lunedì 30 novembre 2009

memento (3)


Il mondo mi sfugge, ancora, non so dominarlo
più, mi sfugge, ah, un'altra volta è un altro...

Altre mode, altri idoli,
la massa, non il popolo, la massa
decisa a farsi corrompere
al mondo ora si affaccia,
e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video
si abbevera, orda pura che irrompe
con pura avidità, informe
desiderio di partecipare alla festa.
E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole.
Muta il senso delle parole:
chi finora ha parlato, con speranza, resta
indietro, invecchiato.
Non serve, per ringiovanire, questo
offeso angosciarsi, questo disperato
arrendersi! Chi non parla, è dimenticato.

Pier Paolo Pasolini
da “La rabbia” (1960), in “La religione del mio tempo”

domenica 29 novembre 2009

vecchi versi


Ritrovati mettendo in ordine i cassetti. Questa è datata 7 aprile 2005.

C’è chi stringe la vita talmente
forte che gli schizza via di mano


e c’è chi lascia che gli si sformi

addosso, come un vecchio maglione.


Mio nonno morì

con la lingua nera, la gamba sinistra

un moncherino. Mia nonna
non mi riconosceva più, la fronte tesa sull’osso,
la pelle afflosciata sotto i gomiti.
Carlo

(mi dicono, non c’ero) lasciò andare
un filo di saliva all’angolo della bocca.

Il canarino morì a sobbalzi

(un motore ingolfato) nelle mani della bambina.


La vita non concede armistizi.

Oggi, per esempio:

la casa odora forte di candeggina, sono sul terrazzo

e mentre aspetto che gli acari muoiano lascio tracce biologiche
del mio passaggio, ascolto il lavorio del mio corpo,

immagino la mia, di morte,

come uno schianto secco di fascine.

sabato 28 novembre 2009

ascesi e cazzo (ovvero: un poeta in brasile)


Gerarchia

Se arrivo in una città
oltre l'oceano
Molto spesso arrivo in una nuova città, portato dal dubbio.
Divenuto da un giorno all'altro pellegrino
di una fede in cui non credo;
rappresentante di una merce da tempo svalutata,
ma è grande, sempre, una strana speranza -
Scendo dall'aeroplano col passo del colpevole,
la coda tra le gambe, e un eterno bisogno di pisciare,
che mi fa incamminare un po' ripiegato con un sorriso incerto -
C'è da sbrigare la dogana, e, molto spesso, i fotografi:
comune amministrazione che ognuno cura come un'eccezione.
Poi l'ignoto.
Chi passeggia alle quattro del pomeriggio
sulle aiuole piene di alberi
e i boulevards d'una disperata città dove europei poveri
sono venuti a ricreare un mondo a immagine e somiglianza del loro, spinti dalla povertà a fare di un esilio una vita?
Con un occhio alle mie faccende, ai miei obblighi -
Poi, nelle ore libere,
comincia la mia ricerca, come se anch'essa fosse una colpa -
La gerarchia però è ben chiara nella mia testa.
Non c'è Oceano che tenga.
Di questa gerarchia gli ultimi sono i vecchi.
Sì, i vecchi alla cui categoria comincio ad appartenere
(non parlo del fotografo Saderman che con la moglie
già amica della morte mi accoglie sorridendo
nello studiolo di tutta la loro vita)
Sì, c'è qualche vecchio intellettuale
che nella Gerarchia
si pone all'altezza dei più bei marchettari
i primi che si trovano nei punti subito indovinati
e che come Virgili conducono con popolare delicatezza
qualche vecchio è degno dell'Empireo,
è degno di star accanto al primo ragazzo del popolo
che si dà per mille cruzeiros a Copacabana
ambedue son lo mio duca
che tenendomi per mano con delicatezza,
la delicatezza dell'intellettuale e quella dell'operaio
(per lo più disoccupato)
la scoperta dell'invariabilità della vita
ha bisogno di intelligenza e di amore
Vista dall'hotel di Rua Resende Rio -
l'ascesi ha bisogno del sesso, del cazzo -
quella finestrella dell'hotel dove si paga la stanzetta -
si guarda dentro Rio, in un aspetto dell'eternità,
la notte di pioggia che non porta il fresco,
e bagna le strade miserabili e le macerie,
e gli ultimi cornicioni del liberty dei portoghesi poveri
sublime miracolo!
E dunque José Carrea è il Primo nella Gerarchia,
e con lui Harudo, sceso bambino da Bahia, e Joaquim.
La Favela era come Cafarnao sotto il sole -
Percorsa dai rigagnoli delle fogne
le baracche una sull'altra
ventimila famiglie
(egli sulla spiaggia chiedendomi la sigaretta come un prostituto)
Non sapevamo che a poco a poco ci saremmo rivelati,
prudentemente, una parola dopo l'altra
detta quasi distrattamente:
io sono comunista, e: io sono sovversivo;
faccio il soldato in un reparto appositamente addestrato
per lottare contro i sovversivi e torturarli;
ma loro non lo sanno;
la gente non si rende conto di nulla;
essi pensano a vivere
(mi parla del sottoproletariato)
La Favela, fatalmente, ci attendeva
io gran conoscitor, egli duca -
i suoi genitori ci accolsero, e il fratellino nudo
appena uscito di dietro la tela cerata -
eh sì, invariabilità della vita, la madre
mi parlò come Lìmardi Maria, preparandomi la limonata
sacra all'ospite; la madre bianca ma ancor giovane di carne;
invecchiata come invecchiano le povere, eppur ragazza;
la sua gentilezza con quella del suo compagno,
fraterno al figlio che solo per sua volontà
era ora come un messo della Città -
Ah, sovversivi, ricerco l'amore e trovo voi.
Ricerco la perdizione e trovo la sete di giustizia.
Brasile, mia terra,
terra dei miei veri amici,
che non si occupano di nulla
oppure diventano sovversivi e come santi vengono accecati.
Nel cerchio più basso della Gerarchia di una città
immagine del mondo che da vecchio si fa nuovo,
colloco i vecchi, i vecchi borghesi
ché un vecchio popolano di città resta ragazzo
non ha da difendere niente -
va vestito in canottiera e calzonacci come Joaquim il figlio.
I vecchi, la mia categoria,
che vogliano o non vogliano -
Non si può sfuggire al destino di possedere il Potere,
esso si mette da solo
lentamente e fatalmente in mano ai vecchi,
anche se essi hanno le mani bucate
e sorridono umilmente come martiri satiri -
Accuso i vecchi di avere comunque vissuto,
accuso i vecchi di avere accettato la vita
(e non potevano non accettarla, ma non ci sono
vittime innocenti)
la vita accumulandosi ha dato ciò che essa voleva -
accuso i vecchi di avere fatto la volontà della vita.
Torniamo alla Favela
dove non si pensa nulla
o si vuole diventare messi della Città
là dove i vecchi sono filo-americani -
Tra i giovani che giocano biechi al pallone
di fronte a cucuzzoli fatati sul freddo Oceano,
chi vuole qualcosa e lo sa, è stato scelto a sorte -
inesperti di imperialismo classico
di ogni delicatezza verso il vecchio Impero da sfruttare
gli Americani dividono tra loro i fratelli superstiziosi
sempre scaldati dal loro sesso come banditi da un fuoco di sterpi -
E' così per puro caso che un brasiliano è fascista e un altro sovversivo;
colui che cava gli occhi
può essere scambiato con colui cui gli occhi sono cavati.
Joaquim non avrebbe potuto mai essere distinti da un sicario.
Perché dunque non amarlo se lo fosse stato?
Anche il sicario è al vertice della Gerarchia,
coi suoi semplici lineamenti appena sbozzati
col suo semplice occhio
senz'altra luce che quella della carne
Così in cima alla Gerarchia,
trovo l'ambiguità, il nodo inestricabile.
O Brasile, mia disgraziata patria,
votata senza scelta alla felicità,
(di tutto son padroni il denaro e la carne,
mentre tu sei così poetico)
dentro ogni tuo abitante mio concittadino,
c'è un angelo che non sa nulla,
sempre chino sul suo sesso,
e si muove, vecchio o giovane,
a prendere le armi e lottare, indifferentemente,
per il fascismo o la libertà -
Oh, Brasile, mia terra natale, dove
le vecchie lotte - bene o male già vinte -
per noi vecchi riacquistano significato -
rispondendo alla grazia di delinquenti o soldati
alla grazia brutale.

Pier Paolo Pasolini
(da: Trasumanar e organizzar, 1971)

venerdì 27 novembre 2009

memento (2)



Tutti si giurano puri:
puri nella lingua... naturalmente:
segno che l'anima è sporca.
È stato sempre
così. Per mentire non bisogna essere oscuri.
[...]
Sono infiniti i dialetti, i gerghi,
le pronunce, perché è infinita
la forma della vita:
non bisogna tacerli, bisogna possederli:
ma voi non li volete
perché non volete la storia, superbi
monopolisti della morte: i poeti
parlano come preti, e, profetiche,

urlano vittora, tutt'intorno
le Cassandre: è passato il tempo delle speranze!
Avevano ragione loro, nascoste
dentro le parrocchie.
Adesso riescono alla luce del giorno,
cornacchie delle privilegiate angoscie,
delle libere speranze imposte
dalla forza del capitale che non si estingue.
[...]

Non c'è via di scampo, anche chi si oppone
è quell'uomo, miserabile, empio,
stupido, freddo, ironico,
che rende faziosa ogni sua più seria
passione, che non crede all'altrui passione...
E in questo accomunano i giorni della distensione
nemici e amici: ricomincia la guerra vile
del discredito, della malizia, della
cecità di cellula
o sacrestia: e ritorna lo stile
di un tempo, nei cuori
come nei versi: ed è meglio morire.

Pier Paolo Pasolini, “La reazione stilistica” (1960)
(da: La religione del mio tempo)

(Nell'immagine: il cadavere di Pasolini, così come fu ritrovato all'Idroscalo di Ostia, la mattina del 2 novembre 1975)

giovedì 26 novembre 2009

e anche quest'altro è andato...

(clicca sul titolo per leggere l'articolo).


Non commento, ma mi limito a rimandare a questo commento di Giulio Mozzi, che esprime benissimo il mio pensiero.

amarcord musicale 7 - chi ha acceso il fuoco

Non sono un fan di Billy Joel, anzi così su due piedi non saprei citare neanche un titolo di una sua canzone (che questa sia sua, l'ho scoperto da poco).
Però questa me la ricordo, chissà perché.
Il testo, poi, è interessante: un tour de force di fatti e personaggi storici che fanno dal 1949 (anno della nascita di Joel) al 1989 (anno di uscita della canzone). Ogni strofa è dedicata a un anno, in ordine cronologico, con l'eccezione delle ultime quattro, che riassumono gli anni tra il 1964 e il 1989.
Anche il video è carino, ma non posso postarlo perché su YouTube hanno bloccato l'embedding, comunque lo trovate qui. Su Wikipedia una spiegazione dei riferimenti storici.


We Didn't Start The Fire

Harry Truman, Doris Day,
la Cina rossa, Johnnie Ray,
"South Pacific", Walter Winchell,
Joe DiMaggio.

Joe McCarthy, Richard Nixon,
Studebaker, la televisione,
Nord Corea, Sud Corea,
Marylin Monroe.

I Rosemberg, le bombe-H,
Sugar Ray, Pan-Mun-Jon,
Brando, "The King and I"
e "The Catcher in the Rye".

RITORNELLO:
Non siamo noi che abbiamo acceso il fuoco:
stava già bruciando da quando gira il mondo.
Non siamo noi che abbiamo acceso il fuoco,
no, non l'abbiamo acceso, ma abbiamo cercato di combatterlo.

Giuseppe Stalin, Malenkov,
Nasser e Prokofiev,
Rockefeller, Campanella,
il blocco comunista.

Roy Cohn, Juan Peron,
Toscanini, il dacron,
Dien Bien Phu cade,
"Rock Around the Clock".

Einstein, James Dean,
Brooklyn ha una squadra vincente,
"Davy Crockett", "Peter Pan",
Elvis Presley, Disneyland.

Bardot, Budapest,
Alabama, Kruschev,
la principessa Grace, "Peyton Place",
problemi a Suez.

(RITORNELLO)

Little Rock, Pasternak,
Mickey Mantle, Kerouac,
lo Sputnick, Chou-En-Lai,
"Il ponte sul fiume Kwai".

Il Libano, Charles De Gaulle,
il baseball in California,
gli omicidi di Starkweather,
i figli del Thalidomide.

Buddy Holly, "Ben Hur",
scimmie nello spazio, mafia,
gli hula hoop, Castro,
la Edsel è un fallimento.

Lo U-2, Syngman Rhee,
la "payola" e Kennedy,
Chubby Checker, "Psycho",
i Belgi in Congo

(RITORNELLO)

Hemingway, Eichmann,
"Straniero in terra straniera",
Dylan, Berlino,
l'invasione della Baia dei Porci.

"Lawrence d'Arabia",
la Beatlesmania britannica,
la "Vecchia Signora", John Glenn,
Liston batte Patterson.

Papa Paolo, Malcolm X,
il sesso dei politici britannici,
JFK fatto fuori,
che altro devo dire?

(RITORNELLO)

Controllo delle nascite, Ho Chi Minh,
Richard Nixon ritorna,
il lancio sulla luna, Woodstock,
il Watergate, il punk rock.

Begin, Reagan, la Palestina,
terrore sulla linea aerea,
gli Ayatollah in Iran,
i Russi in Afghanistan.

"La ruota della fortuna", Sally Ride,
l'heavy metal e i suicidi,
debiti esteri, veterani senzatetto,
AIDS, crack, Bernie Goetz.

Ipodermiche sulla spiaggia,
la Cina è sotto la legge marziale,
la guerra della Cola con i rocker,
non ne posso più...

(RITORNELLO)

Non abbiamo acceso il fuoco,
ma quando ce ne saremo andati,
brucerà ancora, e ancora,
e ancora, e ancora...

mercoledì 25 novembre 2009

a un figlio non nato


In fondo a quel candido ponte nuovo sul Tevere
finito dai cattolici per non smentire i fascisti
tra i fregi, i cippi, i falsi frammenti, i finti ruderi,
un gruppo di donne aspettava i clienti al sole.
Tra queste c'era Franca, una venuta da Viterbo,
bambina, e già madre, che fu la più svelta:
corse allo sportello della mia macchina, gridando,
così sicura che non potei disingannarla:
salì, si accomodò, allegra come un ragazzo,
e mi condusse verso la Cassia: passammo un bivio,
corremmo per una strada abbandonata al sole
tra cantieri di gesso e casupole tripoline,
e arrivammo al suo posto: era un praticello
sotto un'altura cosparsa di borraccine e grotte.
Un vecchio cavallo marrone, in fondo, sull'erba umida,
un'automobile vuota, in mezzo ai cespugloi,
e non lontano, qua e là, festosi echi di spari:
tutt'intorno era pieno di coppie, ragazzi e poveri.
In questi giorni la mia vita, il mio lavoro erano pieni,
nessuno squilibrio, nessuna paura mi minacciava:
ero andato avanti per anni, prima per fisica grazia,
– mitezza, salute e entusiasmo che ho avuto nascendo,
poi per una luce di pensiero, benché incerto ancora,
– amore, forza e coscienza che ho acquistato vivendo.
Eppure, primo e unico figlio non nato, non ho dolore
che tu non possa mai esser qui, in questo mondo.

Pier Paolo Pasolini

Da “Umiliato e offeso. Epigrammi” (1958),
in La religione del mio tempo

martedì 24 novembre 2009

recensioni in pillole 45 - "Corpo vivo e corpo morto"

Giulio Mozzi, Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi (con una nota di Demetrio Paolin), Transeuropa 2009 (98 pp., €10)

Come definire un libro che comincia con la formale proposta, indirizzata alle gerarchie ecclesiastiche, di “provvedere al più presto a dichiarare beata, e poi santa, la povera ragazza Eluana Englaro uccisa, dopo diciassette anni di vita indescrivibile, e dopo lunga battaglia legale, dal padre Beppino Englaro”?
E che continua con l'annuncio della “morte e fasulla resurrezione di Silvio Berlusconi, attuale presidente del consiglio dei ministri, negli ultimi mesi documentatamente accusato da certa stampa [...] di essere, né più né meno, un puttaniere [...]: resurrezione che avverrà [...] sotto la pretesa egida di Padre Pio da Pietrelcina [...] allo scopo di far fuori la chiesa cristiana cattolica terrena”?
Un pamphlet satirico, verrebbe da dire. E invece no. Perché Mozzi, cattolico dichiarato (sebbene “tentato dal protestantismo”, come lui stesso si definisce) argomenta le due tesi con rigore e assoluta serietà, riprendendo un discorso già portato avanti sul suo blog vibrisse, al quale rimando chi voglia informazioni sull'autore.
“Corpo morto e corpo vivo” è soprattutto l'opera di una coscienza al lavoro. Sottolineo il termine “coscienza”, perché il libro, a differenza di quasi tutto quello che è stato scritto e detto sul caso Englaro, non propone tesi precostituite, né tantomeno le urla, né sostiene crociate pro o contro, ma piuttosto si/ci interroga sulle questioni morali che il caso Englaro suscita.
Che cosa significa “vita”? La vita si riduce alla biologia? Eluana Englaro può essere considerata una “martire”? Che cosa sappiamo realmente di ciò che sente, prova, subisce una persona nelle sue condizioni? È giusto tenere in vita un corpo umano per il solo motivo che la tecnica ci permette di farlo? Qual era il vero interesse delle forze politiche che si scontravano intorno al caso Englaro?
Il contraltare al corpo doloroso di Eluana è il corpo glorioso, eternamente giovane, eternamente copulante, di Silvio Berlusconi. L'uomo “tecnicamente immortale”, come lo definì il suo medico.
Ma, ancora di più, sullo sfondo c'è la chiesa cattolica, quella chiesa che Mozzi accusa, senza mezzi termini, di essersi lasciata trattare da Berlusconi come una prostituta, né più né meno delle tante ragazzine che frequentano i suoi palazzi.
Un libro insieme lucido e furioso, ironico e dolente. Soprattutto, un libro onesto; e non è certo poco.

lunedì 23 novembre 2009

memento



Tutto mi dà dolore: questa gente

che segue supina ogni richiamo
da cui i suoi padroni la vogliono chiamata,
adottando, sbadata, le più infami

abitudini di vittima predestinata;
il grigio dei suoi vestiti per le grigie strade;
i suoi grigi gesti in cui sembra stampata

l'omertà del male che l'invade;
il suo brulicare intorno a un benessere
illusorio, come un gregge intorno a poche biade;

la sua regolarità di marea, per cui resse
e deserti si alternano per le vie,
ordinati da flussi e da riflussi ossessi

e anonimi di necessità stantie;
i suoi sciami ai tetri bar, ai tetri cinema,
il cuore tetramente arreso al quia...

E intorno questo interno dominio
della volgarità, la città che si sgretola
ammucchiandosi, brasiliana o levantina,

come l'espansione di una lebbra
che si bea ebbra di morte sugli strati
dell'epoche umane, cristiane o greche,

e allinea tempeste di caseggiati,
gore di lotti color bile o vomito,
senza senso, né di affanno né di pace;

sradica i riposanti muri, i gomiti
poetici dei vicoli sui giardini interni,
i superstiti casolari dalla tinta di pomice

o topo, tra cui fichi, radicchi, svernano
beati, i selciati striati di una grama
erbetta, i rioni che parevano eterni

nei loro lineamenti quasi umani
di grigio mattone o smunto cotto:
tutto distrugge la volgare fiumana

dei pii possessori di lotti:
questi cuori di cani, questi occhi profanatori,
questi turpi alunni di un Gesù corrotto

nei salotti vaticani, negli oratori,
nelle anticamenre dei ministri, nei pulpiti:
forti di un popolo di servitori.

Com'è giunto lontano dai tumulti
puramente interiori del suo cuore,
e dal paesaggio di primule e virgulti

del materno Friuli, l'Usignolo
dolceardente della Chiesa Cattolica!
Il suo sacrilego, ma religioso amore

non è più che un ricordo, un'ars retorica:
ma è lui, che è morto, non io, d'ira,
d'amore deluso, di ansia spasmodica

per una tradizione che è uccisa
ogni giorno da chi se ne vuole difensore;
e con lui è morta una terra arrisa

da religiosa luce, col suo nitore
contadino di campi e casolari;
è morta una madre ch'è mitezza e candore

mai turbati in un tempo di solo male;
ed è morta un'epoca della nostra esistenza,
che in un mondo destinato a umiliare

fu luce morale e resistenza.


Pier Paolo Pasolini
da “La religione del mio tempo” (1957-59)

domenica 22 novembre 2009

amarcord musicale 6/b - ancora r.e.m.

Vabbè, qualcosa di più serio.
Onestamente non sono un appassionato dei R.E.M., ma questa non si può non conoscerla.
La canzone ha anche un videoclip splendido, pieno di reminiscenze di Caravaggio e della grafica sovietica rivoluzionaria: connubio geniale, anche se apparentemente improbabile. Fino a qualche giorno fa il videoclip era disponibile su YouTube, ora risulta eliminato per motivi di copyright (bastardi...).
Sentitevela in una versione live, anche se non è la stessa cosa.


http://www.youtube.com/watch?v=gfxqvcht2ik

Oh, la vita è più grande
è più grande di te
e tu non sei me
le lunghezze a cui arriverò
la distanza nei tuoi occhi
oh no ho detto troppo
l'ho preparato

Ci sono io nell'angolo
ci sono io sotto il riflettore
sto perdendo le staffe
cercando di starti dietro
e non so se posso farcela
oh no ho detto troppo
non ho detto abbastanza
penso di averti sentito ridere
penso di averti sentito cantare
penso di aver pensato di vederti tentare

Ogni sussurro
di ogni ora del risveglio
sto scegliendo la mia confessione
cercando di tenerti d'occhio
come uno stupido ferito sperduto e accecato
oh no ho detto troppo
l'ho preparato

Considera questo
il suggerimento del secolo
considera questo
lo smottamento che mi ha portato
a cadere sulle ginocchia
che succederebbe se tutte queste fantasie
venissero a flagellarmi
ora ho detto troppo
penso di averti sentito ridere
penso di averti sentito cantare
penso di aver pensato di vederti tentare

Ma è stato solo un sogno
è stato solo un sogno
tentare piangere perché tentare?
È stato solo un sogno
solo un sogno solo un sogno
sogno

sabato 21 novembre 2009

amarcord musicale 6 - splendido splendente

OK, la canzone è un po' una cazzata, ma è assolutamente contagiosa, e ogni volta che la sento penso: "ammazza quanto fa anni Ottanta..." (anche se è del '91, ma non stiamo a sottilizzare).
E poi il video è carino. O forse sarà piuttosto la minigonna di Kate Pierson (che fra l'altro somiglia tantissimo a una ragazza di cui ero innamorato secoli fa)?
Mah...



venerdì 20 novembre 2009

lampi - 34


Gli è sempre rimasta la convizione che, a conti fatti, di quel tizio nello specchio non ci sia da fidarsi troppo.

giovedì 19 novembre 2009

natale bianco


“Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35)

da Repubblica di ieri:

Il diktat della Lega contro i clandestini: "E' Natale, cacciamo tutti gli irregolari"

A Coccaglio (Brescia) l'assessore leghista Abiendi ha aperto la caccia agli immigrati irregolari con l'operazione denominata "White Christmas" perché - spiega - "il Natale non è la festa dell’accoglienza, ma della tradizione cristiana e della nostra identità". Il sindaco Claretti: "Il nostro obiettivo è fare pulizia"
di Sandro De Riccardis

A Coccaglio la caccia ai clandestini si fa in nome del Natale. L’a mministrazione di destra — sindaco e tre assessori leghisti, altri tre assessori targati Pdl — ha inaugurato nel piccolo comune bresciano l’operazione "White Christmas" per ripulire la cittadina dagli extracomunitari. Un nome scelto proprio perché l’operazione scade il 25 dicembre. E perché, spiega l’ideatore dell’operazione - l’assessore leghista alla Sicurezza, Claudio Abiendi - "per me il Natale non è la festa dell’accoglienza, ma della tradizione cristiana, della nostra identità". È così che fino al 25 dicembre, a Coccaglio, poco meno di settemila abitanti, 1.500 stranieri, i vigili vanno casa per casa a suonare il campanello di circa 400 extracomunitari. Quelli che hanno il permesso di soggiorno scaduto da sei mesi e che devono aver avviato le pratiche per il rinnovo.
"Se non dimostrano di averlo fatto — dice il sindaco Franco Claretti — la loro residenza viene revocata d’ufficio". L’idea dell’operazione intitolata al Natale nasce dopo l’approvazione del decreto sicurezza che dà poteri più incisivi al sindaco, che poi chiede ai suoi funzionari di verificare i dati dell’Anagrafe sugli stranieri. Nel paese, in dieci anni, gli extracomunitari sono passati dai 177 del 1998 ai 1562 del 2008, diventando più di un quinto della popolazione. Con marocchini, albanesi e cittadini della ex Jugoslavia tra i più presenti. "Da noi non c’è criminalità — tiene a precisare Claretti — vogliamo soltanto iniziare a fare pulizia". A Coccaglio fino a giugno e per 36 anni ha governato la sinistra.
"È solo propaganda — dice l’ex sindaco Luigi Lotta, centrosinistra — Io ho lasciato un paese unito, senza problemi d’integrazione. L’unico caso di cronaca degli ultimi anni, un accoltellamento tra kosovari, nemmeno residenti da noi, c’è stato sotto la nuova amministrazione". L’idea di accostare la caccia agli irregolari al Natale, ha provocato le proteste di un pezzo di città, del mondo cattolico e del volontariato. "Io sono credente, ho frequentato il collegio dai Salesiani. Questa gente dov’era domenica scorsa? Io a Brescia dal Papa", replica Abiendi, che si definisce "tra i fondatore della Lega Nord, nel 1992". Poi enumera i risultati dell’operazione "Bianco Natale": "Dal 25 ottobre abbiamo fatto 150 ispezioni. Gli stranieri irregolari sono circa il 50 per cento dei controllati".
E ora al modello Coccaglio guardano anche i sindaci leghisti dei comuni vicini. Quelli di Castelcovati e Castrezzato hanno già copiato il provvedimento. Lo scorso 24 ottobre, alla prima convention di sindaci leghisti, a Milano, la "White Chistmas" ha avuto l’appoggio convinto dello stato maggiore del partito. "Il ministro Maroni è un uomo pratico — dice ora Claretti — ci ha dato dei consigli per attuare il provvedimento senza incorrere nei soliti ricorsi ai giudici". Solo sul nome, su quel riferimento al Natale, il sindaco accetta le critiche. "Forse è stato infelice, questo posso capirlo. Ma l’operazione scadrà proprio quel giorno lì. Ma alla fine cosa cambia? Magari potevamo chiamarla operazione 'Stella cometa'".

“Tratterete lo straniero che risiede fra voi come colui che è nato fra voi;
tu l’amerai come te stesso” (Levitico 19,33-34)

“Amate lo straniero perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto” (Deuteronomio 10,19)
“Non dimenticate l’ospitalità, perché alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli” (Lettera agli Ebrei 13,2)

living spaces


mercoledì 18 novembre 2009

ci somiglia?

Dal "Corriere della Sera" del 7 settembre 2009:
Bowie, il ragno - Una specie di ragno finora sconosciuta è stata dedicata a David Bowie. Forse in onore all'album «Ziggy Stardust and the Spiders from Mars», uno dei maggiori successi dell'artista britannico, lo scienziato tedesco Peter Jäger ha battezzato col nome di "Heteropoda Davidbowie" un finora sconosciuto ragno malese (nella foto). Lo scorso anno un simile onore era stato tributato a Neil Young: al cantautore canadese era toccato un ragno californiano chiamato "Myrmekiaphila Neilyoungi".

martedì 17 novembre 2009

adelante adelante (lettera a francesco)

Fra i 14 e i 17 anni ero innamorato di De Gregori: penso di aver ascoltato i suoi dischi fino a consumarli. Perlomeno fino a "Canzoni d'amore", del 1992.
Quel disco, onestamente, non mi piacque: lui era cambiato, o forse ero cambiato io, chissà. Cominciai a perderlo di vista, a interessarmi ad altro.
Adelante adelante, poi, non mi sembra nemmeno una canzone così riuscita (considerando che si tratta di De Gregori, of course); quella chitarra simil-Santana all'inizio, ad esempio, la trovo insopportabile. Però è di sicuro affilata, indignata, e ci sono almeno due versi che mi hanno colpito, quando l'ho riascoltata di recente e per puro caso .
Uno è quando parla dell'Italia come di un paese "senza più padri da ricordare / e senza figli da rispettare". Il richiamo ai padri potrebbe suonare persino "de destra", e invece non lo è affatto, specie in tempi come questi, in cui sembriamo aver dimenticato molte delle cose che i nostri padri e nonni hanno fatto (due per tutte: la Resistenza e l'emigrazione). Ma soprattutto mi colpisce il concetto di "rispettare i figli". Rispettare i figli, ossia rispettare il loro - e il nostro - futuro. Lasciare su questa Terra un segno positivo. Ho sentito dire che, per la prima volta da decenni, le nuove generazioni non hanno speranza di stare meglio dei loro padri, e anzi debbono aspettarsi un futuro molto più difficile. Ecco, in Italia ci vorrebbe un po' più di rispetto per il figli.
E poi quando parla del "companatico senza pane". Cioè del superfluo, spalmato sul nulla. Un'immagine amara, verissima, tragica, e oserei dire (se l'aggettivo non suona pomposo) profetica.
Insomma, Francesco, non ti seguo più, forse nemmeno mi piaci più, ma resti sempre un grande.
Con affetto, nonostante tutto.



http://www.youtube.com/watch?v=iuC-_NLGvhI

lunedì 16 novembre 2009

le dimensioni contano


Anche il più enorme dei telescopi deve avere all'estremità una lente non più grande di un occhio.
(Ludwig Wittgenstein)

domenica 15 novembre 2009

recensioni in pillole 44 - "La religione del mio tempo"

Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti 1976 (prima ed. 1961)

Le poesie che compongono "La religione del mio tempo" furono scritte tra il 1955 e il 1960. Sono anni cruciali per Pasolini: la pubblicazione di "Una vita violenta" (1958), le prime esperienze cinematografiche, l'impegno per la rivista "Officina" (insieme a Roversi, Leonetti, Fortini), il processo per oscenità contro "Ragazzi di vita", la scrittura dei saggi poi confluiti in "Passione e ideologia" (1960).
Ma soprattutto sono gli anni in cui prende forma quella "mutazione antropologica" che diventerà il leitmotiv della sua produzione successiva.
Il libro riflette tutto ciò: un libro denso, quindi, anche contraddittorio, ma singolarmente ricco di fermenti.
Il lungo poema “La ricchezza” (1955-59), insieme a quello eponimo, del 1957-59, suonano come un'approfondimento e insieme una rilettura (auto)critica de “Le ceneri di Gramsci”, un bilancio dei suoi anni romani e un'amara constatazione del fallimento di tutte le speranze che avevano animato la sua generazione nel dopoguerra (“il doloroso stupore / di sapere che tutta quella luce, / per cui vivemmo, fu soltanto un sogno / ingiustificato, inoggettivo, fonte / ora di solitarie, vergognose lacrime.”).
In “A un ragazzo” (1956-57), uno dei vertici lirici del libro, tornano le immagini struggenti del passato friulano e il ricordo del fratello Guido, partito per unirsi ai partigiani e morto il 7 febbraio 1945, nel famigerato eccidio di Porzus.
Gli affilati, irosi versi di “Umiliato e offeso” (1958) e di “Nuovi epigrammi” (1958-59) profilano già il Pasolini degli anni Sessanta, il polemista infuocato e apocalittico, che si rivela appieno nelle cinque “Poesie incivili” (luglio 1960) che chiudono il volume.
L'ultimo verso dell'ultima poesia termina con la parola “rabbia”, ma il senso che aleggia su tutto è quello della tragedia, della sconfitta, del vuoto. Il capitalismo ha trionfato, l'Eden contadino della giovinezza friulana è ormai scomparso, la Resistenza è già dimenticata, il proletariato innocente e pagano vagheggiato negli anni Cinquanta non si è dimostrato diverso dalla borghesia a cui avrebbe dovuto opporsi.
Il fallimento delle ideologie si incrocia e sovrappone al fallimento interiore, privato, e più volte si affaccia un senso di disfatta, un cupio dissolvi che la passione – politica e umana – fa sempre più fatica a combattere.

sabato 14 novembre 2009

recensioni in pillole 43 - "Sgt. Kirk. Rinnegato!"

Hugo Pratt / Héctor Oesterheld, Sgt. Kirk. Rinnegato!, Rizzoli/Lizard 2009 (192 pp., € 22)

Si dice sempre che il western revisionista comincia nel 1970, con “Soldato Blu”, “Piccolo grande uomo” e “Un uomo chiamato cavallo”. Beh, non è mica vero.
Ad esempio ci sono i fumetti: a parte il fatto che già nel 1950 lo sceneggiatore Gian Luigi Bonelli, il creatore di Tex Willer, aveva fatto sposare il suo personaggio con una donna indiana e aveva rappresentato gli indiani in una luce positiva del tutto inconsueta per l'epoca, c'è stato anche il “Sergente Kirk”, uscito in Argentina a partire dal 1953.
Ora viene ristampato, e questo è il primo volume di una collana che dovebbe comprenderne cinque, arrivando a contenere tutte le storie del personaggio.
I disegni sono di un Hugo Pratt appena venticinquenne, i testi del grandissimo Héctor Oesterheld, l'uomo che quattro anni dopo avrebbe firmato la sceneggiatura de “L'Eternauta”, uno dei capolavori del fumetto di ogni tempo e paese. Il protagonista è un sergente del Settimo Cavalleria che, sconvolto da un massacro di pellerossa innocenti, decide di disertare e si unisce all'immaginaria tribù dei Tchatoogas.
Kirk è, per certi versi, un eroe classico (forte, imbattibile con i pugni e la pistola, retto, onesto, idealista), ma per molti altri aspetti anticipa personaggi più moderni e tormentati. La scena che chiude il volume è emblematica: Kirk ha aiutato i suoi amici indiani a conquistare un fortino occupato da cattivissimi banditi, ma una volta entrato si accorge con raccapriccio di aver combattuto in realtà contro i suoi vecchi commilitoni del Settimo Cavalleria. Insomma, il personaggio si muove in un mondo nel quale il bene e il male non stanno mai da una parte sola; a volte sbaglia, spesso si pone interrogativi morali e non sempre sa risolverli.
Le storie sono bellissime e i disegni mostrano un Pratt ancora alla ricerca del suo stile (il segno, ricco di particolari e tratteggi, è ancora lontano da quello splendidamente sintetico della maturità), ma già capace di delineare i personaggi e gli ambienti con grande dinamismo e sottigliezza.
Un capolavoro da recuperare assolutamente.

venerdì 13 novembre 2009

i racconti dell'ispettore - madonne (2)

Io ho ripreso a illustrare: che comunque non si insediano solo in campagna, ma ce ne possono essere sui campanili, in mezzo alle rocce, nel cavo di un albero, e anche nei posti più strani, come dirò.
Tra di loro le madonne sono molto aggressive e difendono il territorio precipitandosi sulle intruse all'improvviso, da dietro le spalle. E sfoderano un becco che non ci si aspetta, e non si direbbe che l'hanno. E poi se l'altra non fugge dopo due o tre mosse di sfida, arrivano a far del baccano e a spennarsi a vicenda, in mezzo a un gran polverone spettacolare.
Invece con le altre razze, ad esempio con gli uomini, sono dolcissime, quasi contente che le si vada a trovare; e tengono infatti quel contegno serafico che tutti ricordano poi con grande piacere.
[...]
Come abitudini, comunque, dicevo al prefetto, la madonna non è chiaro che abitudini abbia, prima di tutto in campo alimentare. Ad esempio è difficile che ceni o che sia stata vista mangiare qualcosa, anche qualcosa di molto leggero. Quindi la sua alimentazione è veramente un mistero che ancora non si è potuto sciogliere.
[...]
Non dovrebbe comunque avere organi interni e viscere, ma è probabile che sia un tutto omogeneo, di materia leggera. E che a sezionarla, se uno ad esempio volesse, si troverebbe sempre la stessa sostanza io credo, spugnosa come un polmone, ma dappertutto, nelle braccia, nelle gambe, nel tronco, dentro la testa. E è senza ossa, quindi come un corpo di gomma, della durezza della gomma da cancellare.
Poi nessuno l'ha vista di dietro o di mezzo profilo. Arriva in genere sempre di faccia e rimane di faccia, perché questa dev'essere la sua prerogativa e non solo una sua abitudine. Si può dire che la madonna sia assolutamente intransigente sul verso che deve mostrare. E non sappiamo con sicurezza che cos'abbia di dietro. Qui si possono fare ipotesi per quanto si può verosimili.
Probabilmente la madonna di dietro ha la stessa soffa del vestito che si può vedere davanti.
Forse con una piega ampia e una certa ricchezza in vita, dalle scapole in giù. Perché nel davanti sembra che l'abito sia in genere tagliato a loden senza le spalle, senza imbottitura, e poi giù dritto, liscio fino alle caviglie.
Nessuno ha mai visto bottoni o alamari, e la stoffa a occhio e croce è pannetto leggero o un gabardin di cotone piuttosto floscio. Si tratta dunque senz'altro di una divisa, che varia di taglia e nei modelli da estate e da inverno, o forse ammette qualche fronzolo supplementare o qualche versione fastosa da parata o di rappresentanza.
Ad esempio veli di crespo con oro e argento trapunto; o scialli orlati di una frappina.
A Borgoforte ho voluto chiedere ancora, per esser sicuro; e lì una donna abbastanza vecchia di età dice che per lei la madonna è sempre inamidata e rigida, e non muove la bocca anche se parla. In questi casi credo si possa dire che se vuole la madonna è ventriloqua, e sta immobile e si sente la voce, perché fa come se fosse per natura una statua da chiesa.
Può darsi che ricorra all'amido, e non si può dare una spiegazione di questo, perché ci sia a volte l'amido e a volte no. Escludo sia legato all'orario o alla stagione dell'anno.

Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, Bollati Boringhieri 1987, pp. 130-133

giovedì 12 novembre 2009

Canzoniere brasiliano 4 – Uragano Elis

Elis Regina è uno dei motivi per cui quest’universo merita di esistere.
Bambina-prodigio, firmò il suo primo contratto a 13 anni e a 15 aveva già registrato un disco ed era diventata una celebrità nella sua città natale, Porto Alegre. Nei primi anni Sessanta si trasferì a Rio de Janeiro e cominciò a farsi notare nei locali di Beco das Garrafas, la strada di Copacabana dove si poteva ascoltare la miglior musica del Brasile. Il successo arrivò quasi immediato.
Per tutti gli anni Sessanta e Settanta Elis fu la musa di Antonio Carlos Jobim, Vinicius De Moraes, Edu Lôbo, Carlos Lyra, Baden Powell, e poi anche dei nuovi autori come Caetano Veloso, Gilberto Gil e Milton Nascimento. Come molti altri artisti brasiliani, criticò apertamente il regime militare che dominò il Brasile a partire dal 1964, e solo la sua enorme popolarità le risparmiò l’esilio, che toccò invece a Veloso, Gil, Buarque e molti altri.
Elis fu, per certi aspetti, quello che in Italia, negli stessi anni, era Mina...
(continua su Nazione Indiana)

che ne pensa il vecchio tom


http://www.youtube.com/watch?v=JeAP1KyPDzM

Tom Waits, "November"
da: The Black Rider (1993)

Niente ombre niente stelle
niente luna niente auto
novembre

Crede soltanto
in una pila di foglie morte
e una luna che ha il colore dell'osso

Niente preghiere per novembre
perché indugi ancora
tirate le cuoia
li sgozzeremo tutti

Novembre mi ha legato
a un vecchio albero morto
chiamate aprile per salvarmi

La fredda catena di novembre
fatta di stivali bagnati e di pioggia
e lucidi corvi neri su strade di fuliggine

Novembre è strano
tu sei il mio plotone d'esecuzione
novembre

Con i capelli tirati indietro
con gelatina andata a male
con il sangue di un fagiano
e l'osso di una lepre
legato alle corna di un capriolo maschio
lasciato a ondeggiare nel legname
come una bandiera impallinata

Andate via musi di pioggia
andate via bruciatevi il cervello
novembre

per carità, qualcuno dia una padellata in testa a quest'uomo

Corona: "Non mi pento di nulla. E se mi condannano scappo in Brasile"

Roma, 11 nov. (Adnkronos)
"Non mi pento di nulla, non chiedo scusa a nessuno. E credo che il processo non finirà bene. Finirà molto bene. Ma se mi condannano scappo in Brasile. Perdere Belen sarebbe una perdita immensa. Lei e Carlos sono gli unici sorrisi in una vita fatta di m… e di lavoro". In un'intervista al settimanale 'Oggi', in edicola oggi, Fabrizio Corona annuncia la sua intenzione di non rispettare le conseguenze penali di un'eventuale condanna (al processo in primo grado, in corso a Milano, il pm ha chiesto 7 anni e 2 mesi di reclusione).
A 'Oggi', Corona confida anche quella che per lui è più che una speranza: entrare nel cast del prossimo film di 007. "I produttori mi hanno visto in Videocracy (il documentario di Erik Gandini sulle miserie della Tv italiana, ndr) ho fatto una grande impressione, dicono che sono un attore nato. Mi hanno spedito la sceneggiatura e un coach con cui mi alleno due ore al giorno - racconta -. Siamo agli ultimi provini, ce la farò. Interpreterò uno dei cattivi. E' una parte vera, con tante 'pose', mica le comparsate che hanno fatto la Cucinotta e la Murino". E alla domanda se ha già provato a piazzare Belen come Bond Girl, Corona risponde: "La porto a tutte le cene coi produttori: non possono non rimanerne colpiti. Però la carriera se la sta fabbricando da sola. E benone, direi".
Poi punzecchia l'ex della sua fidanzata: "In settimana firmo e divento presidente della Sangiustese, squadra marchigiana di C2, i tifosi sono già in delirio. E sa quale sarà il mio primo colpo di mercato? Compro Borriello".

mercoledì 11 novembre 2009

amarcord musicale 5 - "Mira Mare"

“Miramare 19.4.89” è uno dei dischi più sottovalutati di De Gregori.
Ora, sono d'accordo che non è “Rimmel” né “Bufalo Bill” né “Terra di nessuno”, però io ci sono affezionato, se non altro perché è stato il primo disco suo che ho comprato. L'avevo scoperto da poco, ascoltando Alice su una compilation, ed era stato un colpo di fulmine.
Di “Mira Mare” si può dir male, senza dubbio: è un album un po' di transizione tra il De Gregori degli anni '80 e quello degli ultimi tempi; i testi sono della solita qualità, ma le musiche non sempre reggono, e soprattutto gli arrangiamenti sono spesso patinati, dolciastri, e non hanno resistito molto all'usura del tempo.
Però qualche perla c'è. L'iniziale Bambini venite parvulos, ad esempio, è una cupa profezia sui tempi che verranno, con il futuro che è un arrotino sorridente, con “i professori dell'altroieri” che “stanno affrettandosi a cambiare altare / hanno indossato le nuove maschere e ricominciano a respirare” (notare che il disco uscì nell'aprile 1989, quindi il Muro di Berlino non era ancora caduto), e soprattutto con quattro versi di lucidità acuminata, vero ritratto anticipato del decennio a venire:
Legalizzare la mafia sarà la regola del Duemila
Sarà il carisma di Mastro Lindo a regolare la fila
E non dovremo vedere niente che non abbiamo veduto già
Qualsiasi tipo di fallimento ha bisogno della sua claque.

Dottor Doberman è il ritratto cattivissimo di un medico che si è arricchito con “quelle cose che ti secca fare in pubblico / ma che ti rendono bene in privato” (aborti clandestini, probabilmente) e che ora vive in una villa in collina, “sei milioni a metro quadro”, con la moglie che “sembra proprio una regina / però è la moglie di un ladro”.
C'è la dylaniana Cose, visionario catalogo di immagini apocalittiche. C'è Vento dal nulla, uno dei pochi sprazzi di delicatezza e di poesia in un disco oscuro, depressivo.
Ma quella che mi colpì di più, all'epoca, fu 300.000.000 di topi, amaro ritratto di una Roma invasa da (reali o metaforici) ratti di fogna. Mi colpivano quelle “ragazze dalle guance di pesca”, quei topi tranquilli sotto il sole di via Frattina, quegli occhi usati come esca dai pescatori.
Insomma, un consiglio: se conoscete il disco, dategli un'altra chance. Se non lo conoscete, ascoltatelo.


http://www.youtube.com/watch?v=SXy7dGVP9g4

Ci sono topi tutti in giro, topi tutti intorno,
topi mattina e sera, topi mattina e giorno.
Sudici topi lucidi giocano a nascondino,
fanno tana nel tronco degli alberi dentro al nostro giardino.
Ci sono topi sui tuoi capelli,
dei lunghi topi chiari, topi sui tuoi capelli.

Ed io ti ho veduto salire sopra un altare
e dire una messa da topi e per i topi pregare,
e cucire ho veduto vestiti da sposa per nozze di piombo,
e topi gridare e ballare sulla cima del mondo.

Ci sono topi tutti intorno, topi in Via Frattina,
traversavano la strada tranquillamente alle undici di mattina.
Sterminate distese di topi refrattarie ad ogni sterminio
sorridevano dalle finestre tutte d'oro e d'alluminio.
Erano i topi del magro cuore,
seduti ad aspettare il nostro magro cuore.

Così ti ho veduto dividere e moltiplicare
con trecento milioni di topi da calcolare
e trascorrere ho visto fanciulle con le guance di pesca
e pescatori pescare, usare occhi per esca.

martedì 10 novembre 2009

i racconti dell'ispettore - madonne (1)

Ma bisogna sapere che la madonna probabilmente non è una. Che ce ne sia solo una, dotata di ubiquità, come dicono, o di simili acrobazie, e che a essere avvistata sia sempre la stessa, è un'illusione.
E deriva l'illusione da un equivoco della grammatica, perché si intende come nome proprio di persona, il suo nome, che invece è un normale nome comune.
“Curiosa questa faccenda, – dice il prefetto – come è possibile?”
Accade lo stesso, gli spiego, parlando ad esempio dei negri o dei giapponesi, o di qualunque popolazione. Noi diciamo “madonna”, come diremo “l'asiatico” o “l'esquimese”, per parlare di un tipo e dei suoi tratti che sia più spiccati. Diciamo: il giapponese non ha barba né baffi; oppure: il negro ha gli occhi gialli. Allo stesso modo si dice ad esempio: la madonna è chiara di pelle, la madonna non perde le staffe; oppure: la madonna pesa un tot, è di media statura, superiore che so io al pigmeo.
Tutto ciò dunque significa che la madonna è una razza, molto caratterizzata somaticamente, tanto che confondiamo la varietà dei tipi e le sagome individuali.
Il prefetto era rimasto di stucco, e più che incredulo sembrava che gli avessi rivelato qualcosa di inaspettato.
Diceva: “Ma questa è una rivoluzione!”, e mi guardava perché glielo confermassi. Si capiva anche che doveva sentire qualcosa come un sollievo benefico:
“Ci sarebbe da ridere – dice – se si pensa a tutto quello che han detto a dottrina. Ma è sicuro?”
“Ci sono i testimoni; e non ho fatto altro che metterli insieme. E glielo riporto adesso anche in modo scientifico.”
Poi gli ho illustrato il resto della questione come io la vedevo. Sembra cioè che questa popolazione non sia numerosissima; forse alcune migliaia di esemplari che vivono sparsi e isolati l'uno dall'altro. E non si conoscono forme di aggregazione, perché stando sempre alle testimonianze, si incontrano solo madonne singole, mai capannelli o piccole comunità, e neanche due o tre madonne riunite.
Probabilmente hanno dei sensori acustici e olfattivi che avvertono l'approssimarsi di un loro simile, entro un raggio di vari chilometri, in modo da restare sparse e distanti, e presentarsi sempre singolarmente a chi passa per la loro regione; che è suddivisa quindi in regni monarchici, secondo il diritto romano.
Le cose in genere vanno così: uno cammina e si sente più strano del solito, si sente prossimo a una rivelazione. Vuol dire, questo, che è in zona, cioè è entrato nel territorio di una madonna, che ha dei confini ben rimarcati.
E quando torna sul posto ha la stessa impressione tutte le volte, finché se la vede davante e resta di sasso a guardarla. Poi ci fa l'abitudine, essendo una razza stanziale; e entra quasi anche in confidenza.
In campagna capita ad esempio che uno sappia che in un certo posto si è come attecchita un madonna, perché mentre era lì che falciava se l'è vista spuntare davanti e restare fissa a guardarlo.
E allora se costui ci deve di nuovo passare con il trattore, all'inizio magari ha un po' di ritegno a fare molto rumore, e tiene il diesel al minimo quando le passa di fronte.
E se un suo collega contadino gli chiede: “Ma cosa fa?”, lui si vergona a dire la verità, perché in campagna gli uomini tendono a essere irrispettori e spicci di modi, per mantenersi una buona considerazione.
E allora quello che ha visto che c'è la madonna sulla forcella ad esempio di un albero, dice per giustificazione, che si surriscalda il motore e non vuole sforzarlo.

Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici,
Bollati Boringhieri 1987, pp. 126-128

lunedì 9 novembre 2009

amarcord musicale 4 - un'estate al mare

Non ho mai amato particolarmente Battiato, ma una cosa gli va riconosciuta: ha (o almeno, aveva) la capacità di scrivere pezzi che suonano come canzonette senza esserlo affatto.
Un esempio è Un'estate al mare, che io per anni ho considerato una delle tante canzonette estive, prima di rendermi conto che parlava di prostitute che bivaccano sull'autostrada bruciando copertoni e offrendosi a chiunque passa. L'estate al mare del titolo è un sogno, un'evasione fantastica, grottesca nella sua spensieratezza pop (e infatti il ritornello, gaio e solare, contrasta acutamente con la cupezza delle strofe).
Presumo che di questa ambiguità, come me, non se ne saranno accorti in tanti, tant'è vero che la canzone diventò un tormentone estivo.
Tanto per curiosità, pare che nella versione originale le "fantastiche illusioni" fossero delle (più realistiche) "fantastiche erezioni".


http://www.youtube.com/watch?v=7o7aJEu-3xo


Un'estate al mare (1982)
testo di Franco Battiato, musica di Giustino Pio

Per le strade mercenarie del sesso
Che procurano fantastiche illusioni
Senti la mia pelle com'è vellutata
Ti farà cadere in tentazioni

Per regalo voglio un harmonizer
Con quel trucco che mi sdoppia la voce
Quest'estate ce ne andremo al mare
Per le vacanze

Un'estate al mare
Voglia di remare
Fare il bagno al largo
Per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni
Un'estate al mare
Stile balneare
Con il salvagente per paura di affogare

Sopra i ponti delle autostrade
C'è qualcuno fermo che ci saluta
Senti questa pelle com'è profumata
Mi ricorda l'olio di Tahiti

Nelle sere quando c'era freddo
Si bruciavano le gomme di automobili
Quest'estate voglio divertirmi
Per le vacanze

Un'estate al mare
Voglia di remare
Fare il bagno al largo
Per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni
Un'estate al mare
Stile balneare
Con il salvagente per paura di affogare

Quest'estate ce ne andremo al mare
Con la voglia pazza di remare
Fare un po’ di bagni al largo
Per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni

Un'estate al mare
Stile balneare
Toglimi il bikini...

domenica 8 novembre 2009

i racconti del prefetto 3 - alla fine si mangia?

Il prefetto allora alza un dito, per fare capire che ha un'intuizione, e dice:
"Ha detto un'orda di mongoli? Ma lo sa che ha detto una cosa di storia giustissima? Perché la storia dei mongoli non è come si crede.
I mongoli sono arrivati da noi e non si sono fermati al mar Nero. Ma sono arrivati in un modo particolarissimo, che non lo insegnano a scuola.
Per traversare il mare e essere più numerosi, hanno mandato i più piccoli, che si sono sparsi in Europa a ondate. E a ogni ondata eran sempre più bassi, ma eran milioni.
E dicevano che a loro non importava il comando, perché è troppo impegnativo; loro volevano solo che li si mantenesse e non avrebbero interferito nella politica. Anzi, si sarebbero accontentati di abitare in cantina. E dato che lì c'è umido e freddo, portano per abitudine una pelliccia di pelo di topo, con il cappuccio, in modo da essere coperti completamente. E sono irriconoscibili, anche se i baffi caratteristici li tengono fuori. A vederli addirittura si pensa che siano topi di quelli più grossi; ma li si riconosce guardandoli in faccia, per l'occhio a mandorla e l'espressione maligna; e per il fatto che non hanno paura, ma si fermano in piedi, fiutano l'aria, per sentire se c'è del salame in giro, o del formaggio. Che sono le loro pretese.
E quando hanno più fame se lo vengono a prendere dalla pattumiera in cucina; così può capitare, se c'è carestia, che infestino un intero palazzo; e li si vede allora far capolino da tutti i buchi e passare a frotte.
Ma per il resto non gli importa di nulla, non gli importa il governo che c'è, se c'è repubblica o monarchia, o se c'è la costituzione. E non gl'importano le discussioni che fanno i partiti: le stanno a sentire, delle volte, per vedere se alla fine si mangia o se è tutta aria fritta.
Quindi anche loro, in proprio, non hanno nessuna opinione, e campano con tutti gli avanzi. Ma son velocissimi a prenderli. Appena cade qualcosa se lo sono già mangiato."
E questa spiegazione chiarificatrice è arrivata come caduta dal cielo.

Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici,
Bollati Boringhieri 1987, pp. 123-124

sabato 7 novembre 2009

i racconti del prefetto 2 - il regno minerale

«Gli Aztechi - diceva il prefetto - sono rimasti nella foresta centinaia di anni, e nessuno sapeva che c'erano. Così son diventati fiorenti, tanto che dove prima c'era solo acquitrino e boscaglia, hanno fatto crescere le loro città.
Prendevano una montagna e ne facevan mattoni, calce, pietre da costruzione, metalli; e hanno alzato piramidi immense, templi, muraglie, case che resistessero al tempo, palazzi fastosi. E usavano l'oro e le gemme come da noi si usa la latta e i cocci di vetro. L'argento poi lo impegavano nelle grondaie, nelle inferriate, nei catenacci; i chiodi li facevan di platino, e i bottoni dei loro vestiti di agata e di ametista; e se gliene avanzava li ributtavano in mezzo alla ghiaia.
Quando gli spagnoli li hanno scoperti, c'è stata tanta pubblicità che le navi facevan la fila per andarli a depredare. Così loro hanno perduto tutto quello che avevano; e quelli rimasti si sono ritirati nel fitto del nosco. Hanno continuato a avere città, ma hanno dovuto cambiare lo stile dell'architettura, per non dare nell'occhio e attirare di nuovo la bramosia degli spagnoli.
Prima di tutto non tagliano gli alberi, come facevano per dare spazio alle piazze e alle strade. Ma dicono: qui ci sarebbe una piazza grandissima, ma è coperta di bosco per non farla vedere; qui c'è la via sacra, ma è camuffata dale piante selvatiche se no ci vengono ancora a saccheggiare.
E le piramidi non le fanno più lisce e squadrate, con i gradini ad angoli retti; ma sono coperte da muschio, da rampicanti, e la pietra non è lavorata in cubi regolari da cotruzione, ma l'han lasciata come si trova in natura, tutta scagliosa e accidentata, altrimenti chiunque li può individuare, anche da molto distante.
Anzi, la pietra non l'hanno neanche staccata, e dicono: "questa è la roccia per far le piramidi, la roccia migliore, ma è meglio lasciarla così, dove si trova, non levigata, se no arrivano i predatori." E dunque per loro le montagne di marmo sono città non costruite. Ci girano attorno e dicono: "bellissimo, qui c'è un'architrave non ancora scolpita, ma sarebbe superba; qui c'è un gigantesco obelisco di tufo, ma non è ancora staccato e drizzato; e è meglio."
"Qui c'è palazzo imperiale"; e ammirano i picchi di roccia e le pareti intatte di una montagna. "Ecco il granito della fortezza, - dicono - il porfido del colonnato; i basalti, le arenarie, le tormaline per i colori delle facciate; ecco le volte magnifiche delle sale e le cornici bianche di selenite."
Poi camminano ad esempio nel greto sassoso di un fiume e dicono che quello è in sostanza un pavimento selciato; lo si dovrebbe solo spianare e cementare. Ma è meglio non farlo, perché correrebbero i curiosi e gli spagnoli a frotte.
Quindi gli Aztechi non sono scomparsi, ma si sono intanati.
Hanno sempre una grande paura degli spagnoli che possan tornare. E allora per mimetizzarsi non abitano più il vecchio regno, che è stato lasciato andare in rovina; ma ormai è nel regno minerale che stanno, dove le città son sotto terra, nella forma più celata possibile, cioè allo stato di roccia.
E il loro sistema edilizio è di lasciare tutto com'è, adottato dopo l'arrivo degli spagnoli.
Loro tastano i marmi, ne riconoscono le qualità, la resistenza, la luce che danno, e vedono la città già finita. Aggirandosi in mezzo ai dirupi ne discutono, si dicono l'uno con l'altro i progetti più fantasiosi, e li variano continuamente, a seconda dell'umore, dell'umidità o del calore della giornata. E anche se non arrivano a farlo, per la prudenza che ormai hanno istintiva, edificano torri, quartieri, grandi acquedotti, baluardi, ponti, bagni pubblici, osservatori celesti, e poi secondo l'estro di ognuno, statue, bassorilievi, fontane.
In un certo senso la loro civilà è più fiorente che mai, perché la materia, dicono, a loro non può più resistere. Prendono un sasso e guardandolo per delle ore in tutte le venature lo cesellano come un merletto, ne fanno un gioiello finissimo, una capigliatura svolazzante di ninfa in cui si distingue ogni nastro, ogni capello. Poi lo buttano via questo sasso, e ne cercano un altro, per vedere le bellezze che ci sarebbero potute essere dentro.
E non solo: dalle sorgentidi roccia guardano sgorgare lo stagno e l'alluminio, e affiorare le vene rosse di rame. Possiedono immensi tesori sepolti nelle miniere: oro nascosto nelle piriti; smeraldi e acquemarine incrostati dentro al berillio; e giacimenti di quarzo, rubino, turchesi.
Ma non se li mettono addosso; ora sono vestiti da poveri indiani di cotone leggero, e se ne stanno tra i monti e le sierre. Così queste loro nuove città nessuno può visitarle, anche se son sotto gli occhi di tutti; mentre le vecchie, che si vedono bene, sono rimaste deserte.
E non hanno smesso le loro scritture. Dicono anzi che dappertutto c'è scritto; che loro leggono i fogli di roccia quando si sfalda, come un libro stampato: c'è scritta la storia del passare del tempo, e le lettere sono come depositate dal corso dei fiumi, delle alluvioni, dalle lave dei grandi vulcani, dai millenni di vita dell foreste, dei deserti, dei mari. Loro dicon che è la cronaca di tutto quel che succede, e che tutto c'è scritto, anche se per chi non se ne intende non sembra scrittura. Ma a loro va proprio bene così.
Dicono: "Qui c'è vissuto un mollusco e c'è morto; è scritto con un disegno a spirale. Qui c'è stato un campo di felci; è detto in un sasso con una figura."»
«Ah, sono i fossili, è vero?», m'è venuto da dire.
«Sì, ma gli Atzechi dicono che è la terra che scrive così, e ormai è anche il loro alfabeto».
E il risultato dell'avidità degli spagnoli, voleva in conclusione dire il prefetto, e della loro invadenza, è stato quello di renderli impercettibili; cosicché ormai è come se non ci fossero più, è come averli perduti.

Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici,
Bollati Boringhieri 1987, pp. 116-118

venerdì 6 novembre 2009

i racconti del prefetto 1 - macedonia

“Lo dicono i libri di storia; che per seguir[e] [Alessandro Magno] in oriente e arrivare dove finisce la terra, i macedoni hanno marciato per tanti anni che non si può saper quanti. E han traversato tutti i popoli immaginabili, le montagne e i deserti; ogni tanto facendo la guerra e ogni tanto fermandosi a riposare in mezzo a genti sconosciute dai costumi inverosimili. E andavano sempre di più verso levante.
Io credo anche che sposassero ogni tanto le donne che incontravano lungo la strada; e senza volere imparavano le frasi del luogo, per poter chiacchierare di notte e capire i discorsi d'amore.
Finché dovevano partire di nuovo.
E Alessandro, anche lui, prendeva le figlie dei re, e per non esser scortese si faceva insegnare le buone maniere e si faceva vestire secondo l'eleganza locale.
Così, per imitazione, assumevano i modi e le fogge di ogni popolo che traversavano.
Ad esempio vedendo gli Armeni qualcuno già si era disfatto dell'elmo, che in quei climi fa bollire la testa, e portava un turbante. Qualche altro preferiva una rete di vimini allo scudo di bronzo. Alcuni, invece del giavellotto, avevano un falco o un grifone sopra una spalla, e altri come corazza portavano squame di pesce, altri della corteccia o le foglie di dattero; altri si coprivano di fango seccato.
Mangiavano le salamandre come i Cimmeri, le formiche, le scimmie; e un formaggio di latte munto da una specie di pino. Usava così tra i Sauromati. Non parliamo poi dei vestiti: chi si vestiva di cuoio, chi di tela, chi di pelli di chinghiale o leopardo; e portavano drappi di seta, anelli, anellini, o la testa rasata; pantofole, sari, mazze ferrate, piume di ibis e fenicotteri a colori sgargianti. E alcuni si pitturavano con la radice del betel, altri avevano tutta la pelle arabescata.
Quando il ghibli gli spazzava la testa, qualcuno si chiudeva in un palanchino caricato su un bue.
Ormai erano in pochi a cavalcare i cavalli, e invece, come avevan veduto, montavano struzzi, elefanti, antilopi, zebre, caproni, cammelli; e qualcuno che aveva catturato uno schiavo dell'Arabia felice o un etiope, che sono famosi per correr fortissimo, gli aveva messo una specie di sella e lo spingeva al galoppo a tutta furia, a suon di frustate.
Così ogni battaglia era un pandemonio incredibile; e continuavano a vincere perché i nemici non ne capivano la strategia militare: se avessero avuto di fronte la famosa falange, forse l'avrebbero anche affrontata, ma così, dicevano, non era più una battaglia leale, era una buffonata. E abbandonavano il campo dopo averli riempiti d'insulti. Cosicché i macedoni non hanno trovato più ostacoli, e avanzavano.
Ma era sempre peggio, e Alessandro non voleva tornare.
Così a poco a poco hanno anche smesso di capirsi tra loro, perché non riuscivano più a fare un discorso filato e ci mettevano dentro di tutto: le sillabe tronche dei Massageti, la cantilena degli Alizoni, le parole di ogni città in cui s'eran fermati, mischiate.
Quando sono arrivati a Lahore sembravano dei balbuzienti, e per parlare ci pensavano tanto che alla fine rimanevano muti. Avevano visto tutti i paesei, ma ormai non gli serviva più a niente perché non sapevano più come dirlo.
La gente correva a guardarli passare, e i bambini restavano impressionati.
Appena partiti per la spedizione, la loro forza era la disciplina, e s'intendevano perfettamente. Alla fine era una carovana di scervellati senza patria né legge”.
Il prefetto qui si è interrotto, allora gli dico:
“Ecco, sì, è proprio la stessa cosa. È la questione di essere apolidi che fa far la figura di esser dementi.”
“Sì, – dice lui – i macedoni avrebbero potuto fare un impero, ma nessuno li prendeva sul serio.”
“Come i bilingui che dico io.”
E il prefetto:
“Nessuno ha più pensato di sfidarli a battaglia, anzi, ogni città li invitava ad esntrare, perché facessero un po' di spettacolo. E dopo che Alessandro è morto in una di quelle regioni lontane, hanno percorso in lungo e in largo l'India e l'Assam, facendo salti mortali in groppa agli struzzi e esercizi pericolosissimi sulle zanne degli elefanti. Ma erano considerati incoscienti.”
“E come è finita?”
“Beh, col passare del tempo uno a uno morivano; però prendevano sempre altri animali; ormai cavalcavano orsi, ippopotami, pecore, e dicono che perfino avevano tentato di metter le redini a un grosso pitone e di farsi portare. Coi coccodrilli c'eran riusciti e ci galoppavano sopra anche in tre. Del resto per essere comodi avevano sistemato sui cammelli divani dai piedi d'argento, e sugli elefanti torri a due piani e palmizi per essere all'ombra.
Alla fine poi si sono estinti, lasciando dei discendenti che hanno formato una casta di domatori.”

Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici,
Bollati Boringhieri 1987, pp. 97-99

giovedì 5 novembre 2009

"nessuno parlerà mai"


“Così mi hanno pestato”. La denuncia: agenti come belve
di Francesca Pilla, da "il manifesto", 1 novembre 2009

«Le prime botte le prendi all'ufficio matricola e poi continua così. Ti picchiano con manganelli o a mani nude, quando entri in carcere capisci che non vali niente, che non hai diritti. È come una giungla. Devi subito accettare le regole altrimenti sei morto, non intendo fisicamente, anche se può capitare». S.F. è un trentacinquenne, ex dipendente di una nota azienda italiana (ora aspetta il reintegro), è entrato a nell'istituto di pena di Poggioreale a Napoli per motivi analoghi a quelli di Stefano Cucchi, lo scorso maggio, e ne è uscito dopo una settimana sulle sue gambe. Ma poteva anche non andare così.

Chi ti ha picchiato?
Le guardie carcerarie, chiamati assistenti, ma credetemi sono delle belve. Qualcuno più umano c'è ma nel nostro padiglione, il Firenze, che insieme all'Avellino raccoglie chi arriva per la prima volta in carcere, sono i peggiori.

Perché?
Perché in questi settori non ci sono i detenuti di lungo corso o i camorristi, ma persone che non sono mai state in galera. E le guardie si sfogano, senza paura, perché dicono che noi siamo pesc' e cannuccia', insomma gente che non conta niente. Non mischiano le matricole con i recidivi. Lo capisci subito appena entri, e se non lo capisci te lo dicono gli altri al passeggio: «Qui si pigliano 'e mazzat'».

Quando te le hanno suonate per la prima volta?
Al reparto matricole. Mi avevano preso le impronte digitali, poi uno mi ha fissato negli occhi e mi ha dato uno schiaffo: «Che guardi a fare?», mi ha detto. Allora ho tenuto lo sguardo basso tutto il tempo, mentre restavo in mutande o facevo le flessioni. Sono stato ad aspettare credo per almeno due ore con gli altri nuovi detenuti, ogni minuto sentivi il rumore di un "pacchero", o le urla di qualcuno.

Una volta in cella è andata meglio?
Almeno parli con qualcuno che ti dà indicazioni, ti spiega chi è il più nervoso tra i secondini, ti dicono di non farti trovare in pantaloncini quando c'è tizio, di non chiedere nulla a caio. Ma soprattutto ti mettono in guardia per la conta, che si fa mattina, pomeriggio e sera. Devi sempre tenere le mani dietro la schiena e lo sguardo basso, se alzi la testa le prendi di santa ragione. Non lo fanno subito, aspettano la notte, entrano e ti bastonano nella branda.

A te è capitato?
No, però dopo un giorno che stavo lì, eravamo otto in una cella, due miei compagni giocavano con dei cartoncini che avevano disegnato a mano, perché è vietato avere le carte. Un secondino li prese e li portò via, tornarono con la schiena tumefatta e le mani gonfie. Ci dissero che avevano preso manganellate ovunque, ma che gli avevano messo le coperte sui polsi per non lasciare segni.

Poi cosa è successo?
La sera arrivò una guardia e ci disse che il secondino dalla torretta aveva visto qualcuno nella stanza affacciato alla finestra. Presero G. e lo portarono via. Poi vennero a prenderci tutti e ci dissero: «Non vuole confessare, ora v'accirimm', sti figli 're cas' popolari». Ci condussero nei sotterranei, in quello che i detenuti chiamano reparto Dx, non lo so perché ma ha questo nome. Qui erano in quattro, tutti incappucciati, che iniziarono a prenderci a manganellate, schiaffi e calci.

Cosa pensavi in quel momento?
Che non la smettevano più. Avevo paura che non sarei uscito più perché quella punizione sarebbe stata annotata da qualche parte. In realtà loro non dicono niente a nessuno, ti picchiano e basta.

È una cosa normale?
Io sono stato lì una settimana e mi è capitato quattro volte. Ma ho capito che era un'abitudine quando nella cella di fronte alla nostra c'era una persona stesa nel letto che non partecipava alla conta. Era cardiopatico e non stava bene. Invece di portarlo al pronto soccorso per tre giorni lo hanno colpito nella brandina, lui respirava a fatica, noi non potevamo fare niente. Una sera è stata chiamata una dottoressa, erano le 11, non lo dimenticherò più. Lei disse: «Sta bene, sta fingendo». La mattina dopo era morto. Così hanno cambiato alcuni secondini e abbiamo avuto un attimo di respiro. Poi sono uscito.

Secondo la tua esperienza Stefano Cucchi può essere morto per le botte prese?
Assolutamente sì. Io sono alto un metro e 90 e peso 98 chili, se un ragazzo magro e più fragile avesse preso le bastonate che mi hanno dato, minimo si sarebbe spezzato le costole. Per questo quando ci facevano scendere tutti insieme i più grossi cercavano di coprire quelli più piccoli.

Perché non hai denunciato quello che ti è accaduto?
Secondo voi avrei trovato qualcuno disposto a testimoniare con me? E se anche l'avessi trovato è la parola di ex-detenuti contro lo stato. Nessuno parlerà mai.

(da Micromega del 2 novembre 2009)

recensioni in pillole 42 - "Il poema dei lunatici"

Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici, Bollati Boringhieri 1987 (299 pp.)

Ci sono, nella nostra letteratura, delle linee sotterranee.
Una è quella padana, che comprende autori nati lungo il corso del Po o nelle immediate vicinanze: Cesare Zavattini, Tonino Guerra, Corrado Govoni, Giovanni Guareschi, Antonio Delfini, Arturo Loria, Luigi Malerba, Gianni Celati, e si può arrivare tranquillamente fino a Stefano Benni o Pier Vittorio Tondelli, o includere Fellini, o i numerosi spunti gotico-orrorifici presenti nel cinema di Pupi Avati, o la pittura di Antonio Ligabue, o certe eterodosse esplorazioni storico-antropologiche di Piero Camporesi.
Elemento comune è una tendenza alla levitazione fantastica, una vena di follia che può assumere di volta in volta toni comici, o lunari, o surreali, o grotteschi, o magici. (Volendo, ci sarebbero anche due padri storici: Boiardo e Ariosto). Ermanno Cavazzoni, nato a Reggio Emilia nel 1947, si inserisce in pieno in questa linea.
Tutti i personaggi di questo libro sono, in un modo o nell'altro, “lunatici”. A partire, ovviamente, dalla coppia di protagonisti: l'io narrante, il candido Savini (ma non è il suo vero nome) e il paranoico prefetto Gonnella. Savini è impegnato in una sua personale ricognizione della Bassa Padana. Ascolta le voci dei pozzi, studia gli sfuggenti abitatori dei tubi dell'acqua, ragiona sulle strane abitudini delle madonne. Gonnella è in pensione, ma è convinto che in realtà gli sia stata assegnata dal ministero una missione segreta, anzi segretissima, talmente segreta che lui stesso non ne conosce con precisione tutti i dettagli, ma di certo la conoscono i suoi nemici, che gli mettono alle costole schiere di diabolici vecchi.
Savini e Gonnella sono due picari stralunati, e il loro sguardo sghembo distorce il mondo in una continua, ilare e insieme inquietante allucinazione.
Il romanzo non è altro che il resoconto delle loro esplorazioni. Di qui prese (liberamente) spunto Federico Fellini per il suo ultimo film, “La voce della luna” (1990), protagonisti Roberto Benigni e Paolo Villaggio.

(Per chi fosse interessato, “Il poema dei lunatici” è stato ripubblicato nel 1996 da Feltrinelli e nel 2008 da Guanda, con la copertina riprodotta in alto a sinistra).

mercoledì 4 novembre 2009

in memoriam


"Barbaro è chi crede nella barbarie."

Claude Lévi-Strauss
(28 novembre 1908 - 30 ottobre 2009)

recensioni in pillole 41 - "Musica dentro"

Paolo Fresu, Musica dentro, Feltrinelli 2009 (185 pp., 14 €)

Uno dei capitoli più interessanti del recente libro di Claudio Sessa “Le età del jazz. I contemporanei” è quello sul jazz italiano. Sessa vi sostiene che i risultati migliori il jazz italiano li ha ottenuti negli anni '70 e soprattutto negli anni '80, quando furono prodotte le opere più interessanti e originali. Il prestigio e la fortuna degli ultimi 10-15 anni - nei quali i nostri jazzisti si sono guadagnati una posizione di indubbio privilegio in Europa, se non nel mondo - non sarebbero altro che l'onda lunga di quegli anni pionieristici, priva però di buona parte del mordente e dell'incisività.
Tra i protagonisti di quel periodo eroico c'è senz'altro Paolo Fresu, il quale, pur non avendo ancora compiuto i 50 anni, può vantare una carriera ormai quasi trentennale, iniziata nei primissimi anni '80. Il trombettista si era già raccontato a Enzo Gravante per "La Sardegna, il jazz" (Condaghes 2004) e a Luigi Onori in “Talkabout” (Stampa Alternativa 2007); ora sceglie di farlo in prima persona con questo “Musica dentro”.
“Una storia normale”, la definisce Fresu con il suo abituale understatement. In realtà è la storia di un ragazzo, figlio di pastori, cresciuto a Berchidda, paesino di tremila anime sperduto nel cuore della Sardegna, e arrivato ad essere uno dei più bravi, osannati e impegnati trombettisti jazz europei, leader di una dozzina di gruppi diversi, costantemente in viaggio, di casa in Francia come in Italia, con all'attivo una discografia imponente e una serie infinita di premi, riconoscimenti e collaborazioni illustri.
Il libro racconta l'infanzia contadina, la scoperta della musica nella banda del paese, l'amore per il jazz, i primi viaggi in continente all'inseguimento dei grandi maestri, i tanti incontri umani e musicali che hanno scandito le tappe della sua carriera. Lo fa in modo semplice, diretto, senza pose o divismi di sorta. La figura che emerge è quella di un uomo di grande intelligenza e apertura, e allo stesso tempo di un sardo profondamente legato alla sua terra (da più di vent'anni dirige a Berchidda “Time in Jazz”, uno dei festival più creativi dell'affollata scena estiva italiana).
Il racconto biografico si alterna a riflessioni sulla musica: l'importanza del suono, la fondamentale esperienza didattica (Fresu è anche fondatore e direttore dei corsi di jazz che si tengono ogni anno a Nuoro), fino a un capitolo – tra i più interessanti del libro – sul rapporto tra jazz e musiche etniche, in cui Fresu, con garbo ma anche con fermezza, stigmatizza la superficialità di tante operazioni di “contaminazione” più o meno modaiole.

martedì 3 novembre 2009

i racconti dell'età del jazz - "Le mani di Thelonious"

Sono quasi vent’anni che mi interesso di jazz, e ne ho sentite tante.
Ho sentito dire che il jazz è musica per intellettuali, che è complicato, incomprensibile, o nel migliore dei casi che è fico, cool, “un sacco yeah”, come diceva un mio amico.
Però spesso sfugge un particolare: che il jazz è musica di origine africana, quindi è musica che parte dal corpo e deve arrivare al corpo, deve farti muovere, farti battere il piede. Altrimenti è tutto inutile.
Prendiamo Thelonious Monk, per esempio: si è sempre detto che la sua musica è criptica, oscura, idiosincratica, cerebrale, e così via. Però si dimentica che spesso Monk, durante i concerti, si alzava e ballava. Sì, ballava, muovendosi come un grosso orso nero su e giù per il palcoscenico. Forse, a conti fatti, quella musica non era poi così cerebrale.

(...continua su "La poesia e lo spirito")

lunedì 2 novembre 2009

il ruggito del blogger


Ammazza, io mica lo sapevo di essere un "leone della tastiera", un "toro scatenato".
Così Gilda Policastro, sul "Manifesto" del 25 ottobre scorso, ha definito gli autori dei blog di argomento letterario.
Le ha risposto Carla Benedetti, l'altroieri, su "Il primo amore".

dio smette di sognarmi


http://www.youtube.com/watch?v=JytXR0qzsvs

Balada para mi muerte
Musica di Astor Piazzolla, parole di Horacio Ferrer

Morirò a Buenos Aires, sarà all'alba,
guarderò docilmente le cose della vita,
la mia piccola poesia di addii e di pallottole,
il mio tabacco, il mio tango, la mia manciata di spleen.

Mi metterò sulle spalle, come cappotto, tutta l'alba,
il mio penultimo whisky resterà non bevuto,
arriverà tangamente la mia morte innamorata,
io sarò morto, quando saranno le sei in punto.

Ora che Dio smette di sognarmi,
al mio oblio andrò per Santa Fe,
lo so che al nostro angolo ci sei già tu,
tutta vestita di tristezza, fino ai piedi.
Abbracciami forte che dentro
mi sento morti, vecchie morti,
che aggrediscono quel che amai.
Anima mia, ce ne andiamo,
arriva il giorno, non piangere.

(le prossime due strofe mancano nella versione cantata da Mina)

Morirò a Buenos Aires, sarà all'alba,
che è l'ora in cui muoiono quelli che sanno morire.
Galleggerà nel mio silenzio la muffa profumata
di quel verso che non ti ho mai saputo dire.

Andrò per tanti isolati e fino in Plaza Francia,
come ombre fuggite da uno stanco balletto,
ripetendo il tuo nome per una strada bianca,
se ne andranno in miei ricordi in punta di piedi.

Morirò a Buenos Aires, sarà all'alba,
guarderò docilmente le cose della vita,
la mia piccola poesia di addii e di pallottole,
il mio tabacco, il mio tango, la mia manciata di spleen.

Mi metterò sulle spalle, come cappotto, tutta l'alba,
il mio penultimo whisky resterà non bevuto,
arriverà tangamente la mia morte innamorata,
io sarò morto, quando saranno le sei in punto,
quando saranno le sei, quando saranno le sei.

Trasmesso dalla Rai il 13 maggio 1972, durante il programma "Studio 10".
Mina incise poi il brano in traduzione italiana (si può ascoltare qui).