E' di qualche giorno fa la notizia di una rissa nel napoletano, pare originata da un complimento a una ragazza, finita con una coltellata e con un ragazzo morto. Ieri a Roma un automobilista ne ha accoltellato un altro durante una lite per un parcheggio.
Queste storie mi hanno fatto tornare in mente un sacco di cose.
Pensavo, ad esempio, a quando ero bambino, ai bulletti che per divertimento si piantavano in mezzo a un vicolo e ti dicevano "di qua non si passa", e tu dovevi accettare di venire alle mani oppure cambiare strada (io, che sono sempre stato una persona pacifica, cambiavo strada). O a quella volta, alla festa patronale, quando un amico fu preso in mezzo e picchiato a calci sulla testa, perché a un gruppo di teppistelli andava di passare così la serata. O a quell'altra volta che si sfiorò la rissa perché un tizio pretendeva a tutti i costi di voler parlare "a tu per tu" con la ragazza di uno di noi, e a noi toccò schierarci tutti dietro, in fila, cercando di fare le facce più truci possibili. O a quando, al mare, cinque o sei ragazzotti dall'accento milanese circondarono me e un altro e cominciarono a sputarci addosso perché, dicevano, "li avevamo guardati". O a una lontana vacanza-studio in Inghilterra, a Bournemouth, dove il venerdì sera bande di hooligans ubriachi uscivano a caccia di italiani da pestare. O a quella volta in macchina che uno stava per tagliarmi la strada, io gli suonai il clacson e lui mi inseguì, mi si affiancò al semaforo, contromano sull'altra corsia, per vomitare insulti con la faccia deformata dall'odio. O a quando un idiota in Vespa non vide che avevo messo la freccia per girare e mi si schiantò sullo sportello, e poi mi disse con un sorrisetto "io sono un brigadiere dei carabinieri, vedremo a chi daranno ragione".
Oppure pensavo a un libro di Jared Diamonds letto anni fa. Diamonds, naturalista e antropologo, raccontava di una sua visita a una sperduta tribù nell'interno del Borneo, e di come tutte le donne, intervistate sul loro albero genealogico, menzionassero immancabilmente un padre, o un fratello, o un marito, uccisi dalla tribù nemica o sgozzati nel corso di una faida familiare. Raccontava anche di due suoi amici antropologi, i quali avevano studiato una popolazione di cacciatori-raccoglitori che viveva in un immenso acquitrino, punteggiato di isole e coperto da una giungla di mangrovie. Durante la stagione delle piogge la natura del territorio impediva alle diverse bande di avere contatti, perciò una volta all'anno, nella stagione secca, si riunivano tutti per commerciare, concludere matrimoni, risolvere questioni lasciate in sospeso. I due antropologi la raccontavano come un'esperienza allucinante: in un accampamento popolato da centinaia di persone, tra uomini abituati a passare la maggior parte del tempo da soli o in gruppi piccolissimi, la mancanza di solide regole sociali faceva sì che ogni lite potesse degenerare in violenza, com'era già successo in passato. A un certo punto un uomo riconobbe, o credette di riconoscere, l'uccisore di suo padre, afferrò un'ascia e gli si scagliò contro. Ci vollero una decina di persone per separarli, e alla fine sfogarono la rabbia con gli insulti. I due antropologi sudavano freddo, perché era a rischio anche la loro pelle.
E poi pensavo anche a quanto sono belli (e falsi) quei versi del Tasso, nel coro dell'Aminta:
Queste storie mi hanno fatto tornare in mente un sacco di cose.
Pensavo, ad esempio, a quando ero bambino, ai bulletti che per divertimento si piantavano in mezzo a un vicolo e ti dicevano "di qua non si passa", e tu dovevi accettare di venire alle mani oppure cambiare strada (io, che sono sempre stato una persona pacifica, cambiavo strada). O a quella volta, alla festa patronale, quando un amico fu preso in mezzo e picchiato a calci sulla testa, perché a un gruppo di teppistelli andava di passare così la serata. O a quell'altra volta che si sfiorò la rissa perché un tizio pretendeva a tutti i costi di voler parlare "a tu per tu" con la ragazza di uno di noi, e a noi toccò schierarci tutti dietro, in fila, cercando di fare le facce più truci possibili. O a quando, al mare, cinque o sei ragazzotti dall'accento milanese circondarono me e un altro e cominciarono a sputarci addosso perché, dicevano, "li avevamo guardati". O a una lontana vacanza-studio in Inghilterra, a Bournemouth, dove il venerdì sera bande di hooligans ubriachi uscivano a caccia di italiani da pestare. O a quella volta in macchina che uno stava per tagliarmi la strada, io gli suonai il clacson e lui mi inseguì, mi si affiancò al semaforo, contromano sull'altra corsia, per vomitare insulti con la faccia deformata dall'odio. O a quando un idiota in Vespa non vide che avevo messo la freccia per girare e mi si schiantò sullo sportello, e poi mi disse con un sorrisetto "io sono un brigadiere dei carabinieri, vedremo a chi daranno ragione".
Oppure pensavo a un libro di Jared Diamonds letto anni fa. Diamonds, naturalista e antropologo, raccontava di una sua visita a una sperduta tribù nell'interno del Borneo, e di come tutte le donne, intervistate sul loro albero genealogico, menzionassero immancabilmente un padre, o un fratello, o un marito, uccisi dalla tribù nemica o sgozzati nel corso di una faida familiare. Raccontava anche di due suoi amici antropologi, i quali avevano studiato una popolazione di cacciatori-raccoglitori che viveva in un immenso acquitrino, punteggiato di isole e coperto da una giungla di mangrovie. Durante la stagione delle piogge la natura del territorio impediva alle diverse bande di avere contatti, perciò una volta all'anno, nella stagione secca, si riunivano tutti per commerciare, concludere matrimoni, risolvere questioni lasciate in sospeso. I due antropologi la raccontavano come un'esperienza allucinante: in un accampamento popolato da centinaia di persone, tra uomini abituati a passare la maggior parte del tempo da soli o in gruppi piccolissimi, la mancanza di solide regole sociali faceva sì che ogni lite potesse degenerare in violenza, com'era già successo in passato. A un certo punto un uomo riconobbe, o credette di riconoscere, l'uccisore di suo padre, afferrò un'ascia e gli si scagliò contro. Ci vollero una decina di persone per separarli, e alla fine sfogarono la rabbia con gli insulti. I due antropologi sudavano freddo, perché era a rischio anche la loro pelle.
E poi pensavo anche a quanto sono belli (e falsi) quei versi del Tasso, nel coro dell'Aminta:
O bella età dell'oro [...]
perché quel vano nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno
quel che dal volgo insano
onor fu poscia detto,
che di nostra natura 'l feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge [...]
Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed ai susurri i baci
strettamente tenaci...
2 commenti:
già. con l'aggravante che homo sapiens si sente superiore.
quello europeo, in particolare, è riuscito ad appropriarsi della gran parte del pianeta, ha chiuso gli indigeni nelle riserve, li ha caricati sulle navi come sardine e continua a sventolare le sue bandiere e dire di essere migliore. è solo diverso. così come la poesia di Basho è diversa da quella di Catullo, ne migliore ne peggiore. diversa, come i lineamenti degli autori e come loro dei. diversi.
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