sabato 31 dicembre 2011

una favola per l'anno nuovo


Esisteva un tempo in cui non c’era letteratura. Oh, non fu un tempo lungo. Diciamo tra i diecimila e tremilioni di anni. Il tempo per la terra di cambiare il trucco tre volte, andare due volte a teatro, cinque al cinema, e iniziare una analisi. Riesco ad immaginare un tempo senza auto, senza locomotive, senza bandiere, primi ministri, preti, zoo, valige ventiquattrore, televisione e dischi microsolco, ma non riesco ad immaginare un mondo, un tempo, una serie, un rosario di generazioni senza letteratura. Non posso non considerare che quegli uomini, quelle donne, avevano assolutamente tutto per fare della letteratura: avevano parole, cimiteri, esclamazioni, malattie, fame, incertezza del domani, fuoco caldo, fuoco ustionante, innamoramenti e disamori, famiglie e adulteri, aborti e stragi, ma non potevano avere la letteratura. Mancavano di cose vilissime che si possono comprare in una tabaccheria; ma i nostri antenati, i pre-Agatha Christie, non avevano tabaccherie. Non avevano carte, né matite, né penne, e anche se le avessero avute non avevano l’alfabeto, e anche se avessero avuto l’alfabeto non avrebbero avuto editori, rilegatori, tipografi, librerie, biblioteche, recensori, premi, titoli, cataloghi, eccetera. Dal mio punto di vista – un po’ limitato, ma onestamente fazioso – per qualche migliaio di generazioni la vita sulla terra dové essere estremamente noiosa. O forse no, non è questa la parola esatta. Dopo tutto c’era da lavorare per campare, ammazzare bestioni, cuocere bestioni, mangiare bestioni, fare i primi passi verso l’Artusi. C’erano caverne molto mistiche e non del tutto comode, e fuori c’erano furibonde estati, secolari inverni, un mondo percorso da angeli della neve, o da infuocati elfi vestiti di rosso. Ma tutto era così lento. La mancanza di giornali aboliva la storia; secolari migrazioni tra abeti e betulle procedevano come processioni, ma nessuno ne sapeva niente, forse nemmeno coloro che migravano. Eppure ho parlato di noia. In realtà solo la letteratura può renderci possibile vivere nel nostro mondo, e tra noi e la catastrofe c’è una tenue barriera non di capolavori, ma di libri modesti, mal stampati, tradotti per pochi soldi; gli innumerevoli opuscoli ai quali, dal tempo di Ramsete, affidiamo la nostra paura di morire, il nostro desiderio di uccidere, il nostro terrore del domani. Domani. A ben considerare, gli orologi sono un genere letterario. Sono scritti, sono eventuali, sono dei contenitori deserti, segneranno con la stessa tranquillità l’ora della nostra nascita, del primo innamoramento, della guerra, della morte. Gli orologi sfogliano la nostra vita. Se è vero che essi appartengono alla letteratura, è anche vero il contrario, cioè che noi siamo la letteratura degli orologi. Gli orologi, suppongo, non credono alla nostra esistenza. Siamo dei “personaggi”, niente altro. Forse ci discutono, e di notte si scambiano recensioni. Si consigliano letture. Quando qualcuno muore, non di rado gli orologi si fermano; no, non sono cani fedeli che muoiono sulla tomba del padrone; semplicemente hanno chiuso un libro-“noi” e ora passano, con le loro ventiquattrore – la valigetta – a leggere un altro. Sono pazienti, e trovano ugualmente interessanti tutti gli eventi cui danno un numero d’ordine. Sono degli stilisti. Le sveglie sono, a mio avviso, cattivi lettori; quelli che vogliono che accada sempre qualcosa e che, a differenza degli orologi, non sanno leggere i sogni. Le sveglie sono i lettori che ci dimenticano in treno, e che fanno un segno piegando ad orecchio la pagina cui sono arrivati.
Dunque, gli uomini di “allora” non avevano orologi; campavano di albe e tramonti, che sarebbe un nobile campare, avendo letteratura, ma non avendola tengono del monotono, ripetitivo, e consiglia a dare nel misticheggiante. Ogni tanto, si fanno film in cui si vede un giovane muscoloso che saluta l’aurora, magari con un torbido suono di canna legnosa, una conchiglia. Naturalmente è tutto falso, perché il concetto di alba e di tramonto sono squisitamente letterari, e al massimo quei signori potevano compiacersi dell’apparire di una luce che consentiva di sapere di esistere. Tenete presente che, come l’alba e il tramonto, molte, o tutte le cose naturali, sono sommamente innaturali ed esistono solo in quanto sono state adoperate come condimento di generi letterari; ad esempio, sebbene la terra brulicasse di fiori e farfalle, non esistevano né fiori né farfalle. Non avevano una esistenza mentale, non erano adoperati all’interno di un grande amore, nessuno sospirava perché, a ben vedere, non c’è nessun motivo per sospirare a causa di un fiore, o di una farfalla, a meno che non si siano letti quei cattivi libri che ci parlano di fiori e di farfalle, e ci aiutano a vivere. No, non voglio dire che quegli uomini fossero insensibili alla autentica bellezza, la bellezza sofisticata, maliziosa, trista, saputa, tracotante, virtuosa, schifiltosa, arzigogolata, incattivita, raffinata, sàdica, equivoca, notturna, teratologica, epifanica, scostante. Quindicimila anni fa un signore analfabeta, non potendo consultare il Liddel e Scott, incise su di un osso un capro che salta, di fronte; lo si può vedere in una grotta dei Pirenei. Ecco, quello era un bizantino, un precettore di Porfirio Optaziano, o di Nonno Panoplita. Mi domando come lo avranno trattato; male non credo, perché un signore capace di incidere quel capro in dodici centimetri d’osso faceva paura. Io ne ho paura anche oggi. Eppure per quell’uomo esistevano i capri e, se fate attenzione, i capri per noi non esistono più, a meno che non siamo grecisti, o psicanalisti alla Hillman. Noi abbiamo i fiori. Per dire “ditelo con i fiori”, bisogna scrivere “ditelo con i fiori”. Letteratura, pessima letteratura.
Il signore che incise il capro, quell’uomo mirabile e scostante, mi fa pensare quel che segue: che gli uomini di allora sapessero che a loro mancava la letteratura. Naturalmente, non sapevano che si chiamava letteratura, né, se lo avessero saputo, avrebbero mai immaginato in che cosa consisteva; ma essi erano privi di qualcosa, qualcosa di decisivo; e quando cercavano, vanamente, di prendere a calci una rara farfalla, la loro ira era mossa, ignara, dalla brama occulta di trovare una rima; ma le rime non c’erano; e se qualcuno, parlando, produceva una rima, lo guardavano come se avesse prodotto un rumore sconveniente. Ora, supponiamo che, nel loro complesso, quei signori sapessero che nelle loro vite, e per molti secoli e millenni nelle vite dei loro figli qualcosa sarebbe mancato, qualcosa che avrebbe cambiato il mondo, senza neppure toccarlo. No, non era una magia, ma qualcosa di magico lo aveva. Allora, come adesso, la maggioranza di coloro che si occupano di letteratura doveva essere fatta di lettori. Come tutti coloro che, a qualsiasi titolo, hanno a che fare con la letteratura, i lettori, anche ‘quei’ lettori che non avevano niente da leggere, anzi ancor di più, non potevano essere uomini normali. Più esattamente, avevano del demente. Certo si aggiravano per le caverne, per le foreste, con gli occhi allucinati, e con una oscura brama che non sapevano decifrare. Ad esempio, si sdraiavano nei pressi di un fiumiciattolo – non potevano sdraiarsi nei pressi di un ruscello perché il ruscello è già letteratura – e cadevano in smanie, parlavano da soli, sfogliavano fiori, non già per amore del fiore, la cui inesistenza abbiamo già acclarata, ma per amore dello ‘sfogliare’; strappavano i fili d’erba, e li guardavano intensamente, ma potevano solo rendersi conto che quel che facevano era simile a quello che volevano fare, ma non più che simile, e neanche tanto. Qualche volta, durante quei loro lenti pasti di carne compatta e ustionata, un tale mosso da un oscuro impulso, avrà pur detto: “Vorrei proprio sapere chi è l’assassino”.
“L’assassino di chi?” avrà chiesto un guerriero ‘veramente’ analfabeta. Quel tale avrà balbettato qualche scusa, avrà cercato di cambiare discorso, giacché lui stesso non sapeva che cosa mai aveva voluto dire. Non è impossibile che ne siano uscite risse, e quel signore che aveva solo bisogno di un onesto libro giallo, sarà stato preso per matto, e matto era, ma non più degli attuali lettori di libri gialli. E ci sarà stata la fanciulla che aveva sospirato: “Chissà se lui la sposa”, e magari a quel tempo non c’era nemmeno il matrimonio, e certo non c’era il grande amore, che non è pensabile prima dei trovatori. I lettori di quel tempo si appartavano in un angolo, un anfratto, tra due alberi, e si annoiavano; parlavano da soli, a vanvera, piangevano, muovevano le mani come per sfogliare inesistenti libri, facevano nodi con i fili d’erba per non perdere il segno, e lentamente sprofondavano in una mite follia. Innocui, accudivano ai bambini, mentre i cacciatori andavano in giro in cerca di animali robusti e grassi, e ai ‘lettori’ toccavano razioni modeste, scarti, ossa da rosicchiare. Le naturali affinità elettive spingevano lettori e lettrici a confortarsi e far prole, e vaneggiando insieme nelle lunghe notti di perfette tenebre coltivarono nei secoli quella dolce e ritmica demenza che è propria di coloro che amano la letteratura. Mi chiedo se i lettori venissero perseguitati; o se forse non venissero affidati loro compiti di basso culto, o magari di raccogliere erbe odorose per gli arrosti, compito nel quale i lettori senza letteratura provavano un piacere misterioso a tutti, a cominciare da loro stessi. Non è impossibile che qualcuno di quei lettori abbia intuito che la coda del mammut era un’allusione all’indice, ma non poté chiarire a se stesso il concetto, giacché il mammut, precursore delle saghe familiari e dei romanzi fiume, era, ed è rimasto, discretamente scomparendo, un animale illeggibile.

Giorgio Manganelli, da "Discorso dell’ombra e dello stemma"
(Milano, Rizzoli “La Scala”, 1982)

venerdì 30 dicembre 2011

recensioni in pillole 151 - "Due figlie e altri animali feroci"

Leo Ortolani, Due figlie e altri animali feroci. Diario di un'adozione internazionale, Sperling & Kupfer 2011 (192 pp., € 16,50)

Un'adozione internazionale: coppia con problemi di fecondità, stremante iter burocratico, decisione di ricorrere all'adozione internazionale, altro iter burocratico, poi la lieta novella, viaggio in Colombia, paese del Terzo Mondo, ancora burocrazia, due bambine che chissà quante ne hanno viste, un rapporto familiare da costruire partendo da zero.
Ecco, ora starete pensando: libro drammatico, strappalacrime.
Poi vi dico: Leo Ortolani.
Sì, Leo Ortolani, quello di "Rat-Man". Il fumetto che non posso leggere in pubblico, perché farei la figura del cretino, a ridere da solo per mezz'ore intere.
Ecco, Leo Ortolani nel 2010 ha adottato due bimbe colombiane, con tutto il travaglio di cui sopra, e ora ha raccontato la sua esperienza in questo libro. Che non posso leggere in pubblico, perché farei la figura del cretino, a ridere da solo per mezz'ore intere.
Non che il libro banalizzi o metta in burletta un problema serio come l'adozione. Anzi, il ritratto che ne viene fuori mi sembra molto realistico e documentato. Solo che Ortolani lo traduce in un fuoco di fila di trovate comiche, dove tutti i sentimenti possibili (rabbia amore esaltazione frustrazione tenerezza sconforto affetto commozione esasperazione depressione) sono passati al vaglio costante dell'ironia. Ironia ortolaniana: e chi legge "Rat-Man", sa a che cosa mi riferisco. Chi non lo legge, rimedi se non vuole che gli cancelli i commenti dal blog.
Ecco, per me la recensione può anche finire qui.
Anzi no, altre due cose. La prima è che il libro è corredato da alcune spassosissime vignette di Ortolani.
La seconda, che Ortolani è un genio. Io lo dico sempre, prima o poi qualcuno ci crederà.

giovedì 29 dicembre 2011

nuove figurazioni perugine

In alto a sinistra, "Eli che mangia gli spaghetti".
In alto a destra, "Le righine".
In basso, "Il serpente che striscia (ma è un serpente piccolo, eh?)", contributo colorazione by papi.


"L'albero di Natale".


Le opere sono in esposizione permanente presso la galleria d'arte "Il frigorifero", cucina di casa Pasquandrea, Perugia.

mercoledì 28 dicembre 2011

alla faccia del multitasking...


No, dico, tanto per darvi un'idea. Questa è la mia scrivania, con sopra il lavoro organizzato per queste vacanze (vacanze?).

Al centro, ovviamente, c'è il computer.
A destra, la roba da fare per l'università. Le tre pile di fogli in fondo sono il materiale per due convegni (da preparare rispettivamente per maggio e luglio) e un articolo (da approntare per data da destinarsi, ma spero lontana). Le due pile di fogli davanti, un articolo in attesa della revisione finale (entro fine febbraio) e la relativa bibliografia da compulsare. In fondo a destra, sul leggio, un po' di materiale da leggere, così, tanto per aggiornamento.
Ah, poi ci sarebbe un altro convegno a giugno, ma su quello non ho ancora messo mano: chi vivrà vedrà. E mi dovrebbero anche dare le scadenze per un altro articolo da scrivere: scadenze molto molto larghe, speriamo...
A sinistra del computer, la roba per scuola: il registro con i voti da inserire sul sito web della scuola (sì, ora si fa tutto via web); un po' di compiti arretrati; i Promessi Sposi da preparare per gennaio; un libro sulla poesia da leggere; un DVD da visionare.
Davanti al computer, l'agendina del 2011 e quella del 2012, da compilare.
All'estrema sinistra, i libri che sto leggendo così, per piacere personale.

Beh, nessuno mi augura buon lavoro?

martedì 27 dicembre 2011

semantica


Come sono poco
.........................maneggevoli
le metafore definirti un'ulcera
o un silenzio non sarebbe affatto
la stessa cosa porterebbe a smottamenti
minimi ma fatali
..........................se solo potessi

consegnarti intera la sagoma dell'alba
un attimo appena ma non fartene mancare nulla
nulla.

lunedì 26 dicembre 2011

se lo diceva lui...

Analizzando dunque e valutando dentro di me la situazione degli stati esistenti, non riesco a vedere altro – Dio mi perdoni – che una cospirazione dei ricchi, i quali, nel nome e per conto dell’autorità pubblica, non fanno altro che curare i propri interessi privati. [...] I ricchi si avvalgono dei loro subdoli sistemi nel nome dello stato, cioè anche nel nome dei poveri, e così diventano legge.

(Thomas More, Utopia, II)

domenica 25 dicembre 2011

a (wicked) Xmas carol



Ecco, ci (ri)siamo: è Natale.
Dopo la tregua, in casa mia ri-deflagra l'eterno annuale conflitto: una moglie traboccante di entusiasmo natalizio, con tanto di alberi, presepi, addobbi e (orrendo) cd di Bing Crosby, e un marito ferocemente urticato da quel che considera niente più che kitsch, degno nemmeno di odio, ma tutt'al più di altezzoso disprezzo.
Con il tempo, siamo arrivati a un compromesso: io non partecipo agli addobbi natalizi, ma neanche vi interferisco, e soprattutto evito qualunque critica, verbale e non-verbale; in cambio, lei salvaguarda i miei spazi vitali minimi: lo studio e il bagno (sì, fosse per lei mi addobberebbe anche il bagno, compreso lo specchio dove ogni mattina devo necessariamente inquadrarmi per fare la barba).
Ma il culmine della viacrucis è la vigilia di Natale: feste, festeggiamenti e ritualità assortite a me stanno (pardon my French) pesantemente sui coglioni, in modo particolare quelle connesse ai regali. O meglio, i regali li faccio, se e quando voglio; ma i regali a scadenza prefissata, no grazie: il consumismo si alimenta benissimo già da solo. Da anni chiedo, supplico, imploro che non me ne vengano fatti: niente, è inutile, nessuno mi crede né mi accontenta. Da quando ci sono i bambini, sono costretto a reggere il filo della recita, fingere entusiasmo, simulare persino la fede nell'odiosissimo Babbo Natale.
Il giorno dopo, mattina di Natale, la tortura si ripete a casa di mia suocera, dove si riunisce tutta la torma dei parenti, adulti e bambini, a ognuno dei quali (maledetti!) vanno destinati uno o più regali, e ognuno dei quali (doppiamente maledetti!) me ne destinerà, inesorabilmente. Il tutto accompagnato da un coro cacofonico di urletti, risatine in falsetto, ringraziamenti e sbaciucchiamenti. Ai quali, ça va sans dire, io partecipo solo quel minimo indispensabile richiesto dalla convivenza civile. Spesso, quando la mia orsaggine emerge con più prepotenza, nemmeno quello.
Gli anni passati, mia moglie ci provava, si incazzava persino: ormai credo si sia arresa, povera donna. Si limita a scoccarmi qualche occhiata di disapprovazione, poi si reimmerge nella sua montagna di pacchetti da scartare.


http://www.youtube.com/watch?v=E406L1bdWBw

sabato 24 dicembre 2011

the winter of our discontent



Se
.....e quando
avverrà
..............il crollo non farà rumore
nemmeno i più attenti potranno sentirlo

può darsi anzi che tutto sia già
..................................................spianato
e che noi stiamo calpestando macerie calce viva

può darsi sia questa la ragione
non spifferi non l'inverno che sta per calare la mannaia
magari
.............fosse così basterebbero i rimedi
della nonna i rotoli di stoffa accumulati contro le fessure

la realtà è che la buriana non conosce più ostacoli
ciò che ti percuote è proprio il fronte freddo
la primissima onda d'urto

però tutto avverrà in perfetto silenzio
ricordalo
tutto avverrà in silenzio
in silenzio le nostre mani cederanno il passo all'aria
in silenzio copriremo la terra

a piedi nudi verranno ad osservarci
prima di sciogliere il cerchio

venerdì 23 dicembre 2011

segnalazione di pubblica utilità - truffe energetiche


L'altro giorno, mi bussano alla porta.
Dato che aspettavo il corriere per una consegna urgente, vado direttamente ad aprire e mi trovo davanti un ragazzotto, con targhetta al collo e cartellina in mano, che mi chiede di poter fare un controllo sulle mie bollette di luce e gas. Io lo scambio per un addetto dell'Enel, di quelli che a volte passano per leggere i contatori, quindi gli prendo le ultime due fatture e gliele mostro.
Lui guarda un po' di dati e poi mi comunica, raggiante, che io ho “diritto a un'offerta che mi consentirà di usufruire di uno sconto del 20-30% sui consumi, in base alla legge Bersani sulla liberalizzazione del mercato dell'energia".
Ora, considerate che:

1) per principio, non aderisco mai a offerte porta a porta o per telefono, che già più di una volta si sono rivelate bidoni;
2) parlarmi di liberalizzazioni è come sventolare un drappo rosso davanti a un toro;
3) quando qualcuno mi offre risparmi mirabolanti, non so perché, ma mi salta sempre una pulce all'orecchio;
4) tempo fa, avevo già subito un tentativo di truffa da parte di un altro gestore privato, Edison Energia, che aveva tentato di rifilarmi un contratto falso, da me mai firmato (ne ho parlato qui; di Edison, poco dopo, si occupò anche "Striscia la Notizia", sempre per questioni di contratti truffaldini).

Scottato dalle esperienze pregresse, comincio a fare un po' di domande.
Il ragazzotto mi spiega che lui rappresenta una società chiamata GDF Suez che sta incentivando l'uso di energie pulite; che loro distribuiscono direttamente l'energia mentre invece Enel la compra dall'estero e che quindi non dovendo passare tramite intermediari mi offrirebbero prezzi concorrenziali; che comunque non dovevo preoccuparmi perché la gestione di guasti contatori ecc. resterebbe sempre a carico dell'Enel, io avrei solo i vantaggi del prezzo più basso; e che ad ogni modo dopo la prima bolletta sarei stato libero di recedere se l'offerta non mi avesse convinto.

Ora, preciso subito che tutto ciò è falso. In questi giorni ho fatto un po' di ricerche sul web e ho scoperto che GDF Suez non è nemmeno una società italiana (francese, se ho capito bene) e che molta gente che ha fatto il contratto con loro si lamenta di prezzi sballati, fatturazioni errate, call-center inesistenti, irregolarità varie, insomma un vero casino.
Oltretutto, guardando sul loro sito, ho anche letto che la società in precedenza si chiamava Italcogim. Società che sembra avere una bruttissima fama (guardate qui, qui o qui, per avere un'idea).
Poi, il nome Italcogim mi suonava familiare; pensa e ripensa, mi viene in mente che forse che me ne aveva parlato mia sorella. E infatti era proprio così: mia sorella, che è laureata da poco e sta cercando (poretta lei) un lavoro, tempo fa aveva risposto a un'offerta di questa Italcogim che offriva non meglio precisati “lavori di segreteria” qui a Perugia. Si era presentata e si era ritrovata insieme a decine di altri ragazzi in uno stanzone, dove un tizio dall'aria da piazzista aveva fatto un lungo discorso e poi li aveva accoppiati ognuno a un venditore più esperto, e mandati in giro a smerciare questi contratti alla gente. Una giornata di scarpinate per Perugia, la sensazione che questi contratti fossero tutt'altro che puliti, poi la sera l'offerta di lavorare anche lei come venditrice porta a porta, a proporre il passaggio a gestore privato per luce e gas. Dei “lavori di segreteria”, neanche l'ombra. Lei aveva mandato tanti saluti e se n'era andata.
Insomma, i tanto decantati benefici del libero mercato, che – come al solito – equivale a lasciare campo libero ai peggiori pescecani.

Per chi fosse curioso, la mia conversazione con il ragazzotto è andata avanti per una decina di minuti, dopodiché il tipo mi ha messo davanti una “proposta di contratto” e mi ha chiesto di firmarla, lì, su due piedi. Io gli ho risposto che mi sarebbe piaciuto, casomai, leggere il contratto, prima di firmarlo.
“Se vuole, lo leggiamo insieme adesso”, è stata la replica.
“No”, ribatto io, “dicevo se me lo può lasciare e magari ripassa tra un paio di giorni, così mi informo, ci penso e le faccio sapere.”
“No, mi dispiace, noi passiamo solo oggi. Se vuole aderire all'offerta, deve firmare subito.”
“Bene, arrivederci e grazie.”
(SLAM!!)

Ora, a me è andata bene. O almeno spero (non si sa mai, con questa gente). Ma se al posto mio ci fosse stato un anziano, o magari solo uno un po' meno sospettoso di me, l'avrebbero abbindolato ben bene.
Vigilate, e magari spargete anche la voce.


P.S.: sarà un caso se l'anno scorso la truffa è successa a Ferragosto, e quest'anno a Natale? cioè, proprio nei periodi in cui la gente è fuori casa e magari non sta lì a controllare? mah...

P.P.S.: AGGIORNAMENTO.
Ho chiamato l'Enel, ma a loro non risultano pratiche avviate a mio carico.
Ho chiamato GDF Suez, e idem. Devo riconoscere, comunque, che sono stati molto cortesi: hanno ammesso che ci sono società che operano a loro nome ma che mettono in pratica metodi poco puliti; mi hanno consigliato di richiamare dopo le festività natalizie, per verificare eventuali procedure attivate e, se necessario, disconoscerle.
Io, in ogni caso, mi sono tutelato: ho mandato loro una mail, un fax e una ricevuta A/R, spiegando l'accaduto e precisando di non aver firmato né sottoscritto nulla. Speriamo basti...

giovedì 22 dicembre 2011

tre poesie di anna salvini


Parole in fuga

Oggi che mi guardi e vuoi sapere
delle mie parole malandate
come le assemblo, perché le brucio
hai l’universo intero dentro quella voce
e questo è sufficiente
per dare corpo alla tazzina, leggere il fondo
dei tuoi occhi scuri, trovare nel cuscino
l’impronta della sera prima

non crederesti mai che le poesie nascono così
da una ondulazione o una solitudine
le nostre gambe quando scrivono del freddo
nei vestiti che giacciono a terra, senza corpi
abbandonati, quasi un malore
del nostro esistere prima di ricomporsi

tu che cammini sul mio tappeto, apri il frigo
e mi sorridi: non c’è mai niente in questa casa
io che scrivo sul divano del niente
che ci abita ma vorrei scriverlo sui muri
sulla pelle: ogni parola un taglio, ogni taglio un parto
urla, sudore
vuoi davvero che ti parli di tutto questo?

di come si sprofonda nelle faglie, di quanta acqua
imbarco ad ogni tuo passaggio e della lingua
arroventata per la sete (è per te, l’ho mai detto?)
di come le nascondo, io
le parole, come vorrei che ci giocassi
andandomi a cercare, lo faccio anch’io e poi le chiamo
dal buio e dico “tana” anche quando non ci sei.

***
Cieli

1

abbiamo taciuto di fronte a tanta
perfezione, l’equilibrio delle ali
e il becco su qualcosa a noi negato

2

un’unica pulsione sotto il sole
e tutt’intorno
solo un battito richiama
l’azzurro che sta oltre

3

eppure si resta come sospesi
anche con la schiena a terra
fino a bruciare le pupille
senza stancarsi

4

ripetimi il cerchio che fa il falco
amore, ripetilo
tutte le volte che puoi

5

il mare e il cielo, il cielo e il mare
quanto silenzio e nessuna nuvola
da giorni

6

non si direbbe da tutto quel nero
non lo so dire, tu nemmeno
ma noi lo sentiamo, che tace

* * *

Inventario

Le vertebre, le ho contate tutte
i nei, le rughe, ogni malessere
di quella volta che sono stata
cactus e non è stato bello
soffrire al fiorire delle spine

di quando avevo gli occhi pesti
le cicatrici esposte e come un cane
ho leccato tutto.

La mezza sigaretta fumata di nascosto
il mare attraversato a piedi
i possessivi che ci hanno sopraffatto
e del giorno che volevo far morire
la mia fame dentro un’altra bocca.

I luoghi che ho amato, la luce, il silenzio
il buio, le ombre: tutte le parole abolite
per dire quanto l’amore, ancora
mi sa confidare.



(se vuoi leggere altro, vai su Poetarum Silva)

mercoledì 21 dicembre 2011

recensioni in pillole 150: "L'uva puttanella / Contadini del Sud"

Rocco Scotellaro, L'uva puttanella / Contadini del Sud, Laterza 2009 (295 pp., € 10,50)

Strano parlare di Rocco Scotellaro, quasi sessant'anni dopo la sua morte. Il sindaco dei cafoni, il sindaco-ragazzino, il socialista eretico, il poeta della Lucania rurale. Strano, soprattutto, perché la sua figura sembra ormai dimenticata, come morta e sepolta è ormai la cultura contadina che descrisse.
Di lui, se si legge ancora qualcosa, si leggono le poesie, peraltro poco ristampate (c'è un Oscar Mondadori di una decina d'anni fa, e poi più niente) e ancor meno antologizzate.
"L'uva puttanella" è il romanzo autobiografico a cui Scotellaro lavorò negli ultimi anni di vita e che rimase interrotto dalla morte, nel 1953, ad appena trent'anni. Vi sono trasfuse una serie di esperienze amare: l'arresto per un'accusa (falsa) di concussione, i due mesi di carcere, l'abbandono della politica e del paese natio. Opera incompiuta, frammentaria, scritta in uno stile insieme lirico e asciutto, dove il neorealismo di stampo vittoriniano e pavesiano si innerva di una costante tensione stilistica tra lingua e dialetto.
L'uva "puttanella" del titolo è una varietà dagli acini piccoli, irregolari, poco appetibile e spesso rifiutata; gli acini sono i cafoni lucani, piccoli uomini schiacciati e dimenticati dalla Storia.
"Contadini del Sud" è quanto rimane di una vasta opera che avrebbe dovuto raccogliere le voci dei braccianti meridionali di diverse regioni. Quelle compiute sono sei storie: il contadino anarchico in lotta contro lo stato, quello emigrato e poi rientrato al paese, quello che racconta dei suoi tre matrimoni, quello convertito alla religione evangelica e profeta inascoltato del Vangelo; e poi ragazzino che fa il guardiano di bufale, chiuso nella sua realtà arcaica, ai margini della modernità galoppante, e la contadina che ha studiato e che scrive le lettere per le sue compaesane.
Un mondo di cui abbiamo completamente perso le tracce, ma che in fondo era ancora quello dei nostri padri, dei nostri nonni. Ma davvero la memoria degli uomini è così breve?

martedì 20 dicembre 2011

recensioni in pillole 149 - "Cartoline dai morti"

Franco Arminio, Cartoline dai morti, Nottetempo 2010 (137 pp., € 8)

Le ragioni per cui si acquista un libro sono quasi altrettanto misteriose di quelle per cui, al primo sguardo, ci si innamora di una persona.
Voglio dire, potrei fornire decine e decine di motivazioni razionali atte a spiegare perché mi innamorai di E., ma non arriverebbero mai e poi mai ad esaurire l'unico dato assolutamente incontrovertibile: che, in un certo preciso istante, del quale conservo una memoria completa e indelebile, posai gli occhi su di lei e non riuscii più a staccarli per tutta la durata della conferenza (di cui, ovviamente, non capii una parola).
Allo stesso modo, potrei dire che mi ha colpito il titolo di questo libro, o che mi ha attratto l'occhio la copertina giallo-canarino, o che il nome dell'autore l'avevo letto in giro per il web (qui, ad esempio), o che ho sfogliato le pagine e qualche frase qua e là mi è piaciuta, ma resta il fatto che, come mi capita quasi sempre, l'ho visto e pochi decimi di secondo dopo avevo già deciso di comprarlo.
L'idea che sta alla base di "Cartoline dai morti" è originale? No, probabilmente. Ma ditemi voi quale idea lo è.
Il libro consta di centoventotto brevissime prose; le più lunghe sfiorano la dozzina di righe, le più corte arrivano a cinque o sei parole. Tutte, comunque, arrivano dall'altra parte: dai morti. Morti che ripensano alla loro vita o, più spesso, al loro ultimo istante di vita ("Spoon River"? mah, sì e no).
Lo stile di Arminio è secco, fulminante, e allo stesso tempo insopportabilmente fisico e concreto. Quasi tutti questi morti ricordano particolari banali, progetti troncati, persone scialbe, ambienti squallidi. Nessuno sembra rimpiangere la vita, né tantomeno potere (o volere) spingere lo sguardo oltre la soglia della morte.
Se un libro è bello quando (o quanto) fa male, allora questo è un libro molto bello.

lunedì 19 dicembre 2011

autenticità


http://www.youtube.com/watch?v=kUzFbT5JT1M

Essere veri significa accettare l'esperienza, il mutamento, l'ibrido e l'impuro. Il jazz appare autentico a chi l'ascolta perché si percepisce chiaramente che esso si sottomette completamente al primato del corpo, del desiderio, dell'unità.
Se centrale è il processo significa che bisogna abbandonare l'idea di un'opera finita, conclusa, eterna. Gli stessi dischi vanno visti come parti di un progetto più complessivo, pezzi di un percorso che si completa con l'insieme degli atti sonori. Nel jazz idolatrare un singolo disco di un musicista significa applicare una categoria appartenente a un altro sistema di valori.
Se a essere centrale è il divenire, estremizzando il concetto, potremmo dire che il jazz si definisce nella sua incompletezza, nella sua eterna non-finitezza (quanti musicisti di jazz ritornano sempre, instancabilmente sullo stesso brano?).

da Flavio Massarutto, Assoli di china. Tra jazz e fumetto, Stampa Alternativa 2011, pag. 117

domenica 18 dicembre 2011

lampi - 167


Il traguardo supremo: scrivere una poesia che non parli di me stesso.

sabato 17 dicembre 2011

lampi - 166


Sentire dolorosamente la mancanza di un libro lontano.

venerdì 16 dicembre 2011

polvere


"La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa."

(Flannery O'Connor)

giovedì 15 dicembre 2011

recensioni in pillole 146-148 - roba di jazz

Flavio Massarutto, Assoli di china. Tra jazz e fumetto, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri 2011 (198 pp. + illustrazioni, € 20)

Il fumetto è muto, il jazz è suono. Già questo dovrebbe marcare uno iato incolmabile. Invece le affinità ci sono, e tante: ad esempio, l'essere figli del Ventesimo Secolo, o l'ostracismo che spesso li ha colpiti. I contatti tra i due media sono antichi e articolati, ma la materia è varia e quantomai sparsa. Massarutto, che si era già occupato del tema in “Jazz & fumetto” (Vivacomix, Pordenone 2003), ora riprende e amplia il discorso con questo volume, dove analizza una mole di materiale, spesso di difficile o difficilissimo reperimento. Saggiamente, sceglie di organizzarla in forma tematica, analizzando ad esempio le diverse rappresentazioni del jazz e dei jazzisti nei fumetti, i vari modi in cui il fumetto ha cercato di far “suonare” la musica, o le possibili analogie tra i due linguaggi espressivi. 150 pagine di analisi, una serie di utili appendici (bibliografie, indici, note) e infine due fumetti, disegnati da Massimiliano Gosparini e da Davide Toffolo su testi dello stesso Massarutto.



Franco Bergoglio, Magazzino jazz. Articoli musicali d'occasione, Mobydick – I libri dello Zelig 2011 (92 pp., € 10,00)

“Raccogliendo questi articoli mi è parso di radunare merci per uno scaffale improbabile”: così, con (auto)ironico understatement, Franco Bergoglio introduce questa raccolta dei propri “articoli d'occasione”, o “fondi di magazzino” che dir si voglia. Dieci brevi pezzi, non più lunghi di una decina di pagine ciascuno, che spaziano liberamente fra un paio di interviste (a un collezionista di dischi e a un critico), un saggio su “My Favorite Things”, una biografia di Valery Ponomarev, una serie di riflessioni sulla mania delle liste discografiche (le “Top Ten” o le “Top Five” di questo o quell'artista), sul collezionismo di dischi, sui rapporti tra boxe e jazz, o tra il jazz e l'action painting di Jackson Pollock, fino a un esperimento di “prosa jazz” (un monologo interiore di Charlie Parker). Bergoglio sa offrire sempre uno sguardo un po' laterale, mai scontato.


Nicola Gaeta, Una preghiera tra due bicchieri di gin. Il jazz italiano si racconta, Caratterimobili, 2011 (415 pp., € 20,00)

L'intervista: apparentemente il più semplice, in realtà il più infido tra i generi della critica musicale. Perché richiede all'intervistatore tatto, sensibilità, psicologia, e soprattutto l'orecchio indispensabile per riportare sulla pagina scritta la voce dei musicisti interpellati. Nicola Gaeta raccoglie in questo libro trentuno interviste ad altrettanti jazzisti italiani, a cui si aggiungono altre tre a produttori discografici (i Bonandrini, padre e figlio, Sergio Veschi e Marco Valente). Si va dai padri storici del jazz italiano come Franco Cerri, Giorgio Gaslini, Enrico Rava, Franco D'Andrea, Giovanni Tommaso, alla “generazione di mezzo” di Pieranunzi, Gatto, Di Battista, Rea, Di Castri, fino alle giovani leve come Petrella, Bearzatti, Falzone, Giuliani, Partipilo, Signorile. Interviste a volte brevissime, a volte torrenziali, ma ognuna riesce a illuminare un piccolo dettaglio inedito dell'artista.

mercoledì 14 dicembre 2011

non è giusto


Sono andato ai ricovero dei vecchi a trovare un vecchio muratore.
Erano tanti anni che non ci vedevamo.
- Hai viaggiato? - mi domanda.
- Eh, sono stato a Parigi.
- Parigi, eh? Ci sono stato anche io, tanti anni fa. Costruivamo un bel palazzo proprio in riva alla Senna. Chissà chi ci abita. E poi dove sei stato?
- Sono stato in America.
- L´America, eh? Ci sono stato anch´io, tanti anni fa, chissà quanti. Sono stato a Nuova York, a Buenos Aires, a San Paolo, a Montevideo. Sempre a fare case e palazzi e a piantare bandiere sui tetti. E in Australia ci sei stato?
- No, ancora no.
- Eh, io ci sono stato sì. Ero giovane allora e non muravo ancora, portavo il secchio della calcina e passavo la sabbia al setaccio. Costruivamo una villa per un signore di là. Un bravo signore. Ricordo che una volta mi domandò come si cucinavano gli spaghetti; e scriveva tutto quello che dicevo. E a Berlino ci sei stato?
- Non ancora.
- Eh, io ci sono stato prima che tu nascessi. Bei palazzi, che facevamo, belle case robuste. Chissà se sono ancora in piedi E ad Algeri ci sei stato? O sei stato al Cairo, in Egitto?
- Ci voglio andare proprio quest´estate.
- Eh, vedrai belle case dappertutto. Non per dire, i miei muri sono sempre cresciuti ben dritti; e dai miei tetti non è mai entrata una goccia d´acqua.
- Ne avete costruite di case...
- Eh qualcuna, non per dire, qua e là per il mondo.
- E voi?
- Eh, a far le case per gli altri sono rimasto senza casa io. Sto al ricovero, vedi? Così va il mondo.
- Sì, così va il mondo, ma non è giusto.

(Gianni Rodari, "Favole al telefono" Einaudi 1978)

martedì 13 dicembre 2011

recensioni in pillole 145 - "Bestia di gioia"

Mariangela Gualtieri, Bestia di gioia, Einaudi 2010 (138 pp., € 12)

Lo ammetto: ho un problema con la poesia.
Il problema è che vorrei leggerne tanta, molta di più di quanta poi ne legga, ma non ci riesco.
I motivi sono parecchi. Il primo è che, mentre un romanzo o un saggio riesco a leggerli più o meno in qualunque momento e circostanza, con la poesia non funziona allo stesso modo: un libro di poesia deve trovarmi nella disposizione d'animo giusta, che nel mio caso si verifica raramente.
Poi, di poesia riesco ad assorbirne poca per volta. Posso far fuori senza problemi quaranta o cinquanta pagine di un romanzo in un colpo solo, ma con le poesie (se sono davvero poesie, se hanno un qualche valore), dopo due o tre devo fermarmi, assorbirle, lasciarle sedimentare. Se poi le poesie mi piacciono, se mi prendono sul serio, è ancora peggio: perché in quel caso hanno un effetto talmente profondo, urticante, che la dose si riduce ulteriormente.
Questo è il motivo per cui, di solito, spolpo saggi e romanzi nel giro di settimane, a volte persino di giorni, mentre posso impiegare mesi a finire un libro di poesia di poche decine di pagine.
È esattamente quel che mi è successo con questa raccolta di Mariangela Gualtieri. L'autrice la conoscevo per aver letto qualche poesia qua e là, ma mai un libro intero.
“Bestia di gioia” è un'opera fortemente unitaria, con una coesione interna data da ritorni di temi, parole, ritmi. Il fil rouge è l'immersione panica, fisica nel mondo. Non la negazione del dolore e della solitudine, quanto piuttosto il loro superamento, l'umile calata nella vita delle cose, degli animali, delle piante.
Ma, soprattutto, quel che spicca nel libro è una voce di grande originalità: talmente originale che ci ho messo parecchio ad abituarmi. Lo stile della Gualtieri trae la propria forza dallo scarto continuo fra registri, l'aulico e il parlato, il sublime e il quotidiano, fino al prosaico più spinto. Una poesia che suggerisce, anzi esige l'oralità, la recitazione, il suono concreto.


Noi tutti non siamo solo
terrestri. Lo si vede da come
fa il nido la ghiandaia
da come il ragno tesse il suo teorema
da come tu sei triste
e non sai perché. Noi
nati, noi forse ritornati,
portiamo una mancanza
e ogni voce ha dentro una voce
sepolta, un lamentoso calco di suono
che un po' si duole anche quando
canta. Te lo dico io
che ascolto
il tonfo della pigna e della ghianda
la lezione del vento
e il lamento della tua pena
col suo respiro ammucchiato sul cuscino
un canto incatenato che non esce.

Ascoltare anche ciò che manca.
L'intesa fra tutto ciò che tace.

lunedì 12 dicembre 2011

la compagna


Non ti ho cercata, non ti ho chiesta: sei venuta
e da quando sono nato mille cose ci son state
che ai miei occhi si son date con uguale
semplicità: il Sole, la mattina d'oggi,
questo fiore così gracile che non lo voglio,
il miracolo delle fonti nella calura...
Sei venuta (anche oggi il sole è venuto, e il fiore,
la mattina d'oggi, e le acque...). Allegria
ma allegria tacita, serena
intesa pura, incontro
naturale, naturale come l'arrivo
del Sole, del fiore, delle acque, del mattino,
di te che non avevo cercato né richiesto.
E l'Amore? E l'Amore? E l'Amore?
....................................................- : Sei venuta.

Sebastiao da Gama
da "Campo aperto" (1950), trad. di L. Stegagno Picchio

domenica 11 dicembre 2011

lampi - 165


Certa gente andrebbe collegata a una presa di coscienza.

sabato 10 dicembre 2011

l'amore naturale


Donna che gira nuda per la casa

Donna che gira nuda per la casa
tutto mi ammanta di una grande pace.
Non è nudità datata, provocante.
E' un girar di nudità vestita,
innocenza di sorella e bicchier d'acqua.

Il corpo neppure lo si nota
al ritmo che lo porta.
Passano curve in stato di purezza
dando alla vita un nome: castità.

Peli che affascinavano non turbano.
Seni, natiche (tacito armistizio)
riposano alla guerra. E anch'io riposo.

* * *

La terra è letto

La terra è letto per l'amore urgente,
l'amore che non aspetta di andare a letto.
Sopra un tappeto o sopra il duro suolo,
tessiamo corpo a corpo l'umida trama.

E per riposarci dall'amore, andiamo a letto.


Carlos Drummond de Andrade
da "L'amore naturale" (1992), trad. di F. Toriello

venerdì 9 dicembre 2011

lampi - 164


You are what you utter.

giovedì 8 dicembre 2011

le dieu des détails


Vorrei poter pensare di avere assolto a tutti i doveri
oggi
in primis quello del respiro
poi quelli generici verso il mondo intero
potrei di conseguenza reclamare il diritto

a uno di quei silenzi

uno di quelli che un tempo avresti veduto zampillare
dal dito affusolato di un angelo
annunciante
o raggrumarsi nella sostanza catramosa di un chiaroscuro
un silenzio da brocca da liuto da cucurbitacea
una quiete fiamminga in cui l'unico raggio di luce illumini
con noncurante precisione
l'unico dettaglio rivelatore
l'intervallo mielato fra le tue labbra semiaperte
la forma della mia guancia
in attesa

sul versante in ombra del tuo seno.

mercoledì 7 dicembre 2011

samantha

Mai avuto una particolare passione per Guccini. Il personaggio mi sta anche simpatico, ma tra i cantautori "classici" è uno di quelli che conosco di meno, e non mi è mai venuta voglia di approfondire. Però, chissà perché, mi è tornata in mente questa, che - per quanto triste - è una di quelle sue che mi piacciono.


http://youtu.be/yeDguzNs0sA


Samantha
(da "Parnassius Guccinii", 1993)

Samantha scende le scale
di un policentro attrezzato comunale:
trent'anni e poi l'appartamento sarà suo,
o meglio, dei suoi genitori
che ogni mese devono strappare il mutuo
da uno stipendio da fame,
ma Milano è tanto grande da impazzire
e il sole incerto becca di sguincio
in questa domenica d'aprile
ogni pietra, ogni portone
e ogni altro ammennicolo urbanistico.

Ma Samantha saltella,
non sa d'avere lunghe gambe da cervo
e il seno, come si dice, in fiore, teso
sopra un corpo ancora acerbo.
E Samantha, Samantha ancora
non sa d'avere un destino da modella,
corre allegra lungo i graffiti osceni delle scale,
quasi donna, quasi bella.

E fuori Milano muore di malinconia,
di sole che tramonta là in periferia,
di auto del ritorno, famiglie, freni e gas di scarico.
Lontano, il centro è quasi un altro mondo,
San Siro un urlo che non cogli a fondo,
ti taglia un senso vago di infinito panico.
Spunta un gasometro dietro a muri neri,
oziosi vagolano i tuoi pensieri,
in aria il cielo è un qualche cosa viola carico.

Andrea è giù nel cortile,
jeans regolari e faccia da vinile,
giacca a vento come Dio comanda
e legata al polso la bandana.
Un piede contro al muro e lì la aspetta
perché vuol parlarle, niente, forse d'amore,
ma non sa che dire,
con le parole quasi lombarde che non sanno uscire
e si accende rabbioso una Marlboro di alibi.
E si guardano di sbieco,
appena un cenno istintivo di saluto,
ma a Samantha batte il cuore da morire
mentre Andrea rimane muto.

E lei ritornerà con le MS per suo padre
steso davanti a qualche canale
e lui mediterà al bar, dietro una birra,
che la vita può far male.
E Milano sembra che sia lì a abbracciarsi
quei due che non sapranno più parlarsi,
solo sfiorarsi in un momento vago e via.

Samantha presto cambierà quartiere
per un destino che non sa vedere
e Andrea diventerà padrone di una pizzeria.
Ed io, burattinaio di parole,
perché mi perdo dietro a un primo sole?
Perché mi prende questa assurda nostalgia?

martedì 6 dicembre 2011

lampi - 163


L'ortografia come forma di profilassi del pensiero.

lunedì 5 dicembre 2011

vecchi versi (per mia moglie)



(dedicato a Daniela, nel giorno del nostro tredicesimo anniversario)



Di notte continui a baciarmi anche dormendo
se solo ti sfioro la guancia
e questo tuo aderire all’inevitabile
con l’allegria di chi abita
il tuorlo del tempo – senza mai
stancarti del Natale o dei pavimenti puliti –
come se tutto quel che accade davvero ti riguardasse

questa vita trasparente

è ciò che cerco e rifiuto da una vita.

domenica 4 dicembre 2011

lampi - 162


Se dobbiamo credere a un capitalismo buono, tanto vale credere a Winnie the Pooh, che almeno è più carino.

sabato 3 dicembre 2011

...oops!


Avevo uno scopo nella vita, ma quando l'ho raggiunto, si è voltato e non era lui.
(Leo Ortolani)

venerdì 2 dicembre 2011

ecco, l'ho sempre detto io...

Ogni sforzo dell’io di essere o di non essere è un moto di allontanamento da ciò che è. Indipendentemente dal suo nome, dai suoi attributi, idiosincrasie e proprietà, che cos’è l’io? C’è sempre l’io, il se stesso quando le sue qualità siano state tolte? È questa paura a essere niente che spinge l’io all’attività; ma essa è nulla, non è che un vuoto.
Se siamo capaci di guardare bene in faccia quel vuoto, di essere con quella dolorosa solitudine e malinconia, allora la paura scompare del tutto.

Jiddu Krishnamurti

giovedì 1 dicembre 2011

inutilità


Il brano è notissimo, ma ogni volta che lo rileggo riesce a farmi sorridere. La traduzione è mia.


Prefazione a "Il ritratto di Dorian Gray"

L'artista è colui che crea cose belle. Rivelare l'arte e celare l'artista è lo scopo dell'arte. Il critico è colui che sa tradurre in altra maniera o in un nuovo materiale la sua impressione delle cose belle. La più alta, così come la più bassa forma di critica è una variante dell'autobiografia.
Coloro che trovano significati brutti nelle cose belle sono corrotti senza essere affascinanti. Questo è un difetto. Coloro che trovano bei significati nelle cose belle sono i colti. Per costoro c'è speranza. Sono gli eletti per i quali le cose belle significano solo bellezza.
Non esiste qualcosa come un libro morale o immorale. I libri sono scritti bene o male. Questo è tutto.
La repulsione del diciannovesimo secolo nei confronti del realismo è la rabbia di Calibano che vede la propria faccia allo specchio. La repulsione del diciannovesimo secolo nei confronti del romanticismo è la rabbia di Calibano che non vede la propria faccia allo specchio.
La vita morale dell'uomo forma parte del materiale con cui l'artista opera, ma la moralità dell'arte consiste nell'uso perfetto di un mezzo imperfetto. Nessun artista desidera dimostrare qualcosa. Persino le cose vere possono essere dimostrate. Nessun artista ha simpatie etiche. Una simpatia etica in un artista è un imperdonabile manierismo stilistico. Nessun artista è mai morboso. L'artista può esprimere qualunque cosa. Il pensiero e il linguaggio sono per l'artista strumenti dell'arte. Il vizio e la virtù sono per l'artista materiali per l'arte.
Dal punto di vista formale, il prototipo di tutte le arti è l'arte del musicista. Dal punto di vista del sentimento, il prototipo è l'abilità dell'attore.
Tutta l'arte è allo stesso tempo superficie e simbolo. Coloro che vanno al di sotto della superficie lo fanno a proprio rischio. Coloro che leggono i simboli lo fanno a proprio rischio. E' lo spettatore, e non la vita, che l'arte davvero rispecchia.
La varietà di opinioni circa un'opera d'arte dimostra che l'opera è nuova, complessa e vitale. Quando i critici sono in disaccordo, l'artista è in accordo con sé stesso.
Possiamo perdonare un uomo che fa una cosa utile, fintanto che non la ammira. L'unica scusante per fare una cosa inutile è che la si ammiri intensamente.
Tutta l'arte è più o meno inutile.

Oscar Wilde