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giovedì 25 agosto 2016

camminare, urinare, defecare

"Non c'è nulla di più difficile da capire della psicologia umana. Non riesco assolutamente a rendermi conto se in questi giorni il mio padrone sia di cattivo umore, se invece sia allegro, o se cerchi parole rassicuranti negli scritti di qualche vecchio filosofo. Non ho la minima idea di cosa gli passi per la mente, se si faccia beffe della società umana o desideri avere rapporti con i suoi simili, se sia irritato per qualche ragione banale o ancora se si tenga al di sopra di ogni preoccupazione mondana. In queste cose noi gatti siamo molto più semplici. Se abbiamo fame mangiamo, se abbiamo sonno dormiamo, quando ci arrabbiamo andiamo su tutte le furie, quando piangiamo lo facciamo con tutta l'anima. Tanto per cominciare, non teniamo cose inutili come un diario. Perché non ne abbiamo bisogno. È probabile che le persone che hanno due facce, come il padrone, sentano la necessità di esternare gli aspetti del proprio carattere che non vogliono mostrare a nessuno scrivendo un diario nell'intimità della loro stanza, ma per quanto concerne noi gatti, le nostre quattro posture fondamentali - camminare, stare fermi, stare seduti e stare sdraiati, oltre a urinare e defecare - costituiscono già in sé un autentico diario, quindi siamo esonerati dalla seccatura di tenerne uno per conservare la nostra identità. Se uno ha il tempo di scrivere un diario, tanto vale che se ne stia a dormire nella veranda."

Natsume Sōseki, "Io sono un gatto" (1905)



(Ovviamente, quanto sopra rimane valido se si sostituisce a "diario" la parola "blog"...)

mercoledì 10 giugno 2015

medullitus

"Una inexplebilis cupiditas me tenet, quam frenare hactenus nec potui certe nec volui; michi enim interblandior honestarum rerum non inhonestam esse cupidinem. Expectas audire morbi genus? libris satiari nequeo. Et habeo plures forte quam oportet; sed sicut in ceteris rebus, sic et in libris accidit: querendi successus avaritie calcar est. uinimo, singulare quiddam in libris est: aurum, argentum, gemme, purpurea vestis, marmorea domus, cultus ager, picte tabule, phaleratus sonipes, ceteraque id genus, mutam habent et superficiariam voluptatem; libri medullitus delectant, colloquuntur, consulunt et viva quadam nobis atque arguta familiaritate iunguntur, neque solum se se lectoribus quisque suis insinuat, sed et aliorum nomen ingerit et alter alterius desiderium facit."

Sono dominato da una passione insaziabile, che fino ad oggi non ho potuto né voluto frenare, convinto come sono che il desiderio di cose oneste non può esser disonesto. Vuoi tu sapere di che malattia si tratti? non mi sazio mai di libri. Eppure, ne ho più del bisogno; ma accade dei libri come delle altre cose: il riuscire a far danaro è sprone all'avarizia. Anzi nei libri c'è qualcosa di singolare: l'oro, l'argento, le gemme, le vesti di porpora, le case adorne di marmi, i campi ben coltivati, i dipinti, i cavalli ben bardati, e le altre cose di questo genere danno un piacere muto e superficiale; i libri dilettano nel fondo dell'animo, parlano con noi, ci consigliano e con noi si uniscono con viva e vivace familiarità; né solamente ciascuno di essi penetra nell'animo del lettore, ma suggerisce il nome di altri; e l'uno gli dà il desiderio dell'altro.

(Petrarca, Familiares, III, 18)

venerdì 24 aprile 2015

pronomi

«Bel modo di curarsi!… a dire: io non ho nulla. Io non ho mai avuto bisogno di nessuno!… io, più i dottori stanno alla larga, e meglio mi sento… Io mi riguardo da me, che son sicura di non sbagliare… Io, io, io!».
E di nuovo si lasciava prendere da un’idea, e levò la voce, rabbiosamente: «Ah! il mondo delle idee! che bel mondo!… ah! l’io, io tra i mandorli in fiore… poi tra le pere, e le Battistine, e il Giuseppe!… l’io, l’io!… Il più lurido di tutti i pronomi!…».
Il dottore sorrise della sfuriata, non capì. Colse tuttavia il destro di volgere un po’ al sereno le parole, se non l’umore e i pensieri.
«… E perché diavolo? Che le hanno fatto di male, i pronomi? Quando uno pensa un qualchecosa deve pur dire: io penso… penso che il sole ci passeggia sulla cucùrbita, da destra a sinistra…». (Nel Sud-America, difatti, e nella Canzone di Legnano).
«… I think; già: but I’m ill of thinking…» mormorò il figlio. «… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta, come tutti quelli che hanno i pidocchi… e nelle unghie, allora… ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona…».
Il dottore sbuzzò a ridere suo malgrado, con metà della bocca: con la guancia di sinistra. Come, anche non volerlo, d’un bimbo si finisce a sorridere: quando nel più infernale de’ suoi capricci, nel delirare dalla rabbia, nel pestare i piedi, tra perle di lacrime e strilli fino alle stelle, rugge «va’ via, butto!» a tutti quanti lo vorrebbero calmare con una carezza: e mette in allegria tutti quanti.
L’aforisma, decifrarlo, macché, nemmeno ci pensò: un problema di scacchi, e maggiore delle sue forze.
[...] Ma già i pidocchi, i pronomi pidocchi, anche questa gli toccava di sentire! lui che per dire «mia moglie» diceva «la mia signora»: in castigliano beninteso: mi señora.
«… Il solo fatto che noi seguitiamo a proclamare… io, tu… con le nostre bocche screanzate… con la nostra avarizia di stitici predestinati alla putrescenza… io, tu… questo solo fatto… io, tu… denuncia la bassezza della comune dialettica… e ne certifica della nostra impotenza a predicar nulla di nulla,… dacché ignoriamo… il soggetto di ogni proposizione possibile…».
«… Quale sarebbe?…».
«… è inutile ch’io lo nòmini invano…».

(C.E. Gadda, "La cognizione del dolore")

martedì 18 febbraio 2014

rileggendo l'Ortis



Il coraggio non deve dare diritto per opprimere il debole.

Io non odio persona alcuna, ma vi son uomini ch'io ho bisogno di vedere soltanto da lontano.

Spesso la Giustizia impassibile è più funesta della arbitraria Equità.

La fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte, e l'altro quarto, ai loro delitti.

Noi chiamiamo pomposamente virtù tutte quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve.

Sciagurati coloro che, per non essere scellerati, hanno bisogno della religione.

Per me, temo che la Natura abbia costituito la nostra specie quasi minimo anello passivo dell'incomprensibile suo sistema, dotandone di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza creandoci nella immaginazione una infinita serie di mali e di beni, ci tenessero pur sempre affannati di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che ci fa reputare l'universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al creato.

Sente assai poco la propria passione, o lieta o trista che sia, chi sa troppo minutamente descriverla.

domenica 6 maggio 2012

cose serie

"Non siamo del parere che tutto sia ammissibile in letteratura, e che questa possa essere il campo dei più capotici esperimenti; al contrario, ci sembra che alcune cose siano alla letteratura peculiari quanto necessarie, per non dire altro l'espressione, e non già appena (seppure) l'esigenza di essa. La letteratura, per esempio, non può avere la funzione di acquaio delle angosce, vero o false; le quali semmai (persin ci vergognamo di doversi riferire a una nozione tanto elementare) hanno da essere perfettamente dominate prima di passare sulla pagina. E, per dirla in breve, noi ci ostiniamo a credere, magari a ritroso degli anni e dei fati, che la letteratura sia una cosa seria."

 (Tommaso Landolfi) 

 (per leggere tutto il pezzo su "Il ponte lunare", clicca qui)

martedì 1 maggio 2012

catene


La storia delle ribellioni, cioè delle rivolte dal basso, dei "molti oppressi" contro i "pochi potenti", è vecchia come la storia dell'umanità e altrettanto varia e tragica. Ci sono state alcune poche ribellioni vittoriose, molte sono state sconfitte, innumerevoli altre sono state soffocate ai loro esordi, tanto precocemente da non aver lasciato traccia nelle cronache. Le variabili in gioco sono molte: la forza numerica, militare ed ideale dei ribelli e rispettivamente dell'autorità sfidata, le rispettive coesioni e spaccature interne, gli aiuti esterni agli uni ed all'altra, l'abilità, il carisma o il demonismo dei capi, la fortuna. Tuttavia, in ogni caso, si osserva che alla testa del movimento non figurano mai gli individui più oppressi: di solito, anzi, le rivoluzioni sono guidate da capi audaci e spregiudicati, che si gettano nella mischia per generosità (o magari per ambizione) pur avendo la possibilità di vivere personalmente una vita sicura e tranquilla, magari addirittura privilegiata. L'immagine tanto spesso replicata nei monumenti, dello schiavo che spezza le sue pesanti catene, è retorica: le sue catene vengono spezzate dai compagni i cui vincoli sono più leggeri e più lenti.
Il fatto non può stupire. Un capo dev'essere efficiente: deve possedere forza morale e fisica, e l'oppressione, se spinta oltre un certo livello molto basso, deteriora l'una e l'altra. Per suscitare la collera e l'indignazione, che sono i motori di tutte le vere rivolte (quelle dal basso, per intenderci: non certo i putsch né le "rivolte di palazzo"), occorre sì che l'oppressione esista, ma essa dev'essere di misura modesta, o condotta con scarsa efficienza. 
[...]
Tutte le rivoluzioni, quelle che hanno dirottato la storia del mondo e quelle minuscole [...], sono state guidate da personaggi che conoscevano bene l'oppressione, ma non sulla loro pelle.

Primo Levi, I sommersi e i salvati

lunedì 19 settembre 2011

senza trampoli

Noi lodiamo un cavallo in quanto è vigoroso e svelto, [...] non per la sua bardatura; un levriero per la sua velocità, non per il suo collare; un uccello per le sue ali, non per le sue corregiole e i suoi sonagli. Perché allo stesso modo non stimiamo un uomo per ciò che è suo? Egli ha un gran seguito, un bel palazzo, tanto di credito, tanto di rendita: tutto questo è intorno a lui, non in lui. Voi non comprate un gatto in un sacco. Se contrattate un cavallo, gli togliete la bardatura, lo guardate nudo e allo scoperto [...]. Perché, quando valutate un uomo, lo valutate tutto avvolto e infagottato? Ci mostra soltanto le parti che non sono in alcun modo sue, e ci nasconde quelle attraverso le quali soltanto si può davvero giudicare quanto vale. E' il valore della spada che vi interessa, non quello del fodero: non ne dareste forse un quattrino, se l'aveste spogliato. Bisogna giudicarlo per se stesso, non per i suoi ornamenti. E, come dice molto argutamente un antico: "Sapete perchè lo stimate grande? Voi considerate anche l'altezza degli zoccoli". La base non fa parte della statua. Misuratelo senza i suoi trampoli; che metta da parte ricchezze e onori, che si presenti in camicia.
[...]
Infatti, come gli attori delle commedie, li vedete sulla scena assumere l'atteggiamento di duca e d'imperatore; ma, subito dopo, eccoli diventati servi e facchini miserabili, che è la loro nativa e originaria condizione: così l'imperatore, la cui pompa vi abbaglia in pubblico, [...] guardatelo dietro la tenda, non è altro che un uomo comune e, forse, più vile dell'ultimo dei suoi sudditi.
[...]
La febbre, l'emicrania e la gotta risparmiano forse lui più di noi? Quando la vecchiaia gli graverà le spalle, gli arcieri della sua guardia potranno forse liberarlo? Quando il terrore della morte lo agghiaccerà, sarà egli forse rassicurato dalla presenza dei gentiluomini della sua camera? Quando sarà colto da gelosia e da capriccio, lo calmeranno le nostre scappellate? Quel baldacchino del letto, tutto ornato d'oro e di perle, non ha alcun potere di calmare le fitte di una colica di fegato.
[...]
E' un uomo in tutto e per tutto; e se, per se stesso, è un uomo malnato, l'impero dell'universo non potrebbe metterlo in sesto:
puellae
Hunc rapiant; quicquid calcaverit hic, rosa fiat,

["se lo contendano le fanciulle, nasca una rosa dovunque egli abbia posato il piede", Persio, II, 37-39]

e che dunque, se è un animo grossolano e stupido? La voluttà stessa e la felicità non si percepiscono senza vigore e senza ingegno:
haec perinde sunt, ut illius animus qui ea possidet,
Qui uti scit, ei bona; illi qui non utitur recte, mala.

["le cose valgono quanto l'animo di colui che le possiede, se sa usarne, sono beni, se non ne usa rettamente, sono mali", Terenzio, Heautontimorumenos, 195-196].

I beni della fortuna, tali quali sono, bisogna anche avere della sensibilità per gustarli. E' il godere, non il possedere, che ci rende felici.
[...]
Ma, soprattutto, [...] [il potente] si vede privato di ogni amicizia e mutua relazione, nella quale consiste il frutto più perfetto e più dolce della vita umana. Infatti quale prova di affetto e di attaccamento posso trarre da colui che mi deve, lo voglia o no, tutto quel che può? Posso io prendere in considerazione il suo parlare umile e la sua cortese riverenza dato che non è in suo potere rifiutarmela? L'onore che riceviamo da coloro che ci temono, non è onore; tali ossequi sono dovuti alla regalità, non a me [...]. Nessuno mi segue per un'amicizia che ci sia tra lui e me, poiché non potrebbe annodarsi un'amicizia dove c'è così poca relazione e corrispondenza. La mia altezza mi ha messo fuori del commercio degli uomini: c'è troppa disparità e sproporzione. Essi mi seguono per convenienza e per consuetudine o, più che me, seguono la mia fortuna, per accrescere così la loro. Tutto quello che mi dicono e fanno è soltanto belletto. Poiché la loro libertà è imbrigliata da ogni parte dal gran potere che io ho su di loro, non vedo niente intorno a me che non sia coperto e mascherato.

Montaigne, Saggi, I, 42

domenica 31 luglio 2011

la pelle e il sole


"Je veux que tu connaisses ce frisson de froidure qui inquiète la peau, quand l'ombre d'un regard l'isole du soleil".
(François Bourgeon)

martedì 8 febbraio 2011

la memoria dei morti


Antoine batte le unghie sulla lampadina e la fa dondolare; da un graffio sullo smeriglio esce un filo di luce chiara che scivola su e giù per le pareti e si spezza lungo gli angoli dei mobili.
– Era un ragazzo qualsiasi – sospira Fiore lisciandosi i capelli sulla fronte – come me. Poi si sdraia nuovamente e riprende a soffiare in aria delle piume che via vi sfila da un cuscino. – A quest'ora si andava sulla collina a lanciare razzi o a far scoppiare il tritolo nella cava di lignite. Ma già, lui non sa niente di quest'ora.
– No – risponde Antonie, e picchia più forte le unghie sulla lampadina, – e non importa. Mio caro – si avvicina al ragazzo fino a toccarlo con il volto – e neanche a lui, ora importa. Lascia stare, succede sempre così; si va e si viene e non facciamo in tempo neppure a guardarci attorno. Un giorno anche tu non sarai più niente e anch'io, prima di te. Vuoi dell'altro bodino?
Il ragazzo non gli risponde ed egli si alza dal divano e va a chiudere le imposte, marcie e piene di fessure; prima di chiudersi sbattono sui fili di ferro per la biancheria e stridono a lungo nel solco del davanzale. – Tuttavia dimenticare – soggiunge Antoine – non è così facile come sembra, ci vuole del tempo. Anche se si è morti.
Ora che le imposte sono chiuse la camera sembra più buia; ad eccezione di quel filo che oscilla, la luce rossocupa della lampadina non illumina nulla in modo particolare; si disperde nella stanza come un riflesso rilevando soltanto lo specchio, gli oggetti di vetro, gli occhi, e le scarpe di Antoine.
– Con questa luce non ci si vede.
– Non ci si vedeva neanche prima, sono le sei.
– A lui non importerà niente di quest'ora?
– Mah, può darsi che se ne sia già dimenticato, – sussurra Antoine e, immerso il dito nel bodino lo succhia rumorosamente.
– Credi in Dio tu? – continua con il dito in bocca.
– Ci ho sempre creduto, se vuol dire l'Inferno, il Paradiso e il Purgatorio.
– Ah, sì?
– Certo, e ci penso sempre anche. Penso a Dio, alle anime del Purgatorio; una volta mia nonna mi faceva dire il requiem aeternam; ma ora l'ho dimenticato. Sarebbero inutili perché, tanto, i morti riposano in pace lo stesso.
– Lui non credeva in Dio, – dice Antonie. Ferma la lampada, per favore, appena la tocchi va avanti e indietro e non la finisce mai.
Fiore la prende in mano e chiude un occhio per guardare dentro lo spiraglio; ma subito dopo chiude anche l'altro perché l'intensità del filo luminoso lo fa lacrimare.
– Hai ragione a non dirle più – riprende Antoine – non potrebbero ascoltarti là dove sono; hanno altro da fare.
– Cos'hanno da fare? Sono morti.
– Non sono morti del tutto, mio caro; prima devono marcire, devono andare via dalla terra, il più presto possibile, andarsene, buttar via tutto. Credimi, non è mica facile dimenticare; noi li dimentichiamo, ma loro, poveretti, restano anche oltre il nostro ricordo. La terra serve, poco; sai, ci vogliono anni per marcire, per buttar via questa bella polpa cicciosa, e poi ci sono le ossa, dure come pietre, che si sciolgono un poco, un poco alla volta, queste puttane: dopo dieci anni si spellano un pochino; dopo altri dieci, se la terra è buona e l'acqua vien giù a diluvi, allora cominciano a marcire, ma poco, soltanto alla superficie. Così passa il tempo e loro stanno là fermi senza muovere un dito, rabbiosi e cattivi come cani, ad aspettare i temporali per fare più presto. Poi, eh! Poi c'è la cosa più brutta di tutte.
– Cos'è? – chiede Fiore debolmente; e gli sembra di avere ancora negli occhi quel filo luminoso che a tratti si spegne e gli chiude le pupille nel buio.
– Il ricordo di tutto quello che avevano addosso, mio caro; occhi, capelli, braccia, sentimenti, cose viste, tutto, per dispetto si riunisce e li fa vivere ancora; vanno in giro per la città, per le case e vengono a salutarci. Ma loro non sanno niente, hai detto giusto tu, sono morti, non sanno niente, stanno fermi immobili dove li hanno messi; in qualunque posto, sotto terra o sopra la terra, o ingorgati dentro una fogna, per loro, va tutto bene. Non mangiano più come noi; ma non hanno finito di pensare. Nessuno sa cosa sono, mio caro, e forse non sono niente. – Si china a succhiargli le labbra.
– Era il mio migliore amico – sussurra Fiore dopo una pausa, e allunga una mano a raccogliere una piuma.
– Già, a te importa solo lui, non hai altri a cui pensare. A te importano la sua voce, la sua figura; ti aspetti che a quest'ora, come al solito, lui si faccia vedere a quella porta, tutto nero e con quel suo sorrisetto; che venga avanti con le mani in tasca e si sieda qui a scaricare lo stomaco. Capitava anche a me una volta, quando la gente moriva sotto i baldacchini e a tutti dispiaceva; ma adesso, mio caro, la gente muore con le unghie sporche e il cappello che cade da un lato; e lascia perdere l'agonia, il segno della croce e anche chiamare aiuto.
Antoine parla lentamente, e a ogni parola getta per terra una pallina di vetro colorato che stride sulle piastrelle e corre ticchettando fin sotto l'armadio.
– Alla mattina presto i gelatai o un contadino che vende erba melissa trovano uno seduto nei pisciatori con le gambe larghe e i pantaloni sbottonati che invece di essere ubriaco è senza il cuore. Oppure, all'ospedale, una monaca passa davanti al letto di una donna e vede che quella non si muove più; due ore fa continuava a lagnarsi e lei allora le aveva dato un uovo che ora vien fuori dalla bocca e dal naso; allora pensa: «Un uovo portato via dalle mani della Divina Provvidenza». E se tu muori, tua madre, che ha più soldi di quella di lui, dopo le lacrime penserà al carrozzone di lusso e a una bella corona di fiori bianchi. – Infila la mano in un sacchettino di broccato. – Per tutti, quanti siamo, un giorno o l'altro c'è la fine; dicono che sia stato Dio, ragazzo, quando era al mondo, ad avere per noi questo pensiero gentile. Fiore caro, c'è poca speranza che il tuo amico faccia la strada fin qui. Sarebbe bello, lo so; ma non arriverà a tanto; e tu dovresti pensare piuttosto a te stesso, – soggiunge stirandosi le labbra in un sorriso.
Il ragazzo si liscia ancora una volta i capelli e la piuma gli sfugge dalla mano; poi si alza e va a scostare la tenda che copre l'uscio.
– Veniva di qui – dice con la faccia protesa nell'andito buio e le lacrime gli cadono sul petto, sconsolatamente. – In fondo, che cos'ha fatto, Dio, per lui?

Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete (Neri Pozza 1951, pp. 98-102)

lunedì 2 agosto 2010

mathesis singularis


L'arte si pone dalla parte opposta delle idee generali, non descrive che l'individuale, non desidera che l'unico. Non classifica; sclassifica. Per quanto ci concerne, le nostre idee generali possono anche essere simili a quelle che hanno corso nel pianeta Marte e tre linee che si intersecano formano un triangolo in tutti i luoghi dell'universo. Ma guardate una foglia d'albero, con le sue nervature capricciose, le sue tinte variate dall'ombra e dal sole, il rigonfio che vi ha sollevato la caduta di una goccia di pioggia, la puntura che vi ha lasciato un insetto, la traccia argentea della piccola lumaca, la prima doratura mortale che vi segna l'autunno; cercate una foglia esattamente simile in tutte le grandi foreste della terra: vi sfido a trovarla. Non c'è scienza del tegumento di una fogliolina, dei filamenti di una cellula, della curvatura di una vena, della mania di un'abitudine, delle pieghe di un carattere. Che un certo uomo abbia avuto il naso storto, un occhio più alto dell'altro, l'articolazione di un braccio nodosa, che abbia usato mangiare a una certa ora un petto di pollo, che avvia preferito la Malvasia al Château-Margaux, questo sì è senza parallelo nel mondo. Al pari di Socrate, Talete avrebbe potuto dire ГNΩΘΙ ΣEAYTON ma non si sarebbe sfregato la gamba nella stessa maniera, prima di bere la cicuta. Le idee dei grandi uomini sono il patrimonio comune dell'umanità, ognuno di loro non possedette realmente che le proprie bizzarrie. Il libro che descrivesse un uomo con tutte le sue anomalie sarebbe un'opera d'arte come una stampa giapponese dove si vede eternamente l'immagine di un minuscolo bruco visto una volta in una certa ora del giorno.

Marcel Schwob, Vite immaginarie (1896) (Adelphi 1996, pp. 13-14)