Giudicate voi.


TEMPORALE

Penombra a mezzogiorno
e il mio cuore si fa chiostro
di nuvole, la mia mente solco
fumante di pioggia. Ma nel corpo
un brivido elettrico,
l'urlo smeraldo d'un pino:
penombra di mezzogiorno,
il tuo vento diaccio
è il respiro verde estremo
d'un cadavere già vuoto.

* * *

MATTUTINO

Mi aspetti ancora contando le scale?
Questo brusio è di certo lo stormire
gonfio e ventoso dei tuoi capelli...
o il fruscio di innumerevoli ragni,
esili figli del sonno,
che mangiano le foglie del ricordo,
accolte sul cavo della mente
come barche in una baia.

Mi aspetti ancora al bordo della piazza?
Il cuscino raccoglie
l'ultimo rivolo di sogni,
la luce cade sul balcone
come un geranio appassito,
e non trova le tue ciglia appannate
se non nel mare fermo delle attese
che la memoria spiega sul filo del giorno.

Mi aspetti ancora tra i muri del paese?
Il sole soffia tra le nubi una luce
soffice come i panni sui balconi
e il tuo ricordo è riverso nell'erba
sotto gli archi d'ombra dei rami,
lèvita obliquo nel fumo sui campi,
o cammina tra mobili che scrollano il buio.
Canta piano e non mi fa svegliare.

* * *

Verrà la notte con schianto di lampi,
con fragore di spigoli travolti:
verrà la morte - penombra d'inverni -
e la noia tramerà ogni cielo.

Tu pure verrai, incendiando le nebbie
di un profumo succoso d'aranci:
leggère come aironi di carta
le parole empiranno i portoni.

* * *

Grigio che si scioglie
sotto i muri,
sonno scuro dei blues:

"I'll just bid
farewell till we
meet again..."

Ma sarà luce e assalto
di foglie sulla sera:
fiamma i tuoi capelli

nel fumo buio della notte.

* * *

Di vuoti sciami
un fremito nei tigli:

le gazze
tracciano sottili
ferite d'autunno.

* * *

Profumo di luna recente

L'intaglio delle voci
strette
sui lampioni

Ascolta la sera
mozzare
il fiato ai motori

* * *

Ventate di naufraghi tetti
cicatrici di vuoto tra muro
e muro

I rondoni
più in basso di me
sfrondano siepi di sole

Cantasse una donna - sarebbe
spavento
o amore?

domenica 5 settembre 2010

ambientalismo selettivo


dal blog di Francesco Pecoraro (alias Tashtego)

In somma e solo per fare un esempio, perché l’animalista e l’ambiental-buonista e il verde de «sinistra», se muore una tartaruga si strappano i capelli, mentre non gliene può fregare di meno, per dire, del maiale?*


*Che oltre-tutto è molto più intelligente e spiritoso della tartaruga e più simile a noi, al punto che talvolta ci fa da donatore di organi e stanno già pensando di creare maiali geneticamente modificati nel senso di una maggiore compatibilità biologica con la scimmia nuda, così davvero e definitivamente del maiale non si butterà via niente e sai che festa a gennaio, quando lo si sgozzerà davanti a tutti, lasciandolo oscenamente a dissanguarsi appeso a testa in giù, mentre un mezzo veloce dell’Asl locale starà lì ad aspettare l’espianto del cuore da trapiantare da lì a poco in un cardiopatico, magari pure un’uomm’emmerda.

sabato 4 settembre 2010

lampi - 68


Il suo rapporto con i libri è mutato radicalmente, da quando ha smesso di chiedere e ha cominciato ad ascoltare.

venerdì 3 settembre 2010

recensioni in pillole 64 - "l'eroe imperfetto"

Wu Ming 4, L'eroe imperfetto, Bompiani 2010 (164 pp., 10 €)

Lawrence d'Arabia, che trasforma una rivolta di capitribù arabi nella lotta di un intero popolo per una Nazione. Il conte Byrhtnoth, nobile anglosassone che, per fedeltà agli ideali eroici, getta al massacro se stesso e i suoi uomini, contro un esercito tre volte più numeroso. Aiace Telamonio, il più forte tra gli Achei, tradito dal Fato, dagli dèi avversi e dalla furbizia di Odisseo.
Tre figure che, secondo l'opinione comune, definiremmo “eroi”.
E se invece una diversa lettura fosse possibile?
È quanto vuol suggerire Wu Ming 4 nei tre saggi che compongono questo volume, e che si propongono come una de-costruzione (e ri-costruzione) della figura tradizionale dell'eroe.
Il primo saggio si apre con il richiamo al legame etimologico tra il sostantivo “poiesis” (poesia) e il verbo “poiein” (fare). Perché, argomenta l'autore, “che ci piaccia o no, i miti persistono, fuori e dentro di noi, perché è solo attraverso le narrazioni che l'umanità racconta se stessa e prende coscienza della propria esperienza storica”.
Ecco dunque che, dietro alla figura di Lawrence d'Arabia, fa capolino la tradizione della quest mistico-erotica dei cavalieri arturiani; dietro il conte Byrhtnoth si staglia la sagoma possente di Beowulf; e dietro Aiace si rivela un archetipo narrativo dell'eroe (maschio) beffato da una sfuggente, misteriosa e potentissima divinità femminile.
Ma non è finita qui: perché, continua Wu Ming 4, “quello che […] ci serve è imparare a mettere in crisi i miti con altri miti, a intervenire nella trama, rompendone l'apparente coerenza”.
E così, all'eroismo individualista e autodistruttivo di Byrhtnoth, che sacrifica le sorti della battaglia alla salvaguardia del proprio onore personale, si contrappongono le figure dei fuggiaschi, dei “codardi” scappati di fronte alla strage, ma sopravvissuti per difendere il proprio popolo nella prossima battaglia; e l'altra faccia dell'eroe orgoglioso e virile (Aiace, Achille) viene trovata nei piccoli hobbit del Signore degli Anelli, all'apparenza buffi e indifesi, ma in realtà capaci di attingere alle forze poderose e primordiali della Terra, della Vita e – last but not least – dell'umorismo (e, da quest'angolazione, il vero eroe del romanzo si rivela essere non Frodo, né Aragorn, ma piuttosto il mite e indomito Samvise Gangee).
Lettura intelligente e stimolante.

giovedì 2 settembre 2010

l'avere ("o haver")



http://www.youtube.com/watch?v=u6LcZfStlfc


Avevo letto questo bellissimo testo anni e anni fa, in una remota antologia scolastica, e poi non l'avevo più ritrovato.
Grazie al blog di Marco Saya per avermelo fatto rileggere (e ascoltare).



Resta, al sommo di tutto, questa capacità di tenerezza
Questa perfetta intimità con il silenzio
Resta questa voce intima che chiede perdono di tutto:
- Pietà! perché essi non hanno colpa d'esser nati...

Resta quest'antico rispetto per la notte, questo parlar fioco
Questa mano che tasta prima di stringere, questo timore
Di ferire toccando, questa forte mano d'uomo
Piena di dolcezza verso tutto ciò che esiste.

Resta quest'immobilità, questa economia di gesti
Quest'inerzia ogni volta maggiore di fronte all'infinito
Questa balbuzie infantile di chi vuol esprimere l'inesprimibile
Questo irriducibile ricusare la poesia non vissuta.

Resta questa comunione con i suoni, questo sentimento
Di materia in riposo, questa angustia della simultaneità
Del tempo, questa lenta decomposizione poetica
In cerca d'una sola vita, una sola morte, un solo Vinícius.

Resta questo cuore che brucia come un cero
In una cattedrale in rovina, questa tristezza
Davanti al quotidiano; o quest'improvvisa allegria
Di sentir passi nell'alba che si perdono senza memoria...

Resta questa voglia di piangere davanti alla bellezza
Questa collera di fronte all'ingiustizia e all'equivoco,
Questa immensa pena di se stesso, questa immensa
Pena della sua inutile poesia e della sua forza inutile.

Resta questo sentimento dell'infanzia sventrato
Di piccole assurdità, questa sciocca capacità
Di rider per niente, questo ridicolo desiderio d'esser utile
E questo coraggio di compromettersi senza necessità.

Resta questa distrazione, questa disponibilità, questa vaghezza
Di chi sa che tutto è già stato come sarà nel tornar ad essere
E allo stesso tempo questa volontà di servire, questa contemporaneità
Con il domani di quelli che non ebbero ieri né oggi.

Resta questa incoercibile facoltà di sognare
Di trasformare la realtà, dentro questa incapacità
Di non accettarla se non come è, e quest'ampia visione
Degli avvenimenti, e questa impressionante

E non necessaria prescienza, e questa memoria anteriore
Di mondi inesistenti, e questo eroismo
Statico, e questa piccolissima luce indecifrabile
Cui i poeti a volte danno il nome di speranza.

[...]

Resta questo desiderio di sentirsi uguale a tutti
Di riflettersi in sguardi senza curiosità e senza storia
Resta questa povertà intrinseca, questo orgoglio, questa vanità
Di non voler essere principe se non del proprio regno.

[...]

Resta questo dialogo quotidiano con la morte, questa curiosità
Di fronte al momento a venire, quando, di fretta
Ella verrà a socchiudermi la porta come una vecchia amante
Senza sapere che è la mia ultima innamorata.

Vinícius de Moraes

mercoledì 1 settembre 2010

soviet-queer-electro-pop

Certe volte non so proprio resistere al fascino arcano del kitsch.



http://www.youtube.com/watch?v=y-pBca0XdaY