martedì 27 marzo 2018

il bimbo è nato

Oh, dico.
David Riondino ci ha messo la voce.
Michele Marzulli ha composto le musiche apposta.
Antonio Lillo ci ha messo sudore, sangue e soldi.
Io l'ho scritto, e ci ho anche disegnato la copertina.

Adesso, voi come minimo potreste comprarvelo, no?
Dico io.

* * *

"Topografia della solitudine. Diario newyorkese" (audiolibro)
di Sergio Pasquandrea

Voce: David Riondino
Chitarre: Michele Marzulli
Tecnico del suono e montaggio: Piero Ancona
Regia: Antonio Lillo

Pietre Vive Editore, 2018, € 10
Acquistabile qui
Qui un'anteprima





giovedì 22 marzo 2018

roba mia in uscita



Non lo sa (quasi) nessuno, ma il mio primo libro di poesie lo pubblicai nel 2010.
Era una plaquette, intitolata Topografia della solitudine, che uscì in un volume collettaneo per le edizioni Fara del benemerito Alessandro Ramberti. Raccontava del mio viaggio a New York, con annessi e connessi.
L'anno scorso, un po' aumma-aumma, l'altrettanto benemerito Antonio Lillo l'ha ripubblicato, in forma di e-book, per Pietre Vive. Ma era solo l'inizio: perché ora Topografia della solitudine ri-esce in sontuosa veste di audiolibro, con la voce di David Riondino e le chitarre di Michele Marzulli.
Su YouTube c'è un'anteprima, che potete ascoltare gratis, mentre a giorni dovrebbe uscire la versione ufficiale.
Io, se fossi in voi, me la comprerei: non foss'altro che per premiare la follia di uno che investe tempo, soldi e sudore per pubblicare audiolibri di poesia contemporanea.
Poi non dite che non ve l'ho detto, eh?

P.S.: quella qui sopra è la copertina dell'e-book, ossia un disegno dell'autore, vale a dire me medesimo personalmente in carne, ossa e inchiostro.

mercoledì 21 marzo 2018

quattro inediti di Antonio Bux

dalla raccolta inedita “Sasso, carta e forbici” (2017)


Carta

II

Ti ho trovata morta sulle scale. 
Era ferragosto, nella fretta di vedermi
sei inciampata nell'ultimo scalino
e cadendo all'indietro così 
come sei nata, in un salto di luce
sei andata via, con i vicini accanto
mormorando sul tuo corpo mezzo rotto.
È stata l'ultima volta che ho pianto,
poi c'è stato un muro, specie quando
ti ho vista rialzarti dal marmo 
della camera ardente venirmi contro
a dire: sei tu che stai sognando 
la mia morte
; così te ne sei tornata 
sdraiata a dormire. Fu dopo quella notte 
che tu attraversasti il portone 
ogni maledetto giorno: a casa ti vedevo 
salire le scale con me, mentre raccontavi 
la tua giornata all'ospedale, tra un paziente 
e una palpata del primario, e io geloso, 
col tuo bisturi gli avrei tagliato via tutto; 
ma tu mi frenavi, dicevi: è solo lavoro, 
non è niente, torniamo a casa, amore, 
è per il bene di nostro figlio
. Di quale figlio 
tu parlassi non mi era proprio chiaro, 
ma lì per lì feci finta di avercelo un bambino
per non deluderti, almeno da morta. Sono passati 
dieci anni e ogni giorno facciamo quelle scale, 
questa volta senza inciampare, e ogni giorno
provo sempre a fare finta di non vedere, chissà 
uno scalino, o il passamano per venirmene con te 
a passeggiare là in alto, dove forse abbiamo un figlio.

* * *

Una spora da Cernobil

I

Sassi, fibre, forze della terra,
anni che non sono più uomini
vicini a come si perde un volto.
Sono stati qui, erano tanti,
abitavano stanze, senza sapere,
lavoravano a fare vita.

Ma ora è vita e non è mai, vita
ora che è qui, a lavorare,
a far da sola,
sola il tempo e sola la solitaria
roccia che nell'acqua piange,
e piange tutti i ricordi.
I cassonetti sono caduti, colonie
di insetti e bisce, cicorie
qui a fare casa e spazio;

e il manto stradale che era i semafori
accesi per sempre e la luna
come a dividere ancora,
come si andasse da un'altra parte,
da un'altra parte a cercare facce
nuove, per poter restare.

Ma il segnale dice che non si può,
no, dice che la terra è morta
come i morti dicono cos'era

essere tempo, senza mai vivere.

E gli aerei che pure passano sopra
vedono una croce
al di là della chiesa e ombre
piene muovere il prato.

(Che sarebbero uomini e invece sassi,
donne coi loro figli e sono pietre,
fibre come pietre e forze della terra).

* * * 

Forbici

I

Il gioco era chiedere, dire montagne, 
fare onde coi passi, chiari sulle acque
- e le onde respingevano future -  

ma fate disegni calmi, diceva la scuola, 
più calmi disegnate le onde: così uno 
diventava bambino, con l'acqua

sporca, come il corpo addosso,
con la poca acqua caduta dai sogni 
che ora è corpo e cenere, o fuoco, 

o è corpo che si chiede esistere, 
o resistere se è gioco quel sasso
a tirare, o a esser tirato, e creare

un disegno per bucare e dire carta, 
o per tagliare con le forbici
a mani piene, pietre immaginarie. 

(E questo gioco era montagne
alte, immaginarie erano vite 
così piene che si era bambini
da soli, a disegnare le onde).

Non che sia abitare questo
prima di vivere, non che sia
più gioco o vanità la foresta

che si placa con gli anni, o uno
a sé davanti che gioca, e perde, 
o solamente si trova schierato.

XI


Ero nato, ne sono sicuro. Ma non
nei fogli, più dentro l'acqua genitale
di mia madre, quella innaturale,
e mi ha fatto così, come la neve,
che cade solo se accolta.
Ero nato, in un Nord del Sud,
o in Sud del Nord, di sicuro al centro
dopo l'estate, quando Ottobre era caldo
e il magnete della terra premeva
verso il caldo destinale, del suo globo.
E così fui nato, ma senza prospettiva
di diventare un bel divoratore
di piante, di maiali, di urine bianche
trasformate. È così che sono nato,
dentro uno stivale, dalla pelle bucata,
e sono nato povero, ma con forma regale,
mi sono comprato una fede, una sposa,
una frase che è mia. E dentro la mia città
ho creduto le città come gabbie, come nidi
ma non solo di gabbie, anche di aurore.
Ed è anche per questo che sono nato,
per veder scritto dove è niente, per sapere
se quel niente può essere fatto, come un volto
che dice sono Dio, ma è solo il volto
di un io allo specchio. E così me ne vado
nello specchio di tutti i volti, e nelle montagne
che sono solo mie, e nei venti e nei mari,
e nei fiumi, quelli miei e di tutti, perché è lì
che dovremo annegare. È così che si nasce
e si muore, come insieme, uniti
allo stare del mondo. Allora nasceremo
di nuovo forse, nasceremo più forti, più chiari,
e leggeremo altrove i nostri volti, scolpiti,
e le nostre mani, magari scriveranno meno,
e forse faremo grandi i cieli
di lotte, e grandi sorrisi sì, sicuro
qualcosa faremo. Perché si nasce
per questo, per fare. E io ho fatto presto,
ho scritto questa poesia.




Antonio Bux (Foggia, 1982) ha pubblicato vari libri, sia in italiano, tra i quali Trilogia dello zero (finalista premio Lorenzo Montano, vincitore premio Minturnae), Kevlar (vincitore premio Alinari), Naturario (selezione premio Viareggio), che in spagnolo (23 - fragmentos de alguien, El hombre comido, Saga familiar de un lobo estepario). Suoi lavori sono stati tradotti in varie lingue e antologizzati in opere collettive come InVerse: Italian poets in translation, a cura della John Cabot University. Ha tradotto numerosi autori di lingua spagnola, su tutti Leopoldo María Panero. Ha fondato e dirige il blog Disgrafie, oltre che una collana per la casa editrice RPlibri e due collane per le Marco Saya Edizioni.

martedì 20 marzo 2018

let it be

Per fare il poeta ci vogliono muscoli fortissimi
e a me cade di mano la penna appena comincio.
E ci vuole anche tanta attenzione
non come me che penso alle tasse o alla lista della spesa.

Dovrei essere più pigro (o magari più atletico)
dovrei riempire la casa di specchi e di pugnali
invece non butto nemmeno una goccia di sangue
e taglio i capelli corti per non doverli pettinare.

Insomma basta guardarmi per capire
che non è proprio il caso.

domenica 18 marzo 2018

nascondere / rivelare




Oggi pomeriggio, parlando con una persona di fronte a una fetta (e mezza) di torta Sacher, pensavo che con le persone è un po' come con i libri: quelli che ti dicono tutto subito, che ti si rivelano già alla prima occhiata, sono quelli che poi abbandoni subito, senza che ti venga più voglia di riprenderli; invece quelli che si ritraggono, che ti lasciano un po' di mistero, di non-detto, ecco: quelli vale la pena di approfondirli e di conoscerli meglio.

sabato 17 marzo 2018

consigli di lettura



Dunque, è uscito questo libro, che non porta in copertina la mia firma, ma che sento anche un po' mio, perché ho contribuito a farlo venire alla luce.
Si chiama Underdog. L'arte dello sfavorito, e l'autore è Simone Gubbiotti.
Simone, oltre che un bravissimo chitarrista jazz (ascoltare per credere), è anche un caro amico, e come tale mi ha chiesto di aiutarlo a dar forma a questa storia: che racconta la sua maturazione musicale e umana, ma soprattutto racconta di come la musica possa essere un mezzo potentissimo per trovare l'energia necessaria a superare i momenti più neri della vita.
Io, fossi in voi, lo leggerei. Costa 14 euri e si può ordinare sul sito dell'editore (Art in Life, che è una costola della Fondazione Nicola Ghiuselev).
Qui di seguito, un brano tratto dal prologo.
Buona lettura.

* * *

Underdog, nel gergo sportivo statunitense, è lo sfavorito.
È quella squadra, o quell’atleta, che vengono dati per sconfitti già nel pronostico.
Il pronostico viene chiamato anche “predizione” (buffa parola, che traduce alla lettera l’inglese prediction): un termine che assume un senso quasi mistico, ma che a me sa tanto di gufata. Spesso, però, la predizione viene ribaltata: a sorpresa, il favorito perde e lo sfavorito vince. In inglese lo chiamano upset (che vuol anche dire “arrabbiato”, forse perché chi ha perso la scommessa, comprensibilmente, s’incazza).
Se torno indietro alle mie vite precedenti (ne ho avuta più di una e se avrete la pazienza di continuare a leggere, ve ne spiegherò il perché) e provo a ripensare a coloro che ho incontrato sulla mia strada, mi rendo conto di essere stato circondato da persone che mi hanno sempre detto e ripetuto che non si poteva fare. Che era impossibile.
Quando ho iniziato a mettere insieme il primo progetto musicale, passavo a prendere tutti e li riaccompagnavo, perché andavamo a fare le prove lontano. Io ci mettevo la macchina, la benzina, scrivevo i pezzi e organizzavo i primi, rudimentali arrangiamenti. Una sera il bassista sbottò e se ne uscì dicendo: «… ma chissà dove li suoneremo mai, tutti questi pezzi inutili!».
Eccola qui, la predizione; il gruppo, manco a dirlo, abortì.
Quando progettavo di andare a studiare negli Stati Uniti, una mia cara amica mi rise in faccia: troppo lontano quel continente, mi conveniva stare con i piedi per terra! Qualche anno dopo, ho avuto suo figlio come studente di chitarra.
Certo, se da ragazzo mi avessero detto che avrei fatto il musicista, ci avrei riso sopra per una settimana. Non era nelle mie stelle e non ci avevo pensato neanche lontanamente, mai. Se mi avessero detto che sarei diventato un calciatore, o uno sportivo, ecco, quello sì, ma musicista…
In fondo, non ci credevo nemmeno quando, a ventiquattro anni, mi presentai ai seminari del Berklee College of Music, a Umbria Jazz, con la mia chitarra Alhambra classica da due soldi, senza sapere nulla (o quasi) di jazz.
Ancora di meno ci credevo dopo il concerto (il mio primo concerto jazz!), quello di Ornette Coleman, quando uscii dal teatro senza averci capito nulla, ma fermamente intenzionato a capire, a tutti i costi.
Sembra che la gente provi un piacere particolare quando ti informa che, secondo il parere proprio, il tuo sogno è impossibile da realizzare; che non ce la puoi proprio fare...
Confesso che ci ho sofferto molto, in principio; ma poi tutto ciò si è trasformato in carburante che fa andare avanti il mio motore. Ancora oggi, quando parlo delle mie collaborazioni musicali, molti credono che stia raccontando delle frottole e pensano che non sia possibile e quando infine si rendono
conto che è tutto vero, si chiedono come diavolo abbia fatto.
Capita anche che, dopo i concerti, vengano a dirmi che non si aspettavano quel livello musicale, che non immaginavano suonassi così bene. Sono sicuro che lo intendano come un complimento, ma per me quelle parole derivano da un palese vizio di forma, da un pregiudizio.
Un sacco di volte, direi quasi sempre, sono stato lo sfavorito, ma io amo questa definizione; sento che mi calza a pennello, poiché mi permette, tra l’altro, di restare sotto traccia, arrivare a luci spente e sorprendere!
Già, appunto: sorprendere, poiché cogliere l’espressione che si disegna su certe facce, giuro, non ha prezzo. Quando sei lo sfavorito, puoi liberarti da qualunque aspettativa, persino da quelle che nutri tu stesso: non hai nulla da perdere, né, tanto meno, da dimostrare, e questa è una combinazione esplosiva.
Essere sfavoriti è un’arte sottile! Se non sai gestirla, se ti fai abbattere, diventa l’arte della sconfitta, ma se davvero credi nei tuoi mezzi può diventare uno stimolo enorme, una delle più grandi motivazioni. Io ho dovuto imparare a farlo, anzi lo sto ancora imparando.
Ecco, questo libro parla dell’arte di essere lo sfavorito. C’è la musica, c’è lo sport, ma non è solo quello: c’è la vita, che può essere la mia, ma anche quella di tanti che ho incontrato e che ancora mi sono vicini. A tutti loro, e a tutti voi che mi leggete, vorrei dire questo: quando si gioca da sfavoriti, ricordatevi che le vostre quote sono quelle più alte. E allora, quando arriverete e sorprenderete tutti, sarete voi quelli che si beccheranno il gruzzolo più grosso.
Soprattutto, questo libro parla della resilienza, dell’abilità di trasformare le brutte esperienze in opportunità; di ribaltare le carte in tavola.
Io sono tante cose: sono uno, nessuno e centomila. Sono tutte le emozioni, tutte le personalità, ma anche nessuna. Sono la mia musica e allo stesso tempo non lo sono.
Io sono soltanto io. Sono sfavorito, l’underdog.
Sono quello su cui non scommette nessuno, ma sono anche un resiliente, uno che non si arrende mai.
Uno duro a morire.

giovedì 1 marzo 2018

vummarìje

Su Versante Ripido di marzo, insieme a tanta altra bella roba, trovate anche alcune mie poesie dialettali.
Questo è il link.