«Gli Aztechi - diceva il prefetto - sono rimasti nella foresta centinaia di anni, e nessuno sapeva che c'erano. Così son diventati fiorenti, tanto che dove prima c'era solo acquitrino e boscaglia, hanno fatto crescere le loro città.
Prendevano una montagna e ne facevan mattoni, calce, pietre da costruzione, metalli; e hanno alzato piramidi immense, templi, muraglie, case che resistessero al tempo, palazzi fastosi. E usavano l'oro e le gemme come da noi si usa la latta e i cocci di vetro. L'argento poi lo impegavano nelle grondaie, nelle inferriate, nei catenacci; i chiodi li facevan di platino, e i bottoni dei loro vestiti di agata e di ametista; e se gliene avanzava li ributtavano in mezzo alla ghiaia.
Quando gli spagnoli li hanno scoperti, c'è stata tanta pubblicità che le navi facevan la fila per andarli a depredare. Così loro hanno perduto tutto quello che avevano; e quelli rimasti si sono ritirati nel fitto del nosco. Hanno continuato a avere città, ma hanno dovuto cambiare lo stile dell'architettura, per non dare nell'occhio e attirare di nuovo la bramosia degli spagnoli.
Prima di tutto non tagliano gli alberi, come facevano per dare spazio alle piazze e alle strade. Ma dicono: qui ci sarebbe una piazza grandissima, ma è coperta di bosco per non farla vedere; qui c'è la via sacra, ma è camuffata dale piante selvatiche se no ci vengono ancora a saccheggiare.
E le piramidi non le fanno più lisce e squadrate, con i gradini ad angoli retti; ma sono coperte da muschio, da rampicanti, e la pietra non è lavorata in cubi regolari da cotruzione, ma l'han lasciata come si trova in natura, tutta scagliosa e accidentata, altrimenti chiunque li può individuare, anche da molto distante.
Anzi, la pietra non l'hanno neanche staccata, e dicono: "questa è la roccia per far le piramidi, la roccia migliore, ma è meglio lasciarla così, dove si trova, non levigata, se no arrivano i predatori." E dunque per loro le montagne di marmo sono città non costruite. Ci girano attorno e dicono: "bellissimo, qui c'è un'architrave non ancora scolpita, ma sarebbe superba; qui c'è un gigantesco obelisco di tufo, ma non è ancora staccato e drizzato; e è meglio."
"Qui c'è palazzo imperiale"; e ammirano i picchi di roccia e le pareti intatte di una montagna. "Ecco il granito della fortezza, - dicono - il porfido del colonnato; i basalti, le arenarie, le tormaline per i colori delle facciate; ecco le volte magnifiche delle sale e le cornici bianche di selenite."
Poi camminano ad esempio nel greto sassoso di un fiume e dicono che quello è in sostanza un pavimento selciato; lo si dovrebbe solo spianare e cementare. Ma è meglio non farlo, perché correrebbero i curiosi e gli spagnoli a frotte.
Quindi gli Aztechi non sono scomparsi, ma si sono intanati.
Hanno sempre una grande paura degli spagnoli che possan tornare. E allora per mimetizzarsi non abitano più il vecchio regno, che è stato lasciato andare in rovina; ma ormai è nel regno minerale che stanno, dove le città son sotto terra, nella forma più celata possibile, cioè allo stato di roccia.
E il loro sistema edilizio è di lasciare tutto com'è, adottato dopo l'arrivo degli spagnoli.
Loro tastano i marmi, ne riconoscono le qualità, la resistenza, la luce che danno, e vedono la città già finita. Aggirandosi in mezzo ai dirupi ne discutono, si dicono l'uno con l'altro i progetti più fantasiosi, e li variano continuamente, a seconda dell'umore, dell'umidità o del calore della giornata. E anche se non arrivano a farlo, per la prudenza che ormai hanno istintiva, edificano torri, quartieri, grandi acquedotti, baluardi, ponti, bagni pubblici, osservatori celesti, e poi secondo l'estro di ognuno, statue, bassorilievi, fontane.
In un certo senso la loro civilà è più fiorente che mai, perché la materia, dicono, a loro non può più resistere. Prendono un sasso e guardandolo per delle ore in tutte le venature lo cesellano come un merletto, ne fanno un gioiello finissimo, una capigliatura svolazzante di ninfa in cui si distingue ogni nastro, ogni capello. Poi lo buttano via questo sasso, e ne cercano un altro, per vedere le bellezze che ci sarebbero potute essere dentro.
E non solo: dalle sorgentidi roccia guardano sgorgare lo stagno e l'alluminio, e affiorare le vene rosse di rame. Possiedono immensi tesori sepolti nelle miniere: oro nascosto nelle piriti; smeraldi e acquemarine incrostati dentro al berillio; e giacimenti di quarzo, rubino, turchesi.
Ma non se li mettono addosso; ora sono vestiti da poveri indiani di cotone leggero, e se ne stanno tra i monti e le sierre. Così queste loro nuove città nessuno può visitarle, anche se son sotto gli occhi di tutti; mentre le vecchie, che si vedono bene, sono rimaste deserte.
E non hanno smesso le loro scritture. Dicono anzi che dappertutto c'è scritto; che loro leggono i fogli di roccia quando si sfalda, come un libro stampato: c'è scritta la storia del passare del tempo, e le lettere sono come depositate dal corso dei fiumi, delle alluvioni, dalle lave dei grandi vulcani, dai millenni di vita dell foreste, dei deserti, dei mari. Loro dicon che è la cronaca di tutto quel che succede, e che tutto c'è scritto, anche se per chi non se ne intende non sembra scrittura. Ma a loro va proprio bene così.
Dicono: "Qui c'è vissuto un mollusco e c'è morto; è scritto con un disegno a spirale. Qui c'è stato un campo di felci; è detto in un sasso con una figura."»
«Ah, sono i fossili, è vero?», m'è venuto da dire.
«Sì, ma gli Atzechi dicono che è la terra che scrive così, e ormai è anche il loro alfabeto».
E il risultato dell'avidità degli spagnoli, voleva in conclusione dire il prefetto, e della loro invadenza, è stato quello di renderli impercettibili; cosicché ormai è come se non ci fossero più, è come averli perduti.
Prendevano una montagna e ne facevan mattoni, calce, pietre da costruzione, metalli; e hanno alzato piramidi immense, templi, muraglie, case che resistessero al tempo, palazzi fastosi. E usavano l'oro e le gemme come da noi si usa la latta e i cocci di vetro. L'argento poi lo impegavano nelle grondaie, nelle inferriate, nei catenacci; i chiodi li facevan di platino, e i bottoni dei loro vestiti di agata e di ametista; e se gliene avanzava li ributtavano in mezzo alla ghiaia.
Quando gli spagnoli li hanno scoperti, c'è stata tanta pubblicità che le navi facevan la fila per andarli a depredare. Così loro hanno perduto tutto quello che avevano; e quelli rimasti si sono ritirati nel fitto del nosco. Hanno continuato a avere città, ma hanno dovuto cambiare lo stile dell'architettura, per non dare nell'occhio e attirare di nuovo la bramosia degli spagnoli.
Prima di tutto non tagliano gli alberi, come facevano per dare spazio alle piazze e alle strade. Ma dicono: qui ci sarebbe una piazza grandissima, ma è coperta di bosco per non farla vedere; qui c'è la via sacra, ma è camuffata dale piante selvatiche se no ci vengono ancora a saccheggiare.
E le piramidi non le fanno più lisce e squadrate, con i gradini ad angoli retti; ma sono coperte da muschio, da rampicanti, e la pietra non è lavorata in cubi regolari da cotruzione, ma l'han lasciata come si trova in natura, tutta scagliosa e accidentata, altrimenti chiunque li può individuare, anche da molto distante.
Anzi, la pietra non l'hanno neanche staccata, e dicono: "questa è la roccia per far le piramidi, la roccia migliore, ma è meglio lasciarla così, dove si trova, non levigata, se no arrivano i predatori." E dunque per loro le montagne di marmo sono città non costruite. Ci girano attorno e dicono: "bellissimo, qui c'è un'architrave non ancora scolpita, ma sarebbe superba; qui c'è un gigantesco obelisco di tufo, ma non è ancora staccato e drizzato; e è meglio."
"Qui c'è palazzo imperiale"; e ammirano i picchi di roccia e le pareti intatte di una montagna. "Ecco il granito della fortezza, - dicono - il porfido del colonnato; i basalti, le arenarie, le tormaline per i colori delle facciate; ecco le volte magnifiche delle sale e le cornici bianche di selenite."
Poi camminano ad esempio nel greto sassoso di un fiume e dicono che quello è in sostanza un pavimento selciato; lo si dovrebbe solo spianare e cementare. Ma è meglio non farlo, perché correrebbero i curiosi e gli spagnoli a frotte.
Quindi gli Aztechi non sono scomparsi, ma si sono intanati.
Hanno sempre una grande paura degli spagnoli che possan tornare. E allora per mimetizzarsi non abitano più il vecchio regno, che è stato lasciato andare in rovina; ma ormai è nel regno minerale che stanno, dove le città son sotto terra, nella forma più celata possibile, cioè allo stato di roccia.
E il loro sistema edilizio è di lasciare tutto com'è, adottato dopo l'arrivo degli spagnoli.
Loro tastano i marmi, ne riconoscono le qualità, la resistenza, la luce che danno, e vedono la città già finita. Aggirandosi in mezzo ai dirupi ne discutono, si dicono l'uno con l'altro i progetti più fantasiosi, e li variano continuamente, a seconda dell'umore, dell'umidità o del calore della giornata. E anche se non arrivano a farlo, per la prudenza che ormai hanno istintiva, edificano torri, quartieri, grandi acquedotti, baluardi, ponti, bagni pubblici, osservatori celesti, e poi secondo l'estro di ognuno, statue, bassorilievi, fontane.
In un certo senso la loro civilà è più fiorente che mai, perché la materia, dicono, a loro non può più resistere. Prendono un sasso e guardandolo per delle ore in tutte le venature lo cesellano come un merletto, ne fanno un gioiello finissimo, una capigliatura svolazzante di ninfa in cui si distingue ogni nastro, ogni capello. Poi lo buttano via questo sasso, e ne cercano un altro, per vedere le bellezze che ci sarebbero potute essere dentro.
E non solo: dalle sorgentidi roccia guardano sgorgare lo stagno e l'alluminio, e affiorare le vene rosse di rame. Possiedono immensi tesori sepolti nelle miniere: oro nascosto nelle piriti; smeraldi e acquemarine incrostati dentro al berillio; e giacimenti di quarzo, rubino, turchesi.
Ma non se li mettono addosso; ora sono vestiti da poveri indiani di cotone leggero, e se ne stanno tra i monti e le sierre. Così queste loro nuove città nessuno può visitarle, anche se son sotto gli occhi di tutti; mentre le vecchie, che si vedono bene, sono rimaste deserte.
E non hanno smesso le loro scritture. Dicono anzi che dappertutto c'è scritto; che loro leggono i fogli di roccia quando si sfalda, come un libro stampato: c'è scritta la storia del passare del tempo, e le lettere sono come depositate dal corso dei fiumi, delle alluvioni, dalle lave dei grandi vulcani, dai millenni di vita dell foreste, dei deserti, dei mari. Loro dicon che è la cronaca di tutto quel che succede, e che tutto c'è scritto, anche se per chi non se ne intende non sembra scrittura. Ma a loro va proprio bene così.
Dicono: "Qui c'è vissuto un mollusco e c'è morto; è scritto con un disegno a spirale. Qui c'è stato un campo di felci; è detto in un sasso con una figura."»
«Ah, sono i fossili, è vero?», m'è venuto da dire.
«Sì, ma gli Atzechi dicono che è la terra che scrive così, e ormai è anche il loro alfabeto».
E il risultato dell'avidità degli spagnoli, voleva in conclusione dire il prefetto, e della loro invadenza, è stato quello di renderli impercettibili; cosicché ormai è come se non ci fossero più, è come averli perduti.
Ermanno Cavazzoni, Il poema dei lunatici,
Bollati Boringhieri 1987, pp. 116-118
Bollati Boringhieri 1987, pp. 116-118
3 commenti:
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bellissimo, bellissimo, mi ci ritrovo . .
il famoso tesoro nascosto:l'immaginazione (ma stiamo zitti..)
questo testo è semplicemente magico, mi piace molto anche l'illustrazione, sai di chi è ?
l'ho trovato sul web, ma non ho idea di chi sia l'autore
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