Uno dei segni del mutamento in corso in Calvino è il progressivo allontanamento dalla figura di Pavese, che era stato uno dei numi tutelari della sua prima produzione saggistica, insieme a Vittorini, Hemingway e agli amati classici dell'Ottocento (Stendhal, Stevenson, Cechov, Tolstoj).
Il Calvino giovane vedeva in Pavese l'archetipo del duro, del lavoratore, dello scrittore proteso a una sua inflessibile missione morale, e non vedeva - o si rifiutava di vedere - la parte oscura della sua personalità.
Ora la figura di Pavese comincia a sfocarsi, ad allontanarsi nel passato, fino a diventare tout court il simbolo di un'epoca ormai conclusa.
I capitoli precedenti: introduzione / la fine dell'impegno (1974-1985) / la belle époque inaspettata.
* * *
Nel 1956, rispondendo a un’inchiesta del “Caffè”, Calvino indicava in Pavese “il più importante, complesso, denso scrittore italiano del nostro tempo. Qualsiasi problema ci si ponga, non si può non rifarsi a lui”. Ancora nel 1959, rievocandone la figura, sottolineava il suo valore di modello e letterario e umano, leggendone anche gli aspetti negativi (le tendenze autodistruttive, il suicidio) come “rigoroso e tragico approfondimento” del suo esempio morale.
I primi segni dell’appannamento della figura di Pavese si avvertono in concomitanza con l’inizio degli anni ‘60, ossia di quel “cambio d’epoca” che, come abbiamo visto, portò Calvino a una radicale revisione dei propri punti di riferimento letterari e ideologici. Nel 1960 escono un’intervista di Carlo Bo, in cui Calvino parla a lungo anche di Pavese, e il saggio Pavese: essere e fare, commemorazione dello scrittore a dieci anni dalla morte.
L’intervista di Bo si apre proprio con una domanda relativa a ciò che resta dell’opera pavesiana e ciò che di essa sembra invece superato: Calvino risponde che
esiste già un’ “epoca di Pavese”, con un suo volto ben preciso, ed è quel ventennio ‘30-‘50 che solo ora ci appare con una fisionomia unitaria [...]. Questo già basta ad allontanare Pavese nel passato, ma anche ad affermarne il valore in una dimensione di cui prima non tenevamo abbastanza conto: di autore di un affresco del suo tempo come non ne esistono altri. [...] Quante cose proprio per essere lontane e oggi quasi incomprensibili, non ci si rivelano piene d’un’affascinante forza poetica! [...] Ma tutto è così chiaro, doloroso e lontano, come chiaro, doloroso e lontano è Leopardi.
Non si può non misurare la distanza con le affermazioni di soli quattro anni prima: lo scrittore a cui “non ci si può non rifare” è diventato uno scrittore già leggibile in chiave storica e quindi relegato in un ambito cronologico ormai conchiuso. Anche il suo esempio, letterario e umano, si rivela improponibile, di fronte a una realtà profondamente mutata:
La via di Pavese non ha avuto seguito nella letteratura italiana. [...] Pavese è tornato a essere “la voce più isolata della poesia italiana” come si leggeva sulla fascetta d’una vecchia edizione di Lavorare stanca” [...].
A Pavese mi lega la comunanza d’un gusto di stile poetico e morale, [...] ma nell’opera, in dieci anni, mi sono allontanato da quel clima.
E, in maniera anche più esplicita, nella Sfida al labirinto:
Se in fondo Pavese si può valutare completamente soltanto ora, il suo aver vissuto questi temi [quelli della realtà industriale, del contrasto città-campagna etc.] come precorritore isolato fa sì che sentiamo quanto siano stati lunghi e decisivi i dodici anni che ci separano dalla sua morte e già tanti suoi aspetti [...] ci appaiono ormai con l’inconfondibile colore dell’epoca; e già il fatto di poterlo ora riconoscere e definire ci prova che siamo entrati in un’epoca diversa.
Anche Essere e fare, nonostante lo sforzo di ribadire il valore letterario e umano di Pavese, finisce per confinarlo in una dimensione storica ormai definita e quindi per allontanarlo dalla realtà contemporanea:
Pavese appartiene a una stagione della cultura mondiale tesa a integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia. Una stagione di cui la morte dello scrittore piemontese pare segnare un limite cronologico. Difatti, dobbiamo dire che in questi dieci anni, se la fortuna di Pavese ha continuato ad allargarsi, le possibilità d’influsso della sua lezione sulla letteratura contemporanea paiono essersi rapidamente ristrette.
“Integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia” è esattamente lo scopo del Calvino dei primi anni. Riconoscere tale progetto come facente parte di una stagione ormai cronologicamente lontana ha il senso di un’acquisizione di coscienza: i tempi sono cambiati e la fiducia, rivelatasi semplicistica, nella possibilità di un’azione diretta degli intellettuali sulla politica cederà sempre più il passo a un’inquieta esplorazione di territori letterari e culturali, a quell’attitudine di perplessità sistematica che d’ora in poi segnerà l’opera di Calvino.
[...]
L’ultimo intervento di un certo impegno sull’opera pavesiana è la cura dell’edizione dell’intero corpus poetico, che uscirà presso Einaudi nel ‘62.
[...]
Al 1965 risale uno scritto su La luna e i falò (Pavese e i sacrifici umani, “Revue des études italiennes”, avril-juin 1966; ora in Saggi, Meridiani Mondadori, 1995, pp. 1230-33). Le riserve sull’ultima opera pavesiana, accennate nel saggio del ‘60, vengono qui esplicitate: il romanzo gli sembra fin troppo “fitto di segni emblematici, di motivi autobiografici, di enunciazioni sentenziose”, privo di quell’allusività e reticenza che erano il fascino della prosa di Pavese. Ma la maggior novità sta nel concentrare l’analisi sul nucleo mitico, antropologico attorno a cui l’opera ruota (non che tale aspetto fosse assente nei saggi precedenti, ma qui esso diventa il nodo centrale della lettura critica): il contrasto e insieme la compresenza della “storia rivoluzionaria” (la guerra, la Resistenza) e dell’ “antistoria mitico-rituale” (i “falò” del titolo). Qui sta forse il nocciolo segreto e irrisolto del romanzo:
Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, [...] come quando tutto è già inteso [...]. Non c’era nulla di inteso, invece, il punto di sutura tra il suo “comunismo” e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo [...].
L’uomo che è tornato al paese dopo la guerra registra immagini, segue un filo invisibile d’analogie. I segni della storia [...] e i segni del rito [...] hanno perso significato nella labile memoria dei contemporanei.
Siamo ormai lontanissimi dal Pavese tutto “attaccamento appassionato alla vita” di vent’anni prima, come anche dal Pavese in bilico tra ermetismo ed engagement di Natura e storia nel romanzo; si inizia invece a intravvedere il Calvino che di lì a poco comincerà a interessarsi della “critica archetipica” di Frye e dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss.
L’anno seguente, i risvolti di copertina all’edizione delle Lettere sanciranno definitivamente la distanza storica del Pavese uomo e scrittore:
Alla svolta di quel 1950 che ci appare già una data d’altro secolo, s’intravede come uno scorcio di quella che sarà un’epoca più tarda, l’Italia insoddisfatta e nevrotica degli anni ‘60. [...] Il breve 1950 di Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo “facile” che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara. Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va.
I primi segni dell’appannamento della figura di Pavese si avvertono in concomitanza con l’inizio degli anni ‘60, ossia di quel “cambio d’epoca” che, come abbiamo visto, portò Calvino a una radicale revisione dei propri punti di riferimento letterari e ideologici. Nel 1960 escono un’intervista di Carlo Bo, in cui Calvino parla a lungo anche di Pavese, e il saggio Pavese: essere e fare, commemorazione dello scrittore a dieci anni dalla morte.
L’intervista di Bo si apre proprio con una domanda relativa a ciò che resta dell’opera pavesiana e ciò che di essa sembra invece superato: Calvino risponde che
esiste già un’ “epoca di Pavese”, con un suo volto ben preciso, ed è quel ventennio ‘30-‘50 che solo ora ci appare con una fisionomia unitaria [...]. Questo già basta ad allontanare Pavese nel passato, ma anche ad affermarne il valore in una dimensione di cui prima non tenevamo abbastanza conto: di autore di un affresco del suo tempo come non ne esistono altri. [...] Quante cose proprio per essere lontane e oggi quasi incomprensibili, non ci si rivelano piene d’un’affascinante forza poetica! [...] Ma tutto è così chiaro, doloroso e lontano, come chiaro, doloroso e lontano è Leopardi.
Non si può non misurare la distanza con le affermazioni di soli quattro anni prima: lo scrittore a cui “non ci si può non rifare” è diventato uno scrittore già leggibile in chiave storica e quindi relegato in un ambito cronologico ormai conchiuso. Anche il suo esempio, letterario e umano, si rivela improponibile, di fronte a una realtà profondamente mutata:
La via di Pavese non ha avuto seguito nella letteratura italiana. [...] Pavese è tornato a essere “la voce più isolata della poesia italiana” come si leggeva sulla fascetta d’una vecchia edizione di Lavorare stanca” [...].
A Pavese mi lega la comunanza d’un gusto di stile poetico e morale, [...] ma nell’opera, in dieci anni, mi sono allontanato da quel clima.
E, in maniera anche più esplicita, nella Sfida al labirinto:
Se in fondo Pavese si può valutare completamente soltanto ora, il suo aver vissuto questi temi [quelli della realtà industriale, del contrasto città-campagna etc.] come precorritore isolato fa sì che sentiamo quanto siano stati lunghi e decisivi i dodici anni che ci separano dalla sua morte e già tanti suoi aspetti [...] ci appaiono ormai con l’inconfondibile colore dell’epoca; e già il fatto di poterlo ora riconoscere e definire ci prova che siamo entrati in un’epoca diversa.
Anche Essere e fare, nonostante lo sforzo di ribadire il valore letterario e umano di Pavese, finisce per confinarlo in una dimensione storica ormai definita e quindi per allontanarlo dalla realtà contemporanea:
Pavese appartiene a una stagione della cultura mondiale tesa a integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia. Una stagione di cui la morte dello scrittore piemontese pare segnare un limite cronologico. Difatti, dobbiamo dire che in questi dieci anni, se la fortuna di Pavese ha continuato ad allargarsi, le possibilità d’influsso della sua lezione sulla letteratura contemporanea paiono essersi rapidamente ristrette.
“Integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia” è esattamente lo scopo del Calvino dei primi anni. Riconoscere tale progetto come facente parte di una stagione ormai cronologicamente lontana ha il senso di un’acquisizione di coscienza: i tempi sono cambiati e la fiducia, rivelatasi semplicistica, nella possibilità di un’azione diretta degli intellettuali sulla politica cederà sempre più il passo a un’inquieta esplorazione di territori letterari e culturali, a quell’attitudine di perplessità sistematica che d’ora in poi segnerà l’opera di Calvino.
[...]
L’ultimo intervento di un certo impegno sull’opera pavesiana è la cura dell’edizione dell’intero corpus poetico, che uscirà presso Einaudi nel ‘62.
[...]
Al 1965 risale uno scritto su La luna e i falò (Pavese e i sacrifici umani, “Revue des études italiennes”, avril-juin 1966; ora in Saggi, Meridiani Mondadori, 1995, pp. 1230-33). Le riserve sull’ultima opera pavesiana, accennate nel saggio del ‘60, vengono qui esplicitate: il romanzo gli sembra fin troppo “fitto di segni emblematici, di motivi autobiografici, di enunciazioni sentenziose”, privo di quell’allusività e reticenza che erano il fascino della prosa di Pavese. Ma la maggior novità sta nel concentrare l’analisi sul nucleo mitico, antropologico attorno a cui l’opera ruota (non che tale aspetto fosse assente nei saggi precedenti, ma qui esso diventa il nodo centrale della lettura critica): il contrasto e insieme la compresenza della “storia rivoluzionaria” (la guerra, la Resistenza) e dell’ “antistoria mitico-rituale” (i “falò” del titolo). Qui sta forse il nocciolo segreto e irrisolto del romanzo:
Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, [...] come quando tutto è già inteso [...]. Non c’era nulla di inteso, invece, il punto di sutura tra il suo “comunismo” e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo [...].
L’uomo che è tornato al paese dopo la guerra registra immagini, segue un filo invisibile d’analogie. I segni della storia [...] e i segni del rito [...] hanno perso significato nella labile memoria dei contemporanei.
Siamo ormai lontanissimi dal Pavese tutto “attaccamento appassionato alla vita” di vent’anni prima, come anche dal Pavese in bilico tra ermetismo ed engagement di Natura e storia nel romanzo; si inizia invece a intravvedere il Calvino che di lì a poco comincerà a interessarsi della “critica archetipica” di Frye e dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss.
L’anno seguente, i risvolti di copertina all’edizione delle Lettere sanciranno definitivamente la distanza storica del Pavese uomo e scrittore:
Alla svolta di quel 1950 che ci appare già una data d’altro secolo, s’intravede come uno scorcio di quella che sarà un’epoca più tarda, l’Italia insoddisfatta e nevrotica degli anni ‘60. [...] Il breve 1950 di Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo “facile” che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara. Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va.
3 commenti:
premesso che ritengo che le ultime riflessioni di calvino siano molto vere (e con tutto amo profondamente pavese, anche se per quel che ne penso io il suo capolavoro non è la luna e i falò ma la casa in collina) mi chiedo che sarebbe successo se pavese non si fosse ucciso, mi chiedo se questo allontamaneto di calvino avrebbe portato a una rottura, magari anche definitiva o a uno scontro ideologico, una presa di posizione di quelle che oggi fanno quasi sorridere ma che una volta erano quasi la vita di un intellettuale, un pò come successe dopo il '68 a pasolini e a fortini... ma del resto è solo una ipotesi, se non nel '50 pavese si sarebbe ucciso comunque, prima o poi...
Come hai detto tu stesso, la critica non si fa con i se, ma io penso che "se" Pavese avesse vissuto gli anni '60, il boom economico, ecc., sarebbe diventato ancor più chiaro che le etichette di scrittore "realista" o "neorealista" che spesso gli vengono appiccicate addosso sono del tutto false e superficiali. La campagna, la città, i luoghi dell'infanzia, quel mondo contadino duro, brutale, eppure vissuto con virile nostalgia, sono luoghi del tutto mitici, ed è proprio il mito che interessava a Pavese. Che, non a caso, dichiarava che il suo scrittore preferito era Omero (strana scelta, per un "realista").
Non so quali sarebbero stati i suoi rapporti con Calvino, anche perché il Calvino critico tende spesso a costruirsi, degli autori che critica, un'immagine funzionale al suo discorso. Sia il Pavese degli scritti giovanili, sia quello di questi anni, sono in realtà degli autoritratti in maschera di Calvino stesso, che li usa per discutere non tanto le posizioni di Pavese, quanto le proprie.
Io devo dire che amo moltissimo "La bella estate", un romanzo minore, ma è stata la prima cosa sua che ho letto e alla quale sono rimasto molto affezionato. E anche a certe poesie di "Lavorare stanca", che pure oggi rileggerei con occhio un po' più critico.
Secondo me, invece, il suo libro più denso e profondo è "Dialoghi con Leucò". Lì c'è veramente *tutto* Pavese.
Premesso che un commento in questo contesto rischia di ridursi a una contesa o a un tifo schierato dalla parte di Pavese o di Calvino.. mi sforzo di non rendere manifesta la mia parzialità a vantaggio di Pavese, ma temo che, oggettivamente, questo presunto distacco da Pavese sia quantomeno un pò ingrato e comunque non confermato nei fatti (leggendo Calvino sembra sempre inevitabilmente di leggere qualcosa di Pavese)
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