venerdì 27 febbraio 2009

italo calvino (1) - la fine dell'impegno


E cominciamo con Calvino.
Cominciamo dalla fine: questo è il primo paragrafo dell'ultimo capitolo, quello in cui analizzavo il Calvino degli ultimi dieci anni, da metà anni Settanta fino alla morte, nel 1985.
Comincio da qui perché mi pare che molto di ciò che Calvino scriveva allora, venticinque o trent'anni fa, si sia rivelato, al di là di qualunque retorica, profetico.

Capitolo Quarto
La biblioteca esplosa (1974-1985)

IV. 1. Letteratura e politica: gli anni della “non identificazione”

In un articolo comparso sul “Corriere della Sera” del 23 settembre 1979 (Del prendere posizione), Calvino scriveva:

Sempre più spesso m’avviene di non saper prendere posizione di fronte a problemi che dividono l’opinione pubblica. In molti casi sento che le mie conoscenze dei dati di fatto sono insufficienti per fissare il mio giudizio[...]. Vorrà dire che i nomi e gli schemi con cui ero andato imparando a classificare i fatti, ora designano fatti diversi come qualità e sostanza, irriducibili a quegli schemi? Sarà segno che il mondo in cui vivo non è più un mondo in cui io possa - non dico influire: queste illusioni le ho perse da un pezzo - almeno riconoscere il mio posto? [...]
Per quanto cerchi di rappresentarmi i vantaggi, dal rifiuto dei tempi in cui vivo non riesco a spremere alcuna soddisfazione. Abituato a definirmi in relazione al discorso degli altri, [...] da tempo non riesco a recuperare che brandelli di conversazione intellegibile affioranti da un mare di rumore indistinto.

Negli anni dal ‘74 in poi, Calvino ritorna a scrivere sui quotidiani (prima il “Corriere della Sera”, poi, dal 1979, “la Repubblica”) e torna ad occuparsi, almeno per quanto riguarda gli articoli del “Corriere”, anche di fatti di cronaca e di attualità politica nazionale e internazionale. Sembrerebbe un riaffacciarsi del Calvino “impegnato”, dopo la parentesi di assenza dall’attualità che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta: ma l’analisi dei suoi scritti di questi anni viene subito a confutare quest’ipotesi.
Nella prima metà degli anni Sessanta Calvino, di fronte alla sempre crescente complessità di un mondo che rifiutava di farsi dominare dalla ragione, aveva tentato affannosamente di salvare uno spazio di intervento per l’intellettuale o almeno una possibilità di cercare ancora una via d’uscita dal “labirinto”; fra il ‘65 e la metà degli anni Settanta si era rivolto a metodi di indagine “interni” all’oggetto letterario (semiologia, strutturalismo, critica “antropologica” e “archetipica”), nella speranza che essi gli fornissero uno spiraglio verso il “fuori” (la società, la storia); ora, anche le residue possibilità che la letteratura potesse fornire un progetto o almeno una chiave di lettura per la realtà sembrano svanite, sostituite da un pessimismo che si farà via via più tendente all’apocalittico e al catastrofico.
Le dichiarazioni sulla necessità di continuare a cercare di “rendere più umano e più abitabile il mondo in cui viviamo” e sulla sua fiducia nelle capacità di “immaginazione” e di “coraggio” della società italiana si alternano ad altre, sempre più sfiduciate, sulla crisi irreversibile di un “principio di razionalità e di progresso” di origine illuministica e sulla mancanza di “attendibili modelli alternativi” (cfr. Con gli strumenti dell’ironia, “Avanti!”, 15-16 febbraio 1981 e Italo Calvino, classique romantique, “Le Monde”, 16 décembre 1979).
Se in questi anni Calvino interviene su fatti d’attualità (le stragi “nere”, il caso Moro, le Brigate Rosse, il Watergate, il delitto del Circeo, la corsa agli armamenti, la legge sull’aborto), lo fa per puro senso di responsabilità civile, in quanto cittadino che, scrivendo sui giornali, può esprimere la sua voce in maniera pubblica (“se scriviamo sui giornali è perché lo spazio in cui la parola può operare non si chiuda”), ma la possibilità che l’intellettuale possa avere un effettivo peso nella politica e nella storia sembra appartenere definitivamente al passato.
Nella conferenza del ‘76 dal titolo Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, si legge:

Negli ultimi anni [...] mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura. Oggi affrontando queste due problematiche provo due sensazioni separate, e sono entrambe sensazioni di vuoto: il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere.

L’analisi della vita culturale italiana dagli anni Sessanta in poi approda alla constatazione che “l’idea dell’uomo come soggetto della storia è finita. [...] Tutti i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo sono messi in discussione”. La contestazione letteraria e politica della neoavanguardia non è riuscita a recuperare un’istanza propositiva, al di là della pura e semplice “negazione”.
Qual è dunque il posto che la letteratura può avere nel contesto di una società? Ciò che essa può offrire di specifico è la “capacità d’imporre modelli di linguaggio, d’immaginazione, di visione, di lavoro mentale”, mirare alla “costruzione d’un ordine mentale così solido e complesso da contenere in sé il disordine del mondo”.
Non si può fare a meno di notare quanto si sia ristretto il campo d’azione dell’intellettuale: l’unico ordine possibile è quello interno alla letteratura, un ordine astratto, mentale, senza più speranza di influire direttamente sul corso degli eventi. L’utopia si è definitivamente rinchiusa in un “mondo scritto” irrimediabilmente “altro” rispetto al disordine e all’entropia del “mondo non scritto”.
Questa divaricazione tra politica e letteratura finisce per essere una delle cifre dominanti della produzione calviniana degli ultimi anni: la sfiducia nella politica come attività “totalizzante”, che si era fatta sempre più marcata dal ‘56 in poi, ora si traduce nella coscienza che “le trasformazioni vere della società si preparano in altre sedi da quelle della politica. [...] La politica, anche le cosiddette rivoluzioni vengono dopo, a sancire, o a mistificare quello che è già in atto” (ma si già pensi alle affermazioni nell’intervista con Camon circa la sua sfiducia nella Storia e nei sistemi che pretendano di dominare la complessità del reale). Parlando della sua uscita dal PCI, la descrive come un progressivo abbandonare ogni ideologia prestabilita e un rendersi conto che “fatti e persone e problemi [...] andavano giudicati uno per uno [...]. Insomma, avevo capito che avrei dovuto fidarmi più dell’empirismo che corrispondeva al mio temperamento, che d’un rigore ideologico le cui regole era sempre qualcun altro a stabilire”. Anche per bocca del signor Palomar (cfr. ad esempio Il modello dei modelli) viene espressa l’idea di una morale che rinuncia a costringere la realtà in forme prestabilite e “preferisce tenere le proprie convinzioni allo stato fluido, verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio comportamento quotidiano”.
Se da una parte la politica non è capace di prevedere o progettare alcunché, dall’altra la letteratura non può capire altro che se stessa:

Nella mia gioventù [...] m’illudevo che mondo scritto e mondo non scritto si illuminassero a vicenda; che le esperienze di vita e le esperienze di lettura fossero in qualche modo complementari, e ad ogni passo avanti compiuto in un campo corrispondesse un passo avanti nell’altro. Oggi, posso dire che del mondo scritto conosco molto di più che una volta; all’interno dei libri, l’esperienza è sempre possibile, ma la sua portata non s’estende al di là del margine bianco della pagina. Invece, quello che succede nel mondo che mi circonda non finisce di sorprendermi, di spaventarmi, di disorientarmi.


L’atteggiamento di Calvino verso la realtà contemporanea si va sempre più caricando di pessimismo: “je m’attends toujours au pire. J’ai appris que, après le mal, très souvent vient le pire”, dichiarava nel ‘79 in un’intervista a “Le Monde”.
Una scorsa agli articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” mostra come la visione di Calvino inclinasse spesso verso un vero e proprio catastrofismo: il mondo gli appare “triste, inibito, depressivo”, la società gli sembra minacciare una “catastrofe [...]: quella di un lento impantanamento dove nulla può conservarsi e nulla crollare” e per definirla usa espressioni molto forti come “crollo”, “deserto”, “pestilenza”. “Deve essere ben chiaro - affermava nel ‘77 - che i prossimi quattrocento-cinquecento anni saranno i più duri della storia dell’umanità”.
Lo stesso pessimismo si applica alla visione della natura e dell’intero universo: un elenco di eventi naturali catastrofici (eruzioni, terremoti, alluvioni, siccità) gli serve a dimostrare che "il mondo è fragile, una rete di avvenimenti impercettibili e lentissimi che sono il solo campo in cui la capacità umana di guida e salvataggio può intervenire, ogni catastrofe è già successa da tempo quando ci si accorge che la terra trema, [...] non esiste movimento se non lento o lentissimo, [...] tutte le rivoluzioni sono già avvenute prima delle esplosioni spettacolari che segnano la loro data nella storia, ultimo atto spesso scontato e superfluo di ciò che da tempo è in marcia".
Si fa sempre più pressante l’idea che “l’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia” e che il mondo è “un sistema d’infinite relazioni di tutto con tutto” che nessun “modello mentale” potrà mai padroneggiare completamente. In Cominciare e finire, testo (poi scartato) che sarebbe dovuto entrare a far parte delle Lezioni americane, si cita esplicitamente il “secondo principio della termodinamica, della degradazione della materia in calore, della crescita dell’entropia, della morte termica dell’universo. La forza mitica di queste ipotesi scientifiche è tale che la nostra forma mentis ne è condizionata”. E si pensi, infine, al senso di sfacelo e di disfacimento che domina molte pagine del postumo Sotto il sole giaguaro (specialmente Il nome, il naso e Sapore sapere) o all’ossessione di una realtà brulicante, infinita, innumerevole che fa da sfondo alle osservazioni del signor Palomar (1).
Al Calvino scrittore resta solo la consapevolezza che “si scrive per tentare di sottrarre un frammento d’universo - non più grande della pagina che si scrive - alla degradazione generale”, mentre il Calvino degli articoli sul “Corriere” non può che fare appello “alla disciplina, alla fermezza, alla severità, più sostanzialmente liberatrici di qualsiasi velleità libertaria”.
Quando, nel ‘79 (in seguito al passaggio del “Corriere” dalla direzione di Ottone a quella di Di Bella), Calvino comincerà a scrivere sulla “Repubblica” dell’amico Scalfari, scompariranno quasi del tutto gli interventi sull’attualità e gli articoli di fondo, sostituiti da pezzi di terza pagina su temi letterari e da resoconti di mostre, esposizioni, viaggi, etc. (molti di questi scritti confluiranno poi in Collezione di sabbia).
Sta di fatto che ormai la distanza di Calvino dalla realtà contemporanea si era fatta incolmabile; in un’intervista con Daniele Del Giudice, parlando degli anni Settanta li definiva con l’espressione “non identificazione”:

Ci sono state molte cose in ballo, le ho vissute aperto agli sviluppi, ma sempre con riserva. [...]
Tra le Città invisibili ce n’è una su trampoli, e gli abitanti guardano dall’alto la propria assenza (2). Forse per capire chi sono devo osservare un punto nel quale potrei essere e non sto. [...] Se negli ultimi anni ho scritto perfino articoli di fondo sul “Corriere”, vuol dire che una parte di me, depositaria di una voce in tono grave e definita da Fortini “il padre nobile”, si tiene sempre presente. Non è che ne sia molto soddisfatto. Preferirei mandare in pensione questo padre nobile.


Il progetto giovanile di unire letteratura e società sembra ormai lontanissimo (“appartengo all’ultima generazione che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società. E l’uno e l’altro sono saltati in aria. Tutta la mia vita è stata un riconoscere validità a cose cui avevo detto «no»”). Ciò che si salva è la profonda istanza morale che aveva sempre costituito la base della sua ricerca letteraria:

Ciò che scrivo devo giustificarlo, anche di fronte a me stesso, con qualcosa non solo individuale. Forse perché vengo da una famiglia di credo laico e scientifico intransigente [...]. Sottrarmi a quella morale, ai doveri del piccolo proprietario agricolo, mi ha fatto sentire in colpa. Il mio mondo fantastico mi sembrava non abbastanza importante per giustificarsi in sé. Ci voleva un quadro generale. [...] Scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere.

“All’epoca in cui ho cominciato a scrivere - dichiarava qualche anno più tardi - cioè nei primi anni Quaranta, c’era un’idea di morale che doveva dar forma allo stile, e questo è forse ciò che più mi è rimasto, di quel clima della letteratura italiana d’allora, attraverso tutta la distanza che ci separa”.

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(1) Ma già nel ‘73 il Castello dei destini incrociati si chiudeva con le apocalittiche parole di Macbeth: “Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro”.

(2) Si tratta della città di Bauci, che, come notava Claudio Milanini (cfr. L’utopia discontinua, Garzanti 1990, pag. 144), porta il nome del personaggio ovidiano che, nel libro VIII delle Metamorfosi, riceve insieme al marito Filemone la visita degli dei, venendo premiata per l’ospitalità dimostrata: anche secondo Cristina Benussi, non è casuale che questa città sia collocata esattamente al centro del libro (è la ventottesima delle 55 città descritte), quasi a sottolineare la centralità di questa “utopia dell’assenza”. Anche lo schema di carte della Taverna dei destini incrociati aveva al centro uno spazio vuoto; si pensi inoltre alle pagine delle Città invisibili in cui a Kublai sembra che tutta la conoscenza si riduca a nulla, a un tassello di legno della scacchiera.

2 commenti:

Liberty Alex ha detto...

ah ah!...anch'io ci ho messoun po' di tempo a capire come si mettono i video sui blog!!!...(però c'è un problema,la prima volta che lo fai non spunta sotto la barra dei commenti,ecco perchè sto scrivendo qui ;))....
sul discorso dello snobbismo dei 16enni sono d'accordo,credo dipenda dl bisogno di far notare agli altri di avere acquisito un'idea immutabile su qualcosa,idea che diventa distorta perchè si trasforma in assolutismo....mi viene in mente quando,proprio sui 16 anni,dicevo di essere agnostico solo perchè "era bello mostrare dubbi sull'esistenza di dio di fronte a così tanti credenti"...con il jazz,comunwue,dovrei cominciare tutto adesso:più che snobbarlo,l'ho sempre misconosciuto...

sergio pasquandrea ha detto...

Hai tutto il tempo per farlo, Pippo. Dopotutto quando io ho cominciato ad ascoltare jazz non ero molto più giovane di te.