Incredibile quanto si possa essere snob a sedici anni.
A quell'età, tutto ciò che non era hardbop o free jazz nemmeno lo consideravo (a parte la musica classica, che era stata il mio primo amore, ma anche lì non scherzavo quanto a gusti difficili). Niente rock, niente pop, giusto un po' di cantautori tanto per gradire.
Il jazz pre-bebop, poi, manco a parlarne: non era mica gente seria. A me piacevano quelli incazzati (e prima o poi dovrò scrivere qualcosa sul rifiuto della felicità come forma di snobismo).
Oggi mi chiedo come facessi a non apprezzare meraviglie come questa. Sarà che sto invecchiando.
Comunque, è Jack Teagarden che canta Stars Fell on Alabama.
Nessuna particolare ragione per postarlo qui ed ora. Solo la voglia di condividere qualcosa di bello (senza contare il fatto che finalmente ho imparato come si fa a mettere i video di YouTube sul blog).
sabato 28 febbraio 2009
venerdì 27 febbraio 2009
italo calvino (1) - la fine dell'impegno
E cominciamo con Calvino.
Cominciamo dalla fine: questo è il primo paragrafo dell'ultimo capitolo, quello in cui analizzavo il Calvino degli ultimi dieci anni, da metà anni Settanta fino alla morte, nel 1985.
Comincio da qui perché mi pare che molto di ciò che Calvino scriveva allora, venticinque o trent'anni fa, si sia rivelato, al di là di qualunque retorica, profetico.
Cominciamo dalla fine: questo è il primo paragrafo dell'ultimo capitolo, quello in cui analizzavo il Calvino degli ultimi dieci anni, da metà anni Settanta fino alla morte, nel 1985.
Comincio da qui perché mi pare che molto di ciò che Calvino scriveva allora, venticinque o trent'anni fa, si sia rivelato, al di là di qualunque retorica, profetico.
Capitolo Quarto
La biblioteca esplosa (1974-1985)
La biblioteca esplosa (1974-1985)
IV. 1. Letteratura e politica: gli anni della “non identificazione”
In un articolo comparso sul “Corriere della Sera” del 23 settembre 1979 (Del prendere posizione), Calvino scriveva:
Sempre più spesso m’avviene di non saper prendere posizione di fronte a problemi che dividono l’opinione pubblica. In molti casi sento che le mie conoscenze dei dati di fatto sono insufficienti per fissare il mio giudizio[...]. Vorrà dire che i nomi e gli schemi con cui ero andato imparando a classificare i fatti, ora designano fatti diversi come qualità e sostanza, irriducibili a quegli schemi? Sarà segno che il mondo in cui vivo non è più un mondo in cui io possa - non dico influire: queste illusioni le ho perse da un pezzo - almeno riconoscere il mio posto? [...]
Per quanto cerchi di rappresentarmi i vantaggi, dal rifiuto dei tempi in cui vivo non riesco a spremere alcuna soddisfazione. Abituato a definirmi in relazione al discorso degli altri, [...] da tempo non riesco a recuperare che brandelli di conversazione intellegibile affioranti da un mare di rumore indistinto.
Negli anni dal ‘74 in poi, Calvino ritorna a scrivere sui quotidiani (prima il “Corriere della Sera”, poi, dal 1979, “la Repubblica”) e torna ad occuparsi, almeno per quanto riguarda gli articoli del “Corriere”, anche di fatti di cronaca e di attualità politica nazionale e internazionale. Sembrerebbe un riaffacciarsi del Calvino “impegnato”, dopo la parentesi di assenza dall’attualità che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta: ma l’analisi dei suoi scritti di questi anni viene subito a confutare quest’ipotesi.
Nella prima metà degli anni Sessanta Calvino, di fronte alla sempre crescente complessità di un mondo che rifiutava di farsi dominare dalla ragione, aveva tentato affannosamente di salvare uno spazio di intervento per l’intellettuale o almeno una possibilità di cercare ancora una via d’uscita dal “labirinto”; fra il ‘65 e la metà degli anni Settanta si era rivolto a metodi di indagine “interni” all’oggetto letterario (semiologia, strutturalismo, critica “antropologica” e “archetipica”), nella speranza che essi gli fornissero uno spiraglio verso il “fuori” (la società, la storia); ora, anche le residue possibilità che la letteratura potesse fornire un progetto o almeno una chiave di lettura per la realtà sembrano svanite, sostituite da un pessimismo che si farà via via più tendente all’apocalittico e al catastrofico.
Le dichiarazioni sulla necessità di continuare a cercare di “rendere più umano e più abitabile il mondo in cui viviamo” e sulla sua fiducia nelle capacità di “immaginazione” e di “coraggio” della società italiana si alternano ad altre, sempre più sfiduciate, sulla crisi irreversibile di un “principio di razionalità e di progresso” di origine illuministica e sulla mancanza di “attendibili modelli alternativi” (cfr. Con gli strumenti dell’ironia, “Avanti!”, 15-16 febbraio 1981 e Italo Calvino, classique romantique, “Le Monde”, 16 décembre 1979).
Se in questi anni Calvino interviene su fatti d’attualità (le stragi “nere”, il caso Moro, le Brigate Rosse, il Watergate, il delitto del Circeo, la corsa agli armamenti, la legge sull’aborto), lo fa per puro senso di responsabilità civile, in quanto cittadino che, scrivendo sui giornali, può esprimere la sua voce in maniera pubblica (“se scriviamo sui giornali è perché lo spazio in cui la parola può operare non si chiuda”), ma la possibilità che l’intellettuale possa avere un effettivo peso nella politica e nella storia sembra appartenere definitivamente al passato.
Nella conferenza del ‘76 dal titolo Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, si legge:
Negli ultimi anni [...] mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura. Oggi affrontando queste due problematiche provo due sensazioni separate, e sono entrambe sensazioni di vuoto: il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere.
L’analisi della vita culturale italiana dagli anni Sessanta in poi approda alla constatazione che “l’idea dell’uomo come soggetto della storia è finita. [...] Tutti i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo sono messi in discussione”. La contestazione letteraria e politica della neoavanguardia non è riuscita a recuperare un’istanza propositiva, al di là della pura e semplice “negazione”.
Qual è dunque il posto che la letteratura può avere nel contesto di una società? Ciò che essa può offrire di specifico è la “capacità d’imporre modelli di linguaggio, d’immaginazione, di visione, di lavoro mentale”, mirare alla “costruzione d’un ordine mentale così solido e complesso da contenere in sé il disordine del mondo”.
Non si può fare a meno di notare quanto si sia ristretto il campo d’azione dell’intellettuale: l’unico ordine possibile è quello interno alla letteratura, un ordine astratto, mentale, senza più speranza di influire direttamente sul corso degli eventi. L’utopia si è definitivamente rinchiusa in un “mondo scritto” irrimediabilmente “altro” rispetto al disordine e all’entropia del “mondo non scritto”.
Questa divaricazione tra politica e letteratura finisce per essere una delle cifre dominanti della produzione calviniana degli ultimi anni: la sfiducia nella politica come attività “totalizzante”, che si era fatta sempre più marcata dal ‘56 in poi, ora si traduce nella coscienza che “le trasformazioni vere della società si preparano in altre sedi da quelle della politica. [...] La politica, anche le cosiddette rivoluzioni vengono dopo, a sancire, o a mistificare quello che è già in atto” (ma si già pensi alle affermazioni nell’intervista con Camon circa la sua sfiducia nella Storia e nei sistemi che pretendano di dominare la complessità del reale). Parlando della sua uscita dal PCI, la descrive come un progressivo abbandonare ogni ideologia prestabilita e un rendersi conto che “fatti e persone e problemi [...] andavano giudicati uno per uno [...]. Insomma, avevo capito che avrei dovuto fidarmi più dell’empirismo che corrispondeva al mio temperamento, che d’un rigore ideologico le cui regole era sempre qualcun altro a stabilire”. Anche per bocca del signor Palomar (cfr. ad esempio Il modello dei modelli) viene espressa l’idea di una morale che rinuncia a costringere la realtà in forme prestabilite e “preferisce tenere le proprie convinzioni allo stato fluido, verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio comportamento quotidiano”.
Se da una parte la politica non è capace di prevedere o progettare alcunché, dall’altra la letteratura non può capire altro che se stessa:
Nella mia gioventù [...] m’illudevo che mondo scritto e mondo non scritto si illuminassero a vicenda; che le esperienze di vita e le esperienze di lettura fossero in qualche modo complementari, e ad ogni passo avanti compiuto in un campo corrispondesse un passo avanti nell’altro. Oggi, posso dire che del mondo scritto conosco molto di più che una volta; all’interno dei libri, l’esperienza è sempre possibile, ma la sua portata non s’estende al di là del margine bianco della pagina. Invece, quello che succede nel mondo che mi circonda non finisce di sorprendermi, di spaventarmi, di disorientarmi.
L’atteggiamento di Calvino verso la realtà contemporanea si va sempre più caricando di pessimismo: “je m’attends toujours au pire. J’ai appris que, après le mal, très souvent vient le pire”, dichiarava nel ‘79 in un’intervista a “Le Monde”.
Una scorsa agli articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” mostra come la visione di Calvino inclinasse spesso verso un vero e proprio catastrofismo: il mondo gli appare “triste, inibito, depressivo”, la società gli sembra minacciare una “catastrofe [...]: quella di un lento impantanamento dove nulla può conservarsi e nulla crollare” e per definirla usa espressioni molto forti come “crollo”, “deserto”, “pestilenza”. “Deve essere ben chiaro - affermava nel ‘77 - che i prossimi quattrocento-cinquecento anni saranno i più duri della storia dell’umanità”.
Lo stesso pessimismo si applica alla visione della natura e dell’intero universo: un elenco di eventi naturali catastrofici (eruzioni, terremoti, alluvioni, siccità) gli serve a dimostrare che "il mondo è fragile, una rete di avvenimenti impercettibili e lentissimi che sono il solo campo in cui la capacità umana di guida e salvataggio può intervenire, ogni catastrofe è già successa da tempo quando ci si accorge che la terra trema, [...] non esiste movimento se non lento o lentissimo, [...] tutte le rivoluzioni sono già avvenute prima delle esplosioni spettacolari che segnano la loro data nella storia, ultimo atto spesso scontato e superfluo di ciò che da tempo è in marcia".
Si fa sempre più pressante l’idea che “l’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia” e che il mondo è “un sistema d’infinite relazioni di tutto con tutto” che nessun “modello mentale” potrà mai padroneggiare completamente. In Cominciare e finire, testo (poi scartato) che sarebbe dovuto entrare a far parte delle Lezioni americane, si cita esplicitamente il “secondo principio della termodinamica, della degradazione della materia in calore, della crescita dell’entropia, della morte termica dell’universo. La forza mitica di queste ipotesi scientifiche è tale che la nostra forma mentis ne è condizionata”. E si pensi, infine, al senso di sfacelo e di disfacimento che domina molte pagine del postumo Sotto il sole giaguaro (specialmente Il nome, il naso e Sapore sapere) o all’ossessione di una realtà brulicante, infinita, innumerevole che fa da sfondo alle osservazioni del signor Palomar (1).
Al Calvino scrittore resta solo la consapevolezza che “si scrive per tentare di sottrarre un frammento d’universo - non più grande della pagina che si scrive - alla degradazione generale”, mentre il Calvino degli articoli sul “Corriere” non può che fare appello “alla disciplina, alla fermezza, alla severità, più sostanzialmente liberatrici di qualsiasi velleità libertaria”.
Quando, nel ‘79 (in seguito al passaggio del “Corriere” dalla direzione di Ottone a quella di Di Bella), Calvino comincerà a scrivere sulla “Repubblica” dell’amico Scalfari, scompariranno quasi del tutto gli interventi sull’attualità e gli articoli di fondo, sostituiti da pezzi di terza pagina su temi letterari e da resoconti di mostre, esposizioni, viaggi, etc. (molti di questi scritti confluiranno poi in Collezione di sabbia).
Sta di fatto che ormai la distanza di Calvino dalla realtà contemporanea si era fatta incolmabile; in un’intervista con Daniele Del Giudice, parlando degli anni Settanta li definiva con l’espressione “non identificazione”:
Ci sono state molte cose in ballo, le ho vissute aperto agli sviluppi, ma sempre con riserva. [...]
Tra le Città invisibili ce n’è una su trampoli, e gli abitanti guardano dall’alto la propria assenza (2). Forse per capire chi sono devo osservare un punto nel quale potrei essere e non sto. [...] Se negli ultimi anni ho scritto perfino articoli di fondo sul “Corriere”, vuol dire che una parte di me, depositaria di una voce in tono grave e definita da Fortini “il padre nobile”, si tiene sempre presente. Non è che ne sia molto soddisfatto. Preferirei mandare in pensione questo padre nobile.
Il progetto giovanile di unire letteratura e società sembra ormai lontanissimo (“appartengo all’ultima generazione che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società. E l’uno e l’altro sono saltati in aria. Tutta la mia vita è stata un riconoscere validità a cose cui avevo detto «no»”). Ciò che si salva è la profonda istanza morale che aveva sempre costituito la base della sua ricerca letteraria:
Ciò che scrivo devo giustificarlo, anche di fronte a me stesso, con qualcosa non solo individuale. Forse perché vengo da una famiglia di credo laico e scientifico intransigente [...]. Sottrarmi a quella morale, ai doveri del piccolo proprietario agricolo, mi ha fatto sentire in colpa. Il mio mondo fantastico mi sembrava non abbastanza importante per giustificarsi in sé. Ci voleva un quadro generale. [...] Scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere.
“All’epoca in cui ho cominciato a scrivere - dichiarava qualche anno più tardi - cioè nei primi anni Quaranta, c’era un’idea di morale che doveva dar forma allo stile, e questo è forse ciò che più mi è rimasto, di quel clima della letteratura italiana d’allora, attraverso tutta la distanza che ci separa”.
--------
(1) Ma già nel ‘73 il Castello dei destini incrociati si chiudeva con le apocalittiche parole di Macbeth: “Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro”.
(2) Si tratta della città di Bauci, che, come notava Claudio Milanini (cfr. L’utopia discontinua, Garzanti 1990, pag. 144), porta il nome del personaggio ovidiano che, nel libro VIII delle Metamorfosi, riceve insieme al marito Filemone la visita degli dei, venendo premiata per l’ospitalità dimostrata: anche secondo Cristina Benussi, non è casuale che questa città sia collocata esattamente al centro del libro (è la ventottesima delle 55 città descritte), quasi a sottolineare la centralità di questa “utopia dell’assenza”. Anche lo schema di carte della Taverna dei destini incrociati aveva al centro uno spazio vuoto; si pensi inoltre alle pagine delle Città invisibili in cui a Kublai sembra che tutta la conoscenza si riduca a nulla, a un tassello di legno della scacchiera.
In un articolo comparso sul “Corriere della Sera” del 23 settembre 1979 (Del prendere posizione), Calvino scriveva:
Sempre più spesso m’avviene di non saper prendere posizione di fronte a problemi che dividono l’opinione pubblica. In molti casi sento che le mie conoscenze dei dati di fatto sono insufficienti per fissare il mio giudizio[...]. Vorrà dire che i nomi e gli schemi con cui ero andato imparando a classificare i fatti, ora designano fatti diversi come qualità e sostanza, irriducibili a quegli schemi? Sarà segno che il mondo in cui vivo non è più un mondo in cui io possa - non dico influire: queste illusioni le ho perse da un pezzo - almeno riconoscere il mio posto? [...]
Per quanto cerchi di rappresentarmi i vantaggi, dal rifiuto dei tempi in cui vivo non riesco a spremere alcuna soddisfazione. Abituato a definirmi in relazione al discorso degli altri, [...] da tempo non riesco a recuperare che brandelli di conversazione intellegibile affioranti da un mare di rumore indistinto.
Negli anni dal ‘74 in poi, Calvino ritorna a scrivere sui quotidiani (prima il “Corriere della Sera”, poi, dal 1979, “la Repubblica”) e torna ad occuparsi, almeno per quanto riguarda gli articoli del “Corriere”, anche di fatti di cronaca e di attualità politica nazionale e internazionale. Sembrerebbe un riaffacciarsi del Calvino “impegnato”, dopo la parentesi di assenza dall’attualità che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta: ma l’analisi dei suoi scritti di questi anni viene subito a confutare quest’ipotesi.
Nella prima metà degli anni Sessanta Calvino, di fronte alla sempre crescente complessità di un mondo che rifiutava di farsi dominare dalla ragione, aveva tentato affannosamente di salvare uno spazio di intervento per l’intellettuale o almeno una possibilità di cercare ancora una via d’uscita dal “labirinto”; fra il ‘65 e la metà degli anni Settanta si era rivolto a metodi di indagine “interni” all’oggetto letterario (semiologia, strutturalismo, critica “antropologica” e “archetipica”), nella speranza che essi gli fornissero uno spiraglio verso il “fuori” (la società, la storia); ora, anche le residue possibilità che la letteratura potesse fornire un progetto o almeno una chiave di lettura per la realtà sembrano svanite, sostituite da un pessimismo che si farà via via più tendente all’apocalittico e al catastrofico.
Le dichiarazioni sulla necessità di continuare a cercare di “rendere più umano e più abitabile il mondo in cui viviamo” e sulla sua fiducia nelle capacità di “immaginazione” e di “coraggio” della società italiana si alternano ad altre, sempre più sfiduciate, sulla crisi irreversibile di un “principio di razionalità e di progresso” di origine illuministica e sulla mancanza di “attendibili modelli alternativi” (cfr. Con gli strumenti dell’ironia, “Avanti!”, 15-16 febbraio 1981 e Italo Calvino, classique romantique, “Le Monde”, 16 décembre 1979).
Se in questi anni Calvino interviene su fatti d’attualità (le stragi “nere”, il caso Moro, le Brigate Rosse, il Watergate, il delitto del Circeo, la corsa agli armamenti, la legge sull’aborto), lo fa per puro senso di responsabilità civile, in quanto cittadino che, scrivendo sui giornali, può esprimere la sua voce in maniera pubblica (“se scriviamo sui giornali è perché lo spazio in cui la parola può operare non si chiuda”), ma la possibilità che l’intellettuale possa avere un effettivo peso nella politica e nella storia sembra appartenere definitivamente al passato.
Nella conferenza del ‘76 dal titolo Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, si legge:
Negli ultimi anni [...] mi è capitato spesso di preoccuparmi di come vanno le cose politiche e di come vanno le cose letterarie, ma quando penso alla politica penso solo alla politica e quando penso alla letteratura penso solo alla letteratura. Oggi affrontando queste due problematiche provo due sensazioni separate, e sono entrambe sensazioni di vuoto: il vuoto di un progetto politico in cui io possa credere, e il vuoto d’un progetto letterario in cui io possa credere.
L’analisi della vita culturale italiana dagli anni Sessanta in poi approda alla constatazione che “l’idea dell’uomo come soggetto della storia è finita. [...] Tutti i parametri, le categorie, le antitesi che usavamo per definire, classificare, progettare il mondo sono messi in discussione”. La contestazione letteraria e politica della neoavanguardia non è riuscita a recuperare un’istanza propositiva, al di là della pura e semplice “negazione”.
Qual è dunque il posto che la letteratura può avere nel contesto di una società? Ciò che essa può offrire di specifico è la “capacità d’imporre modelli di linguaggio, d’immaginazione, di visione, di lavoro mentale”, mirare alla “costruzione d’un ordine mentale così solido e complesso da contenere in sé il disordine del mondo”.
Non si può fare a meno di notare quanto si sia ristretto il campo d’azione dell’intellettuale: l’unico ordine possibile è quello interno alla letteratura, un ordine astratto, mentale, senza più speranza di influire direttamente sul corso degli eventi. L’utopia si è definitivamente rinchiusa in un “mondo scritto” irrimediabilmente “altro” rispetto al disordine e all’entropia del “mondo non scritto”.
Questa divaricazione tra politica e letteratura finisce per essere una delle cifre dominanti della produzione calviniana degli ultimi anni: la sfiducia nella politica come attività “totalizzante”, che si era fatta sempre più marcata dal ‘56 in poi, ora si traduce nella coscienza che “le trasformazioni vere della società si preparano in altre sedi da quelle della politica. [...] La politica, anche le cosiddette rivoluzioni vengono dopo, a sancire, o a mistificare quello che è già in atto” (ma si già pensi alle affermazioni nell’intervista con Camon circa la sua sfiducia nella Storia e nei sistemi che pretendano di dominare la complessità del reale). Parlando della sua uscita dal PCI, la descrive come un progressivo abbandonare ogni ideologia prestabilita e un rendersi conto che “fatti e persone e problemi [...] andavano giudicati uno per uno [...]. Insomma, avevo capito che avrei dovuto fidarmi più dell’empirismo che corrispondeva al mio temperamento, che d’un rigore ideologico le cui regole era sempre qualcun altro a stabilire”. Anche per bocca del signor Palomar (cfr. ad esempio Il modello dei modelli) viene espressa l’idea di una morale che rinuncia a costringere la realtà in forme prestabilite e “preferisce tenere le proprie convinzioni allo stato fluido, verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio comportamento quotidiano”.
Se da una parte la politica non è capace di prevedere o progettare alcunché, dall’altra la letteratura non può capire altro che se stessa:
Nella mia gioventù [...] m’illudevo che mondo scritto e mondo non scritto si illuminassero a vicenda; che le esperienze di vita e le esperienze di lettura fossero in qualche modo complementari, e ad ogni passo avanti compiuto in un campo corrispondesse un passo avanti nell’altro. Oggi, posso dire che del mondo scritto conosco molto di più che una volta; all’interno dei libri, l’esperienza è sempre possibile, ma la sua portata non s’estende al di là del margine bianco della pagina. Invece, quello che succede nel mondo che mi circonda non finisce di sorprendermi, di spaventarmi, di disorientarmi.
L’atteggiamento di Calvino verso la realtà contemporanea si va sempre più caricando di pessimismo: “je m’attends toujours au pire. J’ai appris que, après le mal, très souvent vient le pire”, dichiarava nel ‘79 in un’intervista a “Le Monde”.
Una scorsa agli articoli pubblicati sul “Corriere della Sera” mostra come la visione di Calvino inclinasse spesso verso un vero e proprio catastrofismo: il mondo gli appare “triste, inibito, depressivo”, la società gli sembra minacciare una “catastrofe [...]: quella di un lento impantanamento dove nulla può conservarsi e nulla crollare” e per definirla usa espressioni molto forti come “crollo”, “deserto”, “pestilenza”. “Deve essere ben chiaro - affermava nel ‘77 - che i prossimi quattrocento-cinquecento anni saranno i più duri della storia dell’umanità”.
Lo stesso pessimismo si applica alla visione della natura e dell’intero universo: un elenco di eventi naturali catastrofici (eruzioni, terremoti, alluvioni, siccità) gli serve a dimostrare che "il mondo è fragile, una rete di avvenimenti impercettibili e lentissimi che sono il solo campo in cui la capacità umana di guida e salvataggio può intervenire, ogni catastrofe è già successa da tempo quando ci si accorge che la terra trema, [...] non esiste movimento se non lento o lentissimo, [...] tutte le rivoluzioni sono già avvenute prima delle esplosioni spettacolari che segnano la loro data nella storia, ultimo atto spesso scontato e superfluo di ciò che da tempo è in marcia".
Si fa sempre più pressante l’idea che “l’universo si disfa in una nube di calore, precipita senza scampo in un vortice d’entropia” e che il mondo è “un sistema d’infinite relazioni di tutto con tutto” che nessun “modello mentale” potrà mai padroneggiare completamente. In Cominciare e finire, testo (poi scartato) che sarebbe dovuto entrare a far parte delle Lezioni americane, si cita esplicitamente il “secondo principio della termodinamica, della degradazione della materia in calore, della crescita dell’entropia, della morte termica dell’universo. La forza mitica di queste ipotesi scientifiche è tale che la nostra forma mentis ne è condizionata”. E si pensi, infine, al senso di sfacelo e di disfacimento che domina molte pagine del postumo Sotto il sole giaguaro (specialmente Il nome, il naso e Sapore sapere) o all’ossessione di una realtà brulicante, infinita, innumerevole che fa da sfondo alle osservazioni del signor Palomar (1).
Al Calvino scrittore resta solo la consapevolezza che “si scrive per tentare di sottrarre un frammento d’universo - non più grande della pagina che si scrive - alla degradazione generale”, mentre il Calvino degli articoli sul “Corriere” non può che fare appello “alla disciplina, alla fermezza, alla severità, più sostanzialmente liberatrici di qualsiasi velleità libertaria”.
Quando, nel ‘79 (in seguito al passaggio del “Corriere” dalla direzione di Ottone a quella di Di Bella), Calvino comincerà a scrivere sulla “Repubblica” dell’amico Scalfari, scompariranno quasi del tutto gli interventi sull’attualità e gli articoli di fondo, sostituiti da pezzi di terza pagina su temi letterari e da resoconti di mostre, esposizioni, viaggi, etc. (molti di questi scritti confluiranno poi in Collezione di sabbia).
Sta di fatto che ormai la distanza di Calvino dalla realtà contemporanea si era fatta incolmabile; in un’intervista con Daniele Del Giudice, parlando degli anni Settanta li definiva con l’espressione “non identificazione”:
Ci sono state molte cose in ballo, le ho vissute aperto agli sviluppi, ma sempre con riserva. [...]
Tra le Città invisibili ce n’è una su trampoli, e gli abitanti guardano dall’alto la propria assenza (2). Forse per capire chi sono devo osservare un punto nel quale potrei essere e non sto. [...] Se negli ultimi anni ho scritto perfino articoli di fondo sul “Corriere”, vuol dire che una parte di me, depositaria di una voce in tono grave e definita da Fortini “il padre nobile”, si tiene sempre presente. Non è che ne sia molto soddisfatto. Preferirei mandare in pensione questo padre nobile.
Il progetto giovanile di unire letteratura e società sembra ormai lontanissimo (“appartengo all’ultima generazione che ha creduto in un disegno di letteratura inserito in un disegno di società. E l’uno e l’altro sono saltati in aria. Tutta la mia vita è stata un riconoscere validità a cose cui avevo detto «no»”). Ciò che si salva è la profonda istanza morale che aveva sempre costituito la base della sua ricerca letteraria:
Ciò che scrivo devo giustificarlo, anche di fronte a me stesso, con qualcosa non solo individuale. Forse perché vengo da una famiglia di credo laico e scientifico intransigente [...]. Sottrarmi a quella morale, ai doveri del piccolo proprietario agricolo, mi ha fatto sentire in colpa. Il mio mondo fantastico mi sembrava non abbastanza importante per giustificarsi in sé. Ci voleva un quadro generale. [...] Scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere.
“All’epoca in cui ho cominciato a scrivere - dichiarava qualche anno più tardi - cioè nei primi anni Quaranta, c’era un’idea di morale che doveva dar forma allo stile, e questo è forse ciò che più mi è rimasto, di quel clima della letteratura italiana d’allora, attraverso tutta la distanza che ci separa”.
--------
(1) Ma già nel ‘73 il Castello dei destini incrociati si chiudeva con le apocalittiche parole di Macbeth: “Sono stanco che Il Sole resti in cielo, non vedo l’ora che si sfasci la sintassi del Mondo, che si mescolino le carte del gioco, i fogli dell’in-folio, i frantumi di specchio del disastro”.
(2) Si tratta della città di Bauci, che, come notava Claudio Milanini (cfr. L’utopia discontinua, Garzanti 1990, pag. 144), porta il nome del personaggio ovidiano che, nel libro VIII delle Metamorfosi, riceve insieme al marito Filemone la visita degli dei, venendo premiata per l’ospitalità dimostrata: anche secondo Cristina Benussi, non è casuale che questa città sia collocata esattamente al centro del libro (è la ventottesima delle 55 città descritte), quasi a sottolineare la centralità di questa “utopia dell’assenza”. Anche lo schema di carte della Taverna dei destini incrociati aveva al centro uno spazio vuoto; si pensi inoltre alle pagine delle Città invisibili in cui a Kublai sembra che tutta la conoscenza si riduca a nulla, a un tassello di legno della scacchiera.
giovedì 26 febbraio 2009
anniversari
Oggi a Perugia era una bella giornata. Dopo pranzo l'aria era quasi calda, perciò mi sono deciso a fare quel che avrei dovuto fare da parecchie settimane, da prima che le piante cominciassero a cacciar fuori le gemme nuove: ho vinto la mia idiosincrasia per i lavori manuali e il mio odio per il mondo vegetale, ho indossato abiti vecchi e guanti da giardinaggio, ho impugnato cesoie e forbicioni e mi sono messo a cimare la siepe di Crataegus (vulgariter biancospino) che separa il mio giardino dalla strada.
Come succede quando si fanno lavori manuali, dopo un po' la mente si è sganciata e ha cominciato a vagare per conto proprio, mantenendo con la realtà solo quel minimo di contatto necessario a decidere punto e angolazione del taglio e ad evitare le spine, lunghe, dure e affilate come denti di pescecane.
Per una catena di pensieri che qui non è il caso di ricapitolare, sono arrivato a Italo Calvino, e in particolare a certi suoi saggi letterari. E così, per puro caso, mi sono ricordato che qualche giorno fa, il 22 febbraio, facevano dieci anni dalla mia laurea.
Il 22 febbraio 1999 ero uno studente fuori sede non ancora ventiquattrenne (ventitrè anni, undici mesi e diciannove giorni, per la precisione), con una barbetta castana rada e tendente qua e là al rossiccio che non si decideva a trovare un verso e lasciava scoperte chiazze di pelle, magro e allampanato ancor più di adesso (e ancora adesso sono un bel po' magro), imbottito di letture e di jazz. Da pochi mesi stavo insieme alla ragazza che, sette anni più tardi, avrei sposato. Stavo spurgando gli ultimi residui della mia adolescenza ed ero in attesa della chiamata per il servizio civile.
La mia tesi era una voluminosa trattazione dell'opera saggistica di Calvino.
Italo Calvino era sempre stato uno dei miei amori, da quando in terza media la mia professoressa d'italiano, amica di famiglia, mi aveva regalato "I nostri antenati". L'opera narrativa l'avevo già letta tutta, anche più di una volta, e per scrivere la tesi mi ero tuffato in quella saggistica, distruggendo a furia di note e sottolineature i due volumi dei Meridiani Mondadori.
Ne era venuto fuori un tomone di oltre trecento pagine, nel quale seguivo l'evoluzione del Calvino critico letterario e teorico della letteratura, e in particolare il modo in cui i suoi saggi rispecchiavano i mutamenti della sua scrittura e della sua visione del mondo.
La tesi è rimasta lì, su uno scaffale della casa in Puglia, a prendere polvere. Per motivi che sarebbe lungo e inutile spiegare, non ho proseguito su quella strada ma ne ho prese altre, e in fondo è stato meglio così.
Però oggi non ho resistito alla tentazione: ho frugato nella memoria dello scassatissimo, antidiluviano computer che usavo all'epoca (e che, incredibile, si accende ancora) e ne ho estratto i file della tesi, per miracolo ancora leggibili.
Ci ho ritrovato un ritratto quasi commovente di quel che ero allora, con tutti i turgori stilistici, le ridondanze argomentative, la voglia di dire tutto su tutto.
E, se devo essere onesto, ci ho ritrovato molte idee che in fondo sono ancora valide.
Nei prossimi giorni proverò a pubblicare qui sul blog qualche stralcio che mi sembra più interessante.
new directions
Segnalo questo intenso testo appena uscito su Nazione Indiana.
E' un racconto che parla di jazz, ma anche di molto altro. L'autore è anche autore di uno dei più bei blog jazzistici italiani, Jazz from Italy, che ho già segnalato qualche giorno fa.
Il testo è corredato dagli splendidi disegni di Maurizio Ribichini.
NEW DIRECTIONS - Le stelle del ‘79
di Jazzfromitaly
In effetti non capitava spesso, ma quella volta mia madre si era proprio impuntata.
L’ultima volta che avevano litigato per lo stesso motivo, era all’inizio di quell’anno, alla fine di un freddissimo gennaio, quando mio padre volle andare a Genova per partecipare ad un funerale.
Lui, alla fine, se ne andò sbattendo la porta, infuriato e praticamente cieco alla ragione, ed io ricordo ancora la corsa di mia madre alla finestra, dalla quale anche io mi affacciai, per vedere solamente mio padre salire in macchina di Sergio, lo zio Sergio.
L’altro ricordo è legato al suo rientro, a notte fonda. Mentre mia madre gli scaldava una tazza di latte lui se ne stava seduto al tavolo della cucina, in silenzio.
Quando li raggiunsi, mio padre aveva gli occhi rossi, mi fece sedere sulle sue gambe e mi chiese perché non dormivo.
Io gli dissi che volevo sapere perché era andato lontano, come era questa città e di chi era il funerale.
Lui mi mise addosso il suo maglione grigio e mi disse soltanto che era morto un amico, che avevamo perso un fratello, che avevano ammazzato un compagno.
Mi disse che era stata anche colpa sua, se Guido non c’era più.
Poi aggiunse che non si può restare fermi a guardare, che la vita di un fratello vale quanto la tua.
Questo lo disse due volte, guardandomi negli occhi e chiedendomi se avevo capito.
Io non capii molto, ma ero contento di averlo a casa e nelle sue parole trovai il senso recondito di una grande lezione, un legame indissolubile tra amore e dolore ed una necessaria bellezza nel partecipare alle cose.
E' un racconto che parla di jazz, ma anche di molto altro. L'autore è anche autore di uno dei più bei blog jazzistici italiani, Jazz from Italy, che ho già segnalato qualche giorno fa.
Il testo è corredato dagli splendidi disegni di Maurizio Ribichini.
NEW DIRECTIONS - Le stelle del ‘79
di Jazzfromitaly
In effetti non capitava spesso, ma quella volta mia madre si era proprio impuntata.
L’ultima volta che avevano litigato per lo stesso motivo, era all’inizio di quell’anno, alla fine di un freddissimo gennaio, quando mio padre volle andare a Genova per partecipare ad un funerale.
Lui, alla fine, se ne andò sbattendo la porta, infuriato e praticamente cieco alla ragione, ed io ricordo ancora la corsa di mia madre alla finestra, dalla quale anche io mi affacciai, per vedere solamente mio padre salire in macchina di Sergio, lo zio Sergio.
L’altro ricordo è legato al suo rientro, a notte fonda. Mentre mia madre gli scaldava una tazza di latte lui se ne stava seduto al tavolo della cucina, in silenzio.
Quando li raggiunsi, mio padre aveva gli occhi rossi, mi fece sedere sulle sue gambe e mi chiese perché non dormivo.
Io gli dissi che volevo sapere perché era andato lontano, come era questa città e di chi era il funerale.
Lui mi mise addosso il suo maglione grigio e mi disse soltanto che era morto un amico, che avevamo perso un fratello, che avevano ammazzato un compagno.
Mi disse che era stata anche colpa sua, se Guido non c’era più.
Poi aggiunse che non si può restare fermi a guardare, che la vita di un fratello vale quanto la tua.
Questo lo disse due volte, guardandomi negli occhi e chiedendomi se avevo capito.
Io non capii molto, ma ero contento di averlo a casa e nelle sue parole trovai il senso recondito di una grande lezione, un legame indissolubile tra amore e dolore ed una necessaria bellezza nel partecipare alle cose.
(continua su Nazione Indiana)
mercoledì 25 febbraio 2009
tre poesie della lontananza
Febbrère, curte e amère
'Mmiéje e ccume fa fridde
pure pe ddind'aa chèse
m'ha sumendète 'nganne
na sfattugghje
ca pure ch'avessa murì mo'
manghe me na fedasse
a javezarme
manghe me n'addunasse.
Febbraio, corto e amaro // Cazzo come fa freddo / anche in casa // mi ha seminato in gola / un'accidia / che anche se dovessi morire adesso / nemmeno ce la farei / ad alzarmi // nemmeno me ne accorgerei.
* * *
Lundène, lundène assà'
Vulesse sulamente vvascià a chèpe
e truwarte pe 'nnanze
me vulesse ngavedà
sott'a na scelle
ccum'a na vucellucce.
Lontano, tanto lontano // Vorrei solamente abbassare la testa / e trovarmiti davanti / vorrei riscaldarmi / sotto un'ala / come un'uccellino.
* * *
Dope ch'ha chiòvete
Dope ch'ha chiòvete u ciéle ce sduwèche
ccum'a nu para d'occhje ca ce ddòrmene
l'arje ce rèpe ccum'a nu panne spèse
te' n'addore de jèreva mbusse
ca ce bburrute pe ssop'a facce
n'de fa 'lluscià cchiù
ma ji tenghe i mène ca jattèjene
vanne truwanne quache ccose
ca u sàpene sule lore
so' ppruffediuse
ne mm'u vonne disce.
Dopo la pioggia // Dopo la pioggia il cielo si svuota / come un paio d'occhi che si addormentano / l'aria si apre come un panno steso / ha un odore di erba bagnata / che che si avvolge sulla faccia / non ti fa vedere più // ma io ho le mani che vagabondano / vanno in cerca di qualcosa / che sanno solo loro // sono puntigliose / non vogliono dirmelo
lunedì 23 febbraio 2009
fenomenologia di paolone
Quest'ultimo festival di Sanremo, che non ho visto ma i cui echi mediatici non ho potuto evitare, mi ha fatto riflettere sul personaggio-Bonolis.
Quando dico che Bonolis non mi piace, in genere mi si risponde con due obiezioni: "è simpatico" ed "è bravo".
Ora, la prima obiezione coglie proprio uno dei punti fondamentali: Bonolis incarna uno dei tipi umani che maggiormente detesto, quello del "simpaticone". Ossia, colui che ha come scopo principale il piacere agli altri, e che non esita a usare qualsiasi mezzo per raggiungere lo scopo.
Il simpaticone è, in un certo senso, un narcisista al contrario: il narcisista subordina tutti gli sguardi altrui al proprio, riesce a pensarsi solo come oggetto dell'altrui contemplazione, come centro di una raggiera di sguardi convergenti; il simpaticone subordina se stesso allo sguardo altrui e ritiene di esistere solo rifrangendosi e scomponendosi nelle altrui risate. Il narcisista è centripeto, il simpaticone centrifugo. Il narcisista si pone su un piedistallo e pretende di essere adorato, rimanendo sostanzialmente solo; il simpaticone scende da qualunque piedistallo per arrivare alla portata delle spalle altrui, per darci sopra delle gran pacche, per essere abbracciato, incluso nel gruppo.
In fondo, il simpaticone è un manipolatore ancor più subdolo e protervo del narcisista: riesce ad abbindolarti con il mimetismo, fingendo di essere come te, persino al di sotto di te. Quel che dice è secondario, l'importante è dirlo, dar fiato alla bocca, non lasciare a nessuno tempo o modo per riflettere, sommergere l'ascoltatore con una raffica di informazioni, ognuna delle quali oblitera le precedenti.
E qui veniamo al secondo punto: Bonolis è bravo? Certo che è bravo, è una macchina da guerra, uno schiacciasassi massmediologico. La più diabolica delle sue abilità è il saper cogliere gli umori del pubblico e saperglieli rilanciare, compressi in una pastiglia televisiva di agevole ingestione. E non sto parlando dei gusti di una parte del pubblico, ma di tutto il pubblico, contemporaneamente. Bonolis è ubiquo, proteiforme: conservatore e progressista, difende i gay ma anche la buona famiglia di una volta, intervista Hugh Hefner ma è un marito fedele, fa parlare la pornostar seminuda e poi la fa portare via ma raccomandandosi di trattarla bene, è ammiccante ma anche moralista, fa lo scemo ma sembra intelligente, suda ma non dà mai l'idea di puzzare, non dice niente ma sembra che abbia detto tutto, guadagna miliardi ma ti pare che possa essere il tuo vicino di casa, si agita come un tarantolato pur rimanendo, in fin dei conti, un manichino.
Paolo Bonolis è la summa della televisione contemporanea, e in questo è il perfetto rappresentante della società liquida, in cui l'importante non è avere una forma, ma essere in grado di assumerle tutte. Se possibile, tutte nello stesso momento.
Quando dico che Bonolis non mi piace, in genere mi si risponde con due obiezioni: "è simpatico" ed "è bravo".
Ora, la prima obiezione coglie proprio uno dei punti fondamentali: Bonolis incarna uno dei tipi umani che maggiormente detesto, quello del "simpaticone". Ossia, colui che ha come scopo principale il piacere agli altri, e che non esita a usare qualsiasi mezzo per raggiungere lo scopo.
Il simpaticone è, in un certo senso, un narcisista al contrario: il narcisista subordina tutti gli sguardi altrui al proprio, riesce a pensarsi solo come oggetto dell'altrui contemplazione, come centro di una raggiera di sguardi convergenti; il simpaticone subordina se stesso allo sguardo altrui e ritiene di esistere solo rifrangendosi e scomponendosi nelle altrui risate. Il narcisista è centripeto, il simpaticone centrifugo. Il narcisista si pone su un piedistallo e pretende di essere adorato, rimanendo sostanzialmente solo; il simpaticone scende da qualunque piedistallo per arrivare alla portata delle spalle altrui, per darci sopra delle gran pacche, per essere abbracciato, incluso nel gruppo.
In fondo, il simpaticone è un manipolatore ancor più subdolo e protervo del narcisista: riesce ad abbindolarti con il mimetismo, fingendo di essere come te, persino al di sotto di te. Quel che dice è secondario, l'importante è dirlo, dar fiato alla bocca, non lasciare a nessuno tempo o modo per riflettere, sommergere l'ascoltatore con una raffica di informazioni, ognuna delle quali oblitera le precedenti.
E qui veniamo al secondo punto: Bonolis è bravo? Certo che è bravo, è una macchina da guerra, uno schiacciasassi massmediologico. La più diabolica delle sue abilità è il saper cogliere gli umori del pubblico e saperglieli rilanciare, compressi in una pastiglia televisiva di agevole ingestione. E non sto parlando dei gusti di una parte del pubblico, ma di tutto il pubblico, contemporaneamente. Bonolis è ubiquo, proteiforme: conservatore e progressista, difende i gay ma anche la buona famiglia di una volta, intervista Hugh Hefner ma è un marito fedele, fa parlare la pornostar seminuda e poi la fa portare via ma raccomandandosi di trattarla bene, è ammiccante ma anche moralista, fa lo scemo ma sembra intelligente, suda ma non dà mai l'idea di puzzare, non dice niente ma sembra che abbia detto tutto, guadagna miliardi ma ti pare che possa essere il tuo vicino di casa, si agita come un tarantolato pur rimanendo, in fin dei conti, un manichino.
Paolo Bonolis è la summa della televisione contemporanea, e in questo è il perfetto rappresentante della società liquida, in cui l'importante non è avere una forma, ma essere in grado di assumerle tutte. Se possibile, tutte nello stesso momento.
domenica 22 febbraio 2009
moderno, non-moderno
Una breve riflessione di Giulio Mozzi sul concetto di "modernità" in letteratura e in arte. Da vibrisse.
visto da lontano
In genere non lo vedo, Sanremo. E non per snobismo o spocchia, ma perché quattro giorni, quattro ore al giorno, proprio non le reggo. Se poi c'è Bonolis, non reggo nemmeno quattro minuti.
Anzi, per la precisione: in genere mi capita di fermarmi ogni tanto sul Festival, se sto vedendo la TV, nella speranza di beccare qualche bella canzone (capita anche questo), poi recupero solo la parte musicale, tramite la radio o internet.
Quest'anno è successo che ero in giro per lavoro tutta la settimana, quindi non ho proprio visto niente. Perciò ho deciso di fare un'esperimento: vedere che cosa mi sarebbe comunque arrivato del festival.
Dunque, questo è quello che ho captato, dall'esterno:
- Bonolis non ha perso la parlantina e continua a lanciarsi in acrobazie sintattiche come "abbiamo tentato di salvaguardare l'attivazione per i giovani della possibilità di accedere alla partecipazione al festival";
- Luca Laurenti canta meglio della maggior parte dei cantanti;
- hanno vinto, come al solito, le canzoni più brutte, in ordine decrescente di bruttezza dalla prima alla terza;
- la vincitrice della sezione giovani è identica a Chicken Little;
- i giovani: una era la figlia di Zucchero, una era la figlia di uno dei Pooh (ma non bastava DJ Francesco?), un'altra cantava con Dalla e aveva sessant'anni, due erano figlie di extracomunitari ed erano quelle che cantavano meglio;
- i giovani sono più vecchi dei vecchi;
- quelli che negli anni Sessanta erano giovani ora sono vecchi, ma sono sempre lì;
- Patty Pravo ha mostrato le tette;
- una ballerina ha mostrato le tette;
- una pornostar è salita sul palco travestita da pantera e ha mostrato le tette;
- Iva Zanicchi ha chiesto di essere trombata a lungo;
- Al Bano andrebbe pietosamente soppresso;
- Marco Carta non esiste;
- Marco Masini è ancora convinto che dire "coglione" e "merda" faccia tanto "ggente";
- non è colpa di Bonolis se gli hanno offerto un milione di euro, ma è responsabilità sua aver affermato che si tratta di "un compenso equo";- qualcuno dei cantanti ha duettato con una soprano e questo dimostra che è stato un festival di "alto profilo artistico";
- Benigni non è completamente rincoglionito; stavolta perlomeno non si è portato dietro quel torso di cavolo della moglie;
- De Andrè è diventato un santino buono da esibire per tutte le occasioni;
- Luca era gay, ora sta con lei, ma era gay solo per sfuggire a una madre oppressiva e a un padre alcolista, leggeva Freud e non trovava risposte, ora è un altro uomo, dall'omosessualità si può guarire;
- un ottantaduenne piuttosto malridotto, Viagra-dipendente, si è fatto accompagnare all'Ariston da un paio di troiette in cerca di fama e, per ragioni sconosciute, è stato intervistato;
- c'è gente convinta, davvero convinta, che Mino Reitano, buonanima, fosse un grande artista;
- c'è gente convinta, davvero convinta, che Giovanni Allevi sia un musicista;
- Bonolis continua a starmi sul cazzo;- Bonolis piace agli italiani: forse è per questo che gli italiani non piacciono a me.
sabato 21 febbraio 2009
tre poesie di albino pierro
E si fè pétre u core
Ci uéra passè cuntente
nda stu frusce,
mo ca sta chèpa méje è nu battàgghje
ca ni scàfete u core a na campène.
Nun m'arricorde cchiù si c'éte u munne
alligistrète e ferme nda nu mòzziche
di tinàgghie,
o si c'è sempre stète, com'a mo,
stu routamente
di cose ca ci grìrene e s'arràjene
ci s'arràggene e fìschene e su' diàue
a cavalle d'u vente.
E accussì 'a matasse si mbrògghiete
e si fè pétre u core
addù cchiù nente si ssògghiete.
E si fa pietra il cuore // Vorrei passarci contento / in questo fracasso / or che questa mia testa è un battaglio / che glielo scava il cuore a una campana. // Non mi ricordo più se c'è il mondo / ordinato e immobile in un morso / di tenaglie, / o se ci è sempre stato, come adesso / questo rivolgimento / di cose che ci gridano e s'azzuffano / ci s'arrabbiano e fischiano e son diavoli / a cavallo del vento. // E così la matassa s'imbroglia / e si fa pietra il cuore / dove più niente si scioglie.
* * *
Sùu nente
Sùu nente, nente,
e vèv'acchianne...
E ll'ate, ll'ate,
cchigghi'è ca su'?
"Ma su' tutte quante com'a tti"
amminàzzete u vente.
E accussì m'arricètte
e non ci penze cchiù
ca m'hè scardète e scàrdete n'accette.
Sono niente // Sono niente, niente, / e vado cercando... // E gli altri, gli altri / che cosa sono? / "Ma son tutti quanti come te" / minaccia il vento. // E così trovo pace / e non ci penso più / che mi ha scheggiato e scheggia un'accetta.
* * *
Nu pacce
Nu pacce,
nun mòrete mèi a què:
ci nàscete e ci rumànete
come ll'èrve nd'i mure di na chése
addù ci si fè toste
e allè pizzute
e sempe cchiù tagghiènte
po' ci scàfete.
E nun ti làssete cchiù,
e appresse appresse ti vènete
citte com'a nu spìrite
ca ti fè torce 'a vucche, 'a notte,
nd'u sonne.
E u scure ti ci arravògghiete
nda na cose ca rìrete.
Un folle // Un folle, / non muore mai qui: / ci nasce e ci rimane / come l'erba fra i muri d'una casa / dove ci s'indurisce / e là puntuta / e sempre più tagliente / poi ci scava. // E non ti lascia più, / e appresso appresso ti viene / zitto come uno spirito / che la bocca, di notte, ti fa torcere / nel sonno. // E il buio ti ci avvolge / in una cosa che ride.
il catalogo è questo
Due giorni dai miei, giù in Puglia.
Risparmio l'elenco degli amarcord, perché sono sia strettamente personali, sia impossibili da rendere a parole.
Piuttosto, ho approfittato per fare il catalogo dei libri che ho lasciato qui senza averli letti.
Risultato: saggistica 30 titoli, poesia e teatro 33, narrativa 96.
E non si tratta nemmeno di robetta leggera: Buio a mezzogiorno di Koestler, Oblomov di Goncharov, L'uragano di novembre di Hrabal, i Saggi italiani e La verifica dei poteri di Fortini, Homo ludens di Huizing, L'idea del Barocco di Luciano Anceschi, Notti sull'altura di Bonaviri, La religione del mio tempo di Pasolini, L'impiego del tempo di Butor, Il re degli ontani di Tournier, Il ponte della Ghisolfa di Testori, i Racconti di Romano Bilenchi, quelli di Durrenmatt, Le anime morte di Gogol', Querelle de Brest di Genet, Bambini nel tempo di McEwan, e poi le poesie di Trakl, Mallarmé, Machado, Valentino Zeichen, Sergio Solmi, Rilke, Valéry, l'Elogio della follia, i Ricordi di Marco Aurelio, il Viaggio in Italia e il Faust di Goethe, Il deserto del sogno di Caillois, Impressioni d'Africa di Roussel, La cognizione del dolore, il Viaggio attorno alla mia camera, L'idiota, I fratelli Karamazov, Gargantua e Pantagruele, il Don Chisciotte.
E sto parlando solo dei libri miei, quelli che ho comprato io: non ho nemmeno osato aprire le librerie nello studio di mio padre (centinaia di volumi d'arte, storia, archeologia) o in camera di mia sorella.
Molti altri libri, almeno altrettanti temo, sono in attesa a Perugia, sparsi tra la casa e il garage.
Pensavo che se smettessi di lavorare e fino alla fine dei miei giorni non facessi altro che leggere, senza comprarne altri, forse riuscirei a smaltirli.
O forse potrei lasciarli ai miei figli e nipoti. Chissà se mi sarebbero grati o se mi maledirebbero, e li manderebbero tutti al macero.
sono solo canzonette?
La vecchia e dibattuta questione, se la canzone (d'autore? o magari anche la canzonetta?) sia o non sia poesia, è un classico esempio di domanda mal posta.
Tant'è vero che sarebbe del tutto legittimo rispondere con una tautologia: la canzone non è poesia, perché è canzone.
In realtà, la domanda è solo il mascheramento di un'altra: se la canzone sia/possa essere arte.
Molti cantautori si schermiscono di fronte a queste domande (che, oltretutto, aprirebbero un dibattito vertiginosamente impervio su che cosa sia o non sia l'arte): De Gregori, ad esempio, ha affermato più volte che dire "la canzone è poesia" significa non aver capito niente né della canzone né della poesia; De Andrè sosteneva che solo due tipi di persone continuano a scrivere poesia dopo i vent'anni, i poeti e gli idioti, e che per questo lui aveva preferito fare il cantautore.
Altri si rifugiano dietro formule come "il mio è semplice artigianato", rivendicando il nobile e per niente scontato mestiere necessario a confezionare un successo pop(olare). "Una leggera perfezione", la chiamava un mio amico che fa il critico musicale, e la formula si adatta magnificamente a piccoli gioielli come Peg degli Steely Dan, I'll Never Fall in Love Again di Burt Bacharach, Um Indio di Caetano Veloso, You Are the Sunshine of My Life di Stevie Wonder, The Boxer di Simon & Garfunkel, All I Want di Joni Mitchell o Samba do Aviao di Jobim e De Moraes.
Ma tornando a noi: la canzone è poesia?
Direi di no. Per il semplice fatto che il testo di una canzone raramente ha una sua autonomia metrica, ritmica, fonetica. Spesso anche i testi migliori, a una semplice lettura priva della musica, suonano goffi, sordi, zoppicanti. Hanno bisogno di incastrarsi in una scansione musicale per trovare una vera efficacia. Del resto, basta pensare a che cosa è riuscito a fare Vincenzo Bellini con il testo di Casta diva: trasformare una marcetta di ottonari, zompettanti come un reggimento di marmittoni ("Casta diva che inargenti / queste sacre antiche piante / a noi volgi il bel sembiante / senza nube e senza vel") in una delle effusioni melodiche più pure e ipnotiche dell'intera storia della musica occidentale.
(E il riferimento al melodramma non è casuale: la romanza, l'aria d'opera, sono una delle fonti della musica leggera italiana, insieme a quel miracolo musicale e poetico che è la canzone napoletana; per il pop americano, al posto dell'opera c'è quello che è un po' il suo equivalente d'oltreoceano: il musical di Broadway e la canzone di Tin Pan Alley, su cui si innesta la robusta matrice della tradizione afroamericana, dal blues al rhythm'n'blues e via dicendo).
Insomma, il testo di una canzone raramente funziona da solo (mentre, chissà perché, è più frequente che la musica lo faccia: forse perché la musica, priva di contenuto semantico, è forzata ad obbedire alle proprie regole sintattiche, anche più rigide di quelle metriche).
Se invece la domanda è: "la canzone è (può essere) arte?", allora la risposta è "sì". George Brassens, Jacques Brel, Leonard Cohen, Tom Waits, Joan Manuel Serrat, Victor Jara, Luigi Tenco, Piero Ciampi, Ivano Fossati, Vinicio Capossela, Pino Daniele, Gianmaria Testa, Mogol e Battisti (sebbene io non ami particolarmente Mogol) hanno scritto canzoni che attingono senz'altro alla sfera dell'arte.
Solo che quest'arte non è "poesia", né soltanto "musica", ma qualcos'altro che si chiama, per l'appunto, "canzone".
Si potrebbe obiettare che il legame tra poesia e musica è antichissimo, che i poemi omerici e le tragedie greche venivano intonate, così come le saghe norrene, le improvvisazioni in ottava rima dei poeti toscani o sardi, e in generale quasi tutta l'epica popolare di quasi tutte le tradizioni del mondo.
Però, nella cultura occidentale, questo legame tra poesia e musica si è perso ormai da secoli. Gli ultimi, forse, furono i trovatori provenzali, ma già un paio di generazioni dopo, ai tempi della scuola siciliana e di Dante Alighieri, la poesia era diventata un affare scritto, al massimo declamato, ma non più intonato.
Tutt'al più poteva succedere che si mettessero in musica poesie preesistenti: i madrigali dell'Ars Nova, il celebre episodio di Casella nel Purgatorio, le tante poesie di Petrarca o di Tasso musicate dai grandi compositori del Rinascimento, da Orlando di Lasso a Luca Marenzio o Gesualdo da Venosa, giù giù fino al lieder romantico.
Ma il testo non nasceva più insieme alla musica o per la musica, come invece accade per la canzone. Che, proprio per questo, può essere un'arte alla pari della poesia, ma non è, di per sé, "poesia".
mercoledì 18 febbraio 2009
tre poesie di charles simic
Mi sto immergendo nella poesia americana. Al contrario: partendo dai più recenti, conto di risalire all'indietro, fino ai padri fondatori. Robert Frost, Carl Sandburg, Wallace Stevens, W. C. Williams, su su fino a Walt Whitman, Emily Dickinson, Longfellow, Emerson.
Charles Simic (nato nel 1938) è un poeta che riesce in una delle cose che apprezzo di più: celare, sotto l'apparente semplicità, delle vere e proprie vertigini metafisiche.
Le traduzioni sono mie: uno dei miei hobby, nonché un ottimo modo per tenere la lingua poetica in esercizio.
* * *
Uomini divinizzati per la loro crudeltà
È vero che i tiranni hanno dita lunghe?
È vero che piazzano le loro trappole
dietro dipinti della Madonna
in palazzi tenebrosi trasformati in musei?
Tutti amiamo i loro occhi febbrili puntati al cielo.
Tutti amiamo anche la Venere nuda.
Ci guarda da un letto disfatto
con un sorriso e la mano sull'inguine.
Lei vede il padrone appostato dietro le nostre spalle.
È vecchio, è cadaverico, è vestito
da custode del museo, e indossa guanti grigi,
perché, ovviamente, ha le mani rosse.
* * *
Cosmologia di Caronte
Con solo una fioca lanterna
a indicargli dov'è
e ogni volta una montagna
di cadaveri freschi da caricare
portarli dall'altra parte
dove ce ne sono molti di più
direi che ormai dev'essere incerto
su quale sia la sponda
direi che non importa
nessuno si lamenta mai
guardar loro nelle tasche
in una qualche briciola di pane in un'altra una salsiccia
una volta ogni tanto uno specchio
o un libro che getta
fuori bordo nel fiume scuro
e rapido e freddo e profondo.
* * *
Gli amici di Eraclito
Il tuo amico è morto, quello con cui
giravi per le strade
a tutte le ore, parlando di filosofia.
Perciò, oggi sei andato solo,
fermandoti spesso per scambiarti di posto
con il tuo compagno immaginario,
e ribattere a te stesso
sul tema delle apparenze:
il mondo che vediamo nella testa
e il mondo che vediamo ogni giorno,
così difficili da distinguere
quando dolore e sofferenza ci piegano.
Voi due spesso vi siete fatti trascinare
tanto da trovarvi in quartieri strani
persi tra gente ostile,
costretti a chiedere indicazioni
proprio sul ciglio di una suprema rivelazione,
a ripetere la domanda
a una vecchia o a un bambino
che potrebbero essere entrambi sordi e muti.
Qual era quel frammento di Eraclito
che stavi cercando di ricordare
quando sei inciampato nel gatto del macellaio?
Nel frattempo, tu stesso ti eri perso
fra la scarpa nera nuova di qualcuno
abbandonata sul marciapiedi
e il terrore improvviso e l'ilarità
alla vista di una ragazza
abbigliata per una notte di ballo
che sfreccia sui pattini.
martedì 17 febbraio 2009
jazz anni '70
Per chi non lo conosce, consiglio caldamente di fare un salto (anche più di uno) sul blog Jazzfromitaly.
Oltre ad essere uno dei più bei blog jazzistici italiani, oltre ad essere scritto da dio, oltre a contenere una quantità di immagini stupende, ci si trovano materiali rarissimi sul jazz italiano, specialmente quello di un periodo ingiustamente negletto: gli anni '70. Non solo recensioni, ma interi dischi disponibili da ascoltare online.
Materiale spesso mai ristampato su cd, che perciò rischia di essere dimenticato, e che invece va assolutamente conosciuto.
lunedì 16 febbraio 2009
Es o non Es
Chiunque siate e ovunque vi troviate, Shakespeare è sempre più avanti, sul piano tanto concettuale quanto immaginario. Vi rende anacronistici perché vi contiene; contenerlo è impossibile. Non si può illuminarlo con una nuova dottrina, sia essa il marxismo o il freudismo o lo scetticismo linguistico demaniano. Al contrario, sarà Shakespeare a illuminare la dottrina, non mediante una prefigurazione ma, per così dire, mediante una postfigurazione: tutti gli aspetti essenziali di Freud sono già presenti in Shakespeare, accompagnati da una persuasiva critica dello stesso Freud. La mappa freudiana della mente è di Shakespeare; pare che Freud l'abbia solo messa in prosa. In altre parole, una lettura shakespeariana di Freud illumina e trascende il testo di Freud; una lettura freudiana di Shakespeare riduce Shakespeare, o meglio lo ridurrebbe se riuscissimo a sopportare una riduzione che superasse il confine dell'assurdo. Il Coriolano è una lettura del 18 Brumaio di Luigi Napoleone di Marx assai più convincente di quanto potrebbe sperare di esserlo una rilettura marxista del Coriolano.
(Harold Bloom, Il canone occidentale)
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conversazione telefonica
Il prezzo sembrava ragionevole, l'ubicazione
indifferente. La padrona di casa giurava di vivere
altrove. Non restava altro
se non la confessione. “Signora”, avvisai,
“non voglio fare viaggi a vuoto: sono africano”.
Silenzio. Silenziata trasmissione di
buone maniere sottovuoto. La voce, quando arrivò,
rivestita di rossetto, pigolio di lungo
bocchino dorato. Ero fregato, dannazione.
“QUANTO SCURO?”... Avevo sentito bene... “LEI È CHIARO
O MOLTO SCURO?” Pulsante A. Pulsante B. Tanfo
di fiato rancido di pubblico nascondiglio telefonico.
Cabina rossa. Cassetta postale rossa. Autobus rosso
a due piani che schiaccia l'asfalto. Era vero! Vergognosa
per il silenzio scortese, la resa
spinse lo stupore a mendicare una semplificazione.
Fu accorta, spostò l'enfasi:
“LEI È SCURO? O MOLTO CHIARO?” Arrivò la rivelazione.
“Intende dire: come il cioccolato semplice o al latte?”
Il suo assenso fu clinico, schiacciante nella sua leggera
impersonalità. Rapidamente, sintonizzandomi sulla lunghezza d'onda,
scelsi. “Color seppia dell'Africa Occidentale”: e subito dopo
“Così c'è sul passaporto”. Silenzio per spettroscopico
volo di fantasia, finché la sincerità fece stridere il suo duro
accento sulla cornetta. “CHE COS'È?”, con riluttanza
“NON SO CHE COSA SIA”. “Come il castano”.
“È SCURO, NO?” “Non del tutto.
Di faccia, sono castano, ma, signora, dovrebbe vedere
il resto di me. I palmi delle mani, le piante dei piedi
sono biondo ossigenato. Per via dell'attrito –
assurdo, signora – a forza di star seduto, il didietro
è diventato nero corvino – Un attimo, signora!” avvertendo
il ricevitore alzare un fragore di tuono
nelle orecchie: “Signora”, supplicai, “non vorrebbe almeno
controllare di persona?”
(Wole Soyinka)
domenica 15 febbraio 2009
scritture femminili
Quando si parla di scritture femminili, si parla sempre di tenerezza, di sensibilità, di psicologia, di "piccole cose", di effusione lirica, di memoria, di autobiografia, emozioni, fantasia, soggettività, interiorità, anima. Eppure a me piacciono molto anche le voci femminili ferme, nitide, taglienti: Marianne Moore, Sylvia Plath, l'Emily Dickinson più asciutta e metafisica.
Per esempio, adoro Lalla Romano, ma non sono mai riuscito a farmi piacere davvero Elsa Morante.
Ho trovato in un'antologia queste due poesie: tutte e due di scrittrici, tutte e due del Novecento e tutte e due di un'area eccentrica della letteratura inglese (Judith Wright è australiana, Fleur Adcock neozelandese). Tutte e due molto belle, ma io preferisco la seconda. E' meno rassicurante.
* * *
DA DONNA A UOMO
Il cieco lavoratore della notte,
il seme senza io e senza forma che porto,
travaglia per il suo giorno di resurrezione -
silente e svelto e nascosto alla vista
presagisce un'inimmaginata luce.
Questo non è bimbo con viso da bambino;
questo non ha nome con cui nominarlo;
eppure tu ed io l'abbiamo ben conosciuto.
Questo è il nostro cacciatore e la nostra preda,
il terzo a giacere tra il nostro abbraccio.
Questa è la forza che il tuo braccio conosce,
l'arco di carne che è il mio seno,
i precisi cristalli dei nostri occhi.
Questo è il selvaggio albero di sangue che nutre
l'intricata e avviluppata rosa.
Questo è il fattore e il fatto;
questa è la domanda e la risposta;
la cieca testa che spinge contro il buco,
la vampa di luce lungo la lama.
Oh, stringimi, che ho paura.
Judith Wright (1915-2000)
* * *
CONSIGLI A UN AMANTE ABBANDONATO
Prova a pensarci: se trovassi un uccello morto,
non solo morto, non solo caduto,
ma pieno di vermi: proveresti
più pena o più disgusto?
La pena è per il momento della morte,
e per quelli successivi. Si trasforma
con la decomposizione, col fetore insinuante
e i vermi saprofaghi che ingrassano e si dimenano.
Se torni più tardi, invece, troverai
una figurina d'ossa linde, alcune penne,
simbolo inoffensivo di ciò
che un tempo visse. Niente di raccapricciante.
Ti è chiaro adesso? Ma forse trovi
che l'analogia che ho scelto
per la nostra storia finita sia piuttosto macabra -
un paragone spiacevole.
L'ho scelto apposta. In te
vedo i bachi vicino alla superficie
sei divorato dal vittimismo
e strisci sgradevole e patetico.
Se ti toccassi sentirei sotto le dita
pelle di verme grassa e umidiccia.
Non chiedermi pietà adesso:
sta' lontano finché le tue ossa non sono pulite.
* * *
CONSIGLI A UN AMANTE ABBANDONATO
Prova a pensarci: se trovassi un uccello morto,
non solo morto, non solo caduto,
ma pieno di vermi: proveresti
più pena o più disgusto?
La pena è per il momento della morte,
e per quelli successivi. Si trasforma
con la decomposizione, col fetore insinuante
e i vermi saprofaghi che ingrassano e si dimenano.
Se torni più tardi, invece, troverai
una figurina d'ossa linde, alcune penne,
simbolo inoffensivo di ciò
che un tempo visse. Niente di raccapricciante.
Ti è chiaro adesso? Ma forse trovi
che l'analogia che ho scelto
per la nostra storia finita sia piuttosto macabra -
un paragone spiacevole.
L'ho scelto apposta. In te
vedo i bachi vicino alla superficie
sei divorato dal vittimismo
e strisci sgradevole e patetico.
Se ti toccassi sentirei sotto le dita
pelle di verme grassa e umidiccia.
Non chiedermi pietà adesso:
sta' lontano finché le tue ossa non sono pulite.
Fleur Adcock (n. 1934)
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Giovedì prossimo (19 febbraio 2009) a Pescara, nell'ambito del IX Congresso Internazionale dell'AItLA (Associazione Italiana di Linguistica Applicata) presenterò un paper intitolato "Jive talk e straight English: il 'suono della voce' nelle autobiografie di Louis Armstrong".
Parlerò dell'Armstrong scrittore, in particolare delle sue autobiografie, di come nel suo stile scritto si rifletta l'oralità, e di come questa caratteristica abbia subito all'epoca censure e obliterazioni.
Il convegno si svolge presso la Facoltà di Lingue dell'Università di Pescara (viale Pindaro, 42) e il mio intervento sarà dalle 15:45 alle 16:15.
Chiunque voglia intervenire è il benvenuto.
Parlerò dell'Armstrong scrittore, in particolare delle sue autobiografie, di come nel suo stile scritto si rifletta l'oralità, e di come questa caratteristica abbia subito all'epoca censure e obliterazioni.
Il convegno si svolge presso la Facoltà di Lingue dell'Università di Pescara (viale Pindaro, 42) e il mio intervento sarà dalle 15:45 alle 16:15.
Chiunque voglia intervenire è il benvenuto.
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sabato 14 febbraio 2009
"American Gods" - corollario
Quando questo libro uscì, avevo in mente da un po' la trama per un romanzo.
Leggendo le recensioni, scoprii che Gaiman aveva in pratica già scritto quel che volevo scrivere io: con ogni probabilità, molto meglio di quanto io avrei potuto fare.
Questo insegna due cose.
La prima è che ogni volta che ci sembra di aver avuto un'idea originale si scopre immancabilmente che l'idea è già stata concepita da qualcun altro (e se l'idea ci sembra geniale, l'avranno già avuta moltissimi altri).
La seconda è che se questo fosse un mondo giusto l'umanità dovrebbe avere un motivo in più per essere grata a Neil Gaiman.
Leggendo le recensioni, scoprii che Gaiman aveva in pratica già scritto quel che volevo scrivere io: con ogni probabilità, molto meglio di quanto io avrei potuto fare.
Questo insegna due cose.
La prima è che ogni volta che ci sembra di aver avuto un'idea originale si scopre immancabilmente che l'idea è già stata concepita da qualcun altro (e se l'idea ci sembra geniale, l'avranno già avuta moltissimi altri).
La seconda è che se questo fosse un mondo giusto l'umanità dovrebbe avere un motivo in più per essere grata a Neil Gaiman.
recensioni in pillole 7: "American Gods"
Neil Gaiman, "American Gods", Mondadori 2002
Parola usurata, "affabulatore": però è la più adatta a definire Gaiman, creatore di trame a orologeria, che tengono il lettore incatenato alla classica poltrona.
Lo spunto iniziale sembrerebbe quello di un qualunque B-movie: a Shadow, il protagonista, mancano pochi giorni per finire di scontare tre anni di carcere. Lo aspettano la moglie Laura e un amico che gli offrirà un lavoro, e Shadow non ha voglia di altro che di una vita tranquilla. Ma Laura e l'amico muoiono in un incidente stradale, e come se non bastasse si scopre che erano amanti.
A Shadow crolla il mondo addosso, ma è solo l'inizio: nel viaggio di ritorno uno strano personaggio, Mister Wednesday, gli offre un misterioso lavoro come guardia del corpo.
La verità si svelerà di lì a poco: Wednesday non è altro che il dio Odino, arrivato in America insieme ai primi vichinghi. Insieme a lui vivono negli Stati Uniti tutte le divinità dei popoli sbarcati lì: dèi celtici, africani, egizi, germanici.
Ma l'America non è terreno fertile per gli dèi, che senza più fedeli, senza preghiere, senza sacrifici si sono ridotti a vivere come emarginati: Anubis ha un'agenzia di pompe funebri a Cairo (Illinois), il dio slavo Chernobog lavora al macello di Chicago, la dea germanica Eoster abita in mezzo agli hippies di San Francisco, Odino vive di piccole truffe. Ora gli dèi sono in pericolo, perché nuove divinità sono intenzionate a distruggerli: gli dèi della nuova America, gli dèi della TV, della tecnologia, del denaro, dei mass media. Odino vuole riunire tutti gli antichi dèi per affrontare la minaccia.
O almeno così sembra: perché nel corso delle oltre 500 pagine del libro si svelerà pian piano una verità diversa, e Shadow (l'uomo-ombra, che aveva vissuto tutta la sua vita senza mai veramente viverla, senza conoscere il suo passato e senza mai sentirsi parte di nulla) scoprirà di essere una pedina centrale in una enorme, inquietante macchinazione divina.
Questa la trama: ma forse il fascino del libro sta altrove. Ad esempio, nei racconti-nel-racconto, che narrano l'arrivo e la vita delle diverse divinità in America; oppure nella trama da road-movie, con Wednesday e Shadow che attraversano un'America invernale, gelida e desolata, per rintracciare gli antichi dèi e per sfuggire alla caccia spietata da parte degli dèi nuovi.
Se la funzione del romanzo è di costruire un universo e piombarci dentro il lettore, allora non c'è dubbio: "American Gods" è un gran bel romanzo.
venerdì 13 febbraio 2009
l'angelo della critica
Io credo che il lavoro del critico somigli, in piccolo e in maniera tutta laica e profana, alla lotta notturna di Giacobbe. Per tutto il durare delle tenebre, Giacobbe combatte con un avversario, che crede un uomo e che gli impone gli stenti, le contrizioni, i pericoli di un corpo a corpo con un proprio simile. Ma, al tornare della luce, Giacobbe si accorge che l'altro era un Angelo. Nel nostro caso il critico scorge, riconosce, intero integro, e ancora più splendente il poeta. Quella poesia che egli aveva ferita con i suoi colpi, straziata con le proprie analisi, si ricompone nella sua più vera ed efficace figura. E come l'Angelo di Giacobbe, il poeta in quel momento tramuta le angosce della notte in benedizione, benedizione per tutti, della quale il critico nella sua qualsiasi misura, diventa un poco il tramite, l'amministratore.
(Giacomo Debenedetti)
giovedì 12 febbraio 2009
back to jazz
Nelle mie intenzioni originarie, questo blog doveva parlare soprattutto di musica, e soprattutto di jazz. Poi le cose hanno preso un'altra piega, e in fondo è anche giusto così.
Però adesso è ora di tornare a parlare un po' di jazz.
Leggo sul "Giornale della Musica" di questo mese che la Dejavu ha ripubblicato due dischi del quintetto di Gianni Basso e Oscar Valdambrini ("Basso-Valdambrini Quintet" e "Basso-Valdambrini Quintet plus Dino Piana").
Applausi alliniziativa: Basso e Valdambrini non furono certo i primi jazzisti italiani (basta leggere il fondamentale "Il jazz in Italia" di Adriano Mazzoletti, uscito nel 2004 per EDT, per scoprire che le nuove sonorità nere arrivarono in Italia prestissimo, già negli anni '20, e nel decennio successivo c'erano orchestre capaci di cavarsela egregiamente anche in confronto con le contemporanee formazioni americane: la benemerita Riviera Records ristampa da anni molto di quel materiale), ma sicuramente il loro gruppo fu uno dei primi a proporre jazz moderno, confrontandosi direttamente con i musicisti americani, sui dischi ma anche dal vivo, rielaborando la lezione del bebop, del cool e dell'hardbop ed eseguendola con una perizia strumentale sulla quale ancor oggi c'è ben poco da eccepire.
Gianni Basso suonava il sax, Oscar Valdambrini la tromba, al pianoforte c'era Renato Sellani, al contrabbasso Giorgio Azzolini e alla batteria Gianni Cazzola. Successivamente, si aggiunse il trombone di Dino Piana, portando il gruppo a sestetto. Tutti ancora vivi e attivi, tranne Valdambrini che è scomparso una decina d'anni fa.
Insieme a loro c'era tutta una generazione di pionieri: Franco Cerri, Piero Piccioni, Umberto Cesàri, Gil Cuppini, Nunzio Rotondo, Carlo Loffredo, Gegè Munari, Armando Trovajoli, Flavio Ambrosetti, Giampiero Boneschi, Eraldo Volontè.
Nomi che rischiano di essere dimenticati, nonostante molti di loro siano ancora in attività.
Siano benedette le ristampe.
Però adesso è ora di tornare a parlare un po' di jazz.
Leggo sul "Giornale della Musica" di questo mese che la Dejavu ha ripubblicato due dischi del quintetto di Gianni Basso e Oscar Valdambrini ("Basso-Valdambrini Quintet" e "Basso-Valdambrini Quintet plus Dino Piana").
Applausi alliniziativa: Basso e Valdambrini non furono certo i primi jazzisti italiani (basta leggere il fondamentale "Il jazz in Italia" di Adriano Mazzoletti, uscito nel 2004 per EDT, per scoprire che le nuove sonorità nere arrivarono in Italia prestissimo, già negli anni '20, e nel decennio successivo c'erano orchestre capaci di cavarsela egregiamente anche in confronto con le contemporanee formazioni americane: la benemerita Riviera Records ristampa da anni molto di quel materiale), ma sicuramente il loro gruppo fu uno dei primi a proporre jazz moderno, confrontandosi direttamente con i musicisti americani, sui dischi ma anche dal vivo, rielaborando la lezione del bebop, del cool e dell'hardbop ed eseguendola con una perizia strumentale sulla quale ancor oggi c'è ben poco da eccepire.
Gianni Basso suonava il sax, Oscar Valdambrini la tromba, al pianoforte c'era Renato Sellani, al contrabbasso Giorgio Azzolini e alla batteria Gianni Cazzola. Successivamente, si aggiunse il trombone di Dino Piana, portando il gruppo a sestetto. Tutti ancora vivi e attivi, tranne Valdambrini che è scomparso una decina d'anni fa.
Insieme a loro c'era tutta una generazione di pionieri: Franco Cerri, Piero Piccioni, Umberto Cesàri, Gil Cuppini, Nunzio Rotondo, Carlo Loffredo, Gegè Munari, Armando Trovajoli, Flavio Ambrosetti, Giampiero Boneschi, Eraldo Volontè.
Nomi che rischiano di essere dimenticati, nonostante molti di loro siano ancora in attività.
Siano benedette le ristampe.
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perché non posso non dirmi deamicisiano
Cercando la parola "deamicisiano" in vari dizionari, cartacei o on-line, si trovano definizioni come: "(di tono, stile): patetico, sentimentale; sentimentalistico; moralista, moralistico" (De Mauro); "pervaso di patetismo e di buoni sentimenti" (Sabatini-Coletti); "che ha toni patetici e moralistici" (www.dizi.it); "indica, in un discorso, brano, o saggio, la presenta di caratteri di pateticità e/o moralismo" (http://it.wiktionary.org/wiki), eccetera eccetera.
Tutto vero, per carità.
Sentimentale, patetico, moralistico non sono termini che invoglino alla lettura di un libro, specie di questi tempi in cui i "sentimenti" sembrano monopolio dei vari Cucuzza e Grandifratelli e la morale è un accessorio antiquato almeno quanto le ghette e il borsello per uomini.
Eppure, eppure.
Se penso a "Cuore" - o meglio, "al libro Cuore", come credo venga ancora, chissà perché, sempre chiamato - mi torna in mente la vecchissima edizione rilegata in tela rossa posseduta da mio nonno, che me la leggeva per pomeriggi interi, in una stanza che ormai sopravvive solo nella mia memoria (la casa venduta, ristrutturata, i mobili regalati ai robivecchi, il libro finito chissà dove insieme ai tanti altri dai quali ho probabilmente contratto il virus che mi spinge a comprare dalle bancarelle volumi dalle pagine ingiallite, corrose ai margini, dalle rilegature sgangherate e macchiate di umido, volumi che mi costringono a una continua guerra di posizione tra mia moglie, che vorrebbe relegarli negli angoli più nascosti della casa, e me, che vorrei farli risalire il più possibile a portata degli occhi - e del naso, perché di quei libri amo soprattutto l'odore).
Mi torna in mente anche l'Istituto Edmondo De Amicis (o, come si esprimono più concisamente i miei compaesani, u deàmiciss), che da decenni, con la sua severa facciata umbertina, sovrintende allo struscio serale dei sanseveresi.
Soprattutto, mi tornano in mente intere frasi del libro: "quell'infame sorrise", "alza un banco con una mano", "non dire mai di un operaio che torna dal lavoro: è sudicio; dì: egli porta i segni della sua fatica", "io non ho più famiglia, la mia famiglia siete voi; mostratemi che siete ragazzi di cuore", "l'amico fece le quattro giravolte", "il quadrato del Quarantanove". E i personaggi: il muratorino, Stardi, Franti, Garrone, Nobis, Derossi, il calabrese, quello che salvava il bambino sotto all'omnibus, la maestrina dalla penna rossa, il papà che stringe la mano al re e poi accarezza il figlio ("questa è una carezza del re": a proposito, se ne sarà mica ricordato Papa Giovanni?), l'eroico Ferruccio di "Sangue romagnolo", il piccolo emigrante di "Dagli Appennini alle Ande", l'intermiere di tata.
Ora, si potrà dire tutto il male possibile di De Amicis. Il suo italiano è spesso un po' affettato, i giri di frase lievitano in una retorica impettita (però, altrettanto spesso, hanno una vivacità e un'ironia inconfondibili); i suoi protagonisti, i bambini soprattutto, sono afflitti da una sfiga apocalittica; il suo pathos oggi lo classificheremmo tout-court come ingenuo buonismo; la sua visione di un'Italia unita dal Risorgimento e dal lavoro paga lo scotto dell'incapacità di concepire il cambiamento, di un volemose bene collettivo tutto sentimenti ed elemosina, alla fine del quale i ricchi restano ricchi e i poveri restano a tossire nelle soffitte (però l'uomo non era affatto stupido, e nella sua produzione più tarda ripudiò quell'ingenuo nazionalismo per una visione sociale più complessa e matura); le sue famiglie sono occhiute, patriarcalmente oppressive (i genitori, e persino la sorella maggiore, che vanno a leggere il diario di Enrico e ci scrivono sopra i loro predicozzi); per non parlare dell'assoluta assenza di qualunque dimensione erotica (i personaggi sono tutti amici, padri, figli, fratelli, sorelle, in una sorta di casto, asessuato eden infantile).
Però sta di fatto che quelle pagine si sono inchiavardate da qualche parte nella mia memoria. Avrà forse contribuito anche lo sceneggiato di Comencini, datato 1984 (io avevo nove anni, cioè ero ancora nell'età in cui non si hanno barriere intellettuali e le cose, se colpiscono, colpiscono a fondo), con Johnny Dorelli che disegnava un maestro di grande tenerezza e con qualche piccola, perfida modifica nei caratteri dei personaggi: un Franti sociologicamente motivato ("ognuno ha una sua parte, io ho quella del cattivo"), un Enrico vigliacchetto, un Derossi insopportabilmente secchione e vanesio, al posto del figurino bello buono e generoso del libro.
Ultimamente ho ritrovato "Cuore" sul web, nella biblioteca virtuale di LiberLiber. L'ho riletto, e ho pianto come un vitello, come non mi succedeva da anni.
Insomma, "Cuore" è lì, da qualche parte. Posso provare a fare il blasé, il cinico, a deriderlo come il reperto ammuffito di un'Italietta grigia e trombona. Però le lacrime non mentono.
E concludo con un consiglio: del vecchio Edmondo, leggetevi "Amore e ginnastica" (1892), racconto tra i più fini del nostro Ottocento.
Ci troverete un'analisi sottilissima dei moti dell'animo, una grande vivacità narrativa e un erotismo del tutto inaspettato (il tema centrale è l'attrazione di un uomo debole e gracile per una donna-virago, persino con divertiti spunti di feticismo e voyeurismo).
Italo Calvino, che se ne intendeva, definì il libro "probabilmente il più bello, certo il più ricco di humour, malizia, sensualità, acutezza psicologica che mai scrisse Edmondo De Amici", e lo pubblicò nella sua collana Centopagine.
Cercàtelo: ne vale la pena.
mercoledì 11 febbraio 2009
in memoriam
In memoria di Eluana Englaro
(25.11.1970 - 9.2.2009)
Da che mondo è mondo, tutti si cerca un fastidio
un sassolino tra le lenticchie
solo così si scoperchia la solitudine
si getta un piccolo uncino sulla pelle dei passanti.
Chiunque è capace di premere la carne dura
o persino di divaricarla
ma vorrei vedervi alle prese con questa roba molle
insomma l’anima
o come la chiamate.
C’è sempre da qualche parte qualcuno che intubato
sente cedere la lenza
capisce che è finita.
(25.11.1970 - 9.2.2009)
Da che mondo è mondo, tutti si cerca un fastidio
un sassolino tra le lenticchie
solo così si scoperchia la solitudine
si getta un piccolo uncino sulla pelle dei passanti.
Chiunque è capace di premere la carne dura
o persino di divaricarla
ma vorrei vedervi alle prese con questa roba molle
insomma l’anima
o come la chiamate.
C’è sempre da qualche parte qualcuno che intubato
sente cedere la lenza
capisce che è finita.
ancora su new york
QUELLI CHE ARRIVARONO QUI, PER PRIMI
Attraverso i loro volti si specchiava un cielo
di dimensioni impreviste.
Poteva essere vuoto
o popolarsi di braccia tatuate.
L’unico oro, quello dei tramonti.
Il resto grigio
ispido pelame
infestato dagli occhi e dai tamburi.
* * *
70, WASHINGTON SQUARE SOUTH
Difficile guardare
guardare e basta. Si cercano sempre scampoli
di significato familiare
anche nel catrame unto di fumo salato
o nella luce che rimbalza a ferirti
al primo attraversamento di Madison Avenue. E invece
bisognerebbe che tutto fosse indifferente.
La mente è una trappola.
Lo scoiattolo si affaccia alla finestra
e guarda dall’alto l’incastro dei rumori
la luce gli sfina la coda
e tutta New York è un piano inclinato di intersezioni
e alleanze.
Il giorno finiva sempre all’imbocco della strada
anche se durava ancora al vertice
e il non capire aiutava
si era nudi come nei sogni
che ti tradiscono il respiro tra le costole.
Eri un atlante le membra sparpagliate
nessuno a ostacolarti il circolo
virtuoso dei pensieri
l’impigliarsi trionfante sempre nello stesso
crocicchio la combustione gioiosa.
* * *
PER STRADA (5th Avenue)
La direzione che ciascuno sceglie
non è importante.
Importante è l’urto
e il rimbalzo.
Per questo puoi andare verso l’alto
e attraversare terre abitate
o trovare un pezzo di traiettoria ascendente bloccato nel tunnel
magari è solo l’interno degli occhi rovesciato dal sonno
ma basta quello
devi collezionare le tracce
tutto ti appare di taglio
devi misurare la convergenza
cogliere il senso prima della luce.
* * *
SUBWAY Q, 8 ST/NYU
Nella massa vischiosa
scoppiavano emboli di solitudine
lacrime imprevedibili sedili occupati dal sangue
quando entravano in collisione le urla
deformavano gli occhi
la città era troppo grande e bella
neanche il dolore la ammaestrava.
* * *
GREEENPOINT
Bastava spostare un elemento
e si otteneva una diversa decalcomania
senza dover lacerare lo sfondo il profilo reciso dell’acciaio
le scolature dei lavandini scavavano glifi dorati nell’ombra.
Si esiste solo se non si cerca di saperlo
se si smuovono i fondigli più tenaci.
lunedì 9 febbraio 2009
silenzio
In Italia si dovrebbe fare un po' di silenzio.
Ad esempio, si dovrebbe cessare il chiasso indegno fatto in questi ultimi giorni intorno al caso Englaro, con la povera Eluana diventata una specie di stendardo sventolato oscenamente da entrambe le parti.
Si dovrebbe cominciare a parlare di questioni delicate, che ci riguardano tutti, come il testamento biologico e l'accanimento terapeutico, in maniera pacata e civile, senza barricate ideologiche e senza urla.
Chi sta urlando ha già smesso di pensare.
sabato 7 febbraio 2009
Musée des Beaux Arts
Sul dolore non sbagliavano mai,
i Vecchi Maestri; come capivano bene
la sua posizione umana; come ha luogo
mentre qualcun altro mangia o apre una finestra o passeggia oziosamente;
come, mentre gli anziani aspettano la nascita miracolosa
con reverenza e passione, ci debbano sempre essere
bambini che non hanno un particolare desiderio che accada, che pattinano
su uno stagno al bordo del bosco:
non dimenticano mai
che persino l'atroce martirio deve fare il suo corso
un po' in disparte, in un angolo sciatto
dove i cani conducono la loro vita canina e il cavallo del carnefice
strofina il suo innocente didietro contro un albero.
Nell'Icaro di Brueghel, per esempio: come ogni cosa si volta via
dal disastro, con calma; l'aratore potrebbe
aver sentito il tonfo, il grido derelitto,
ma per lui non era un fallimento importante; il sole splendeva
come al solito sulle gambe bianche che sparivano nell'acqua
verde; e la nave costosa e delicata che doveva aver visto
qualcosa di stupefacente, un ragazzo cadere dal cielo,
aveva un posto dove andare e continuò a veleggiare tranquilla.
(W. H. Auden)
il pensiero-volpe
Immagino la foresta a mezzanotte
qualcos'altro è vivo
oltre la solitudine della pendola
e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita.
Non vedo stelle alla finestra:
qualcosa di più vicino
eppure più profondo nella tenebra
penetra la solitudine:
freddo, delicato come neve scura
il naso di una volpe tocca foglie, rami;
due occhi assecondano il movimento, che adesso
e ancora adesso, e adesso, e adesso
lascia impronte nitide nella neve
tra gli alberi, e cautamente un'ombra
obliqua arranca tra i ceppi e nel vuoto
di un corpo che avanza audacemente
fra le radure, un occhio,
un verde che si amplia e approfondisce,
brillante, concentrato,
va intorno a suo piacere
finchè, pungente improvvisa calda puzza di volpe,
penetra il buco oscuro della testa.
Ancora nessuna stella alla finestra; il tic della pendola,
la pagina è impressa.
Ted Hughes (1957)
venerdì 6 febbraio 2009
paese
U sckazzamurille vive nelle case più vecchie e ha la sua dimora negli interstizi delle pareti.
Ha l'aspetto di un bambino vestito di una tonaca e un cappuccio; anzi, secondo alcuni è un bambino, non nato o nato morto o morto prima del battesimo. Se lo si sente piangere, bisogna lasciargli una tazza di latte.
Può affezionarsi e far trovare in giro monete, piccoli regali, ma può anche indispettirsi, e in quel caso nasconde gli oggetti o viene a tirarti i piedi mentre dormi.
Camminando per i vicoli, subito dopo la vendemmia, mi abbassavo fino a terra e mi accostavo alle grate coperte di polvere e ruggine, per respirare l'odore violento del mosto in fermentazione che arrivava a zaffate dalle cantine.
Le Madonne erano sette sorelle (l'Annunziata, l'Addolorata, quella del Carmine, quella del Rosario, quella del Soccorso, e le altre due non le ricordo); una volta c'era il sole, sei rimasero a dormire e la sesta uscì a stendere i panni e si abbronzò, ed è per questo che la Madonna del Soccorso ha il volto nero.
La chiesa era enorme, dai finestroni altissimi pioveva una luce grigia. Il sabato pomeriggio si stava tutti insieme su una panca in fondo (d'inverno, il più vicino possibile all'unica stufa, un vecchio radiatore simile a un enorme abat-jour), si leggeva l'elenco dei peccati stampato su un opuscolo e poi, uno per volta, si andava sulla panca in prima fila, dove sedeva il vecchio prete collerico, con le mani annodate dall'artrosi, che ad ogni peccato ti rimproverava urlando a squarciagola.
Quando si fa un complimento a qualcuno, specialmente a un bimbo, bisogna invocare San Martino (Sande Martine, quand'è belle stu criature). Se non lo si fa, e se nello sguardo c'è invidia, si può lanciare al bambino l'affascìne (il fascinum).
Il bambino diventa apatico, svogliato, la testa si fa pesante e ciondola sul petto. Allora bisogna prendere un piatto, riempirlo d'acqua e versarci dentro una goccia d'olio, e osservare se rimane compatta o se si spande. Nel caso, bisogna recitare una giaculatoria ai santi chiedendo di togliere l'affascìne.
I lunghi giri per evitare il vicolo dove abitava il bulletto riccio dal sorriso protervo, o il magazzino buio e puzzolente, in fondo al quale viveva un cane enorme, sempre alla catena, che si avventava abbaiando sui passanti.
Zecurille viene a prendere i bambini cattivi e li porta via con il suo piede caprino. Anche u popònne li porta via, ma lui non sono mai riuscito a figurarmelo, è sempre restato una macchia indistinta, come un'ombra più scura in mezzo all'ombra.
La sera del Venerdì Santo la Madonna Addolorata, alla luce del plenilunio, va in giro a cercare il corpo di Gesù, con il pugnale piantato nel petto e un manto isiaco trapunto di stelle. Quella sera si fa il giro delle chiese (tre? cinque? sette?, purché siano dispari) dove è esposto il Cristo morto, con il sangue di cera che cade in goccioline sottili dalle ferite, e tutto intorno piantine di grano cresciute al buio, pallide e trasparenti come gelatina.
Per le vie del centro passa la processione: davanti il Cristo morto in una bara di cristallo, poi la Madonna in lacrime, poi la banda che suona musiche tristissime (il clarinettista aveva una molletta sullo strumento, alla quale attaccava gli spartiti), poi le bizzoche che cantano O chiodi crudeli che al mio Redentore / le carni straziate con tanto dolore / non date più pene / al caro mio bene / non più tormentate il caro Gesù, poi i bambini con la tunica rossa la corona di spine e la piccola croce in spalla, poi le bambine vestite come la Madonna.
Molte vie del centro sono ancora pavimentate con lastroni di pietra vulcanica, bianchi o azzurrini, butterati da colpi di scalpello, che con la pioggia diventano scivolosi come ghiaccio.
Mio nonno, che faceva il ferroviere, raccontava che una notte, tornando a casa dopo il turno, un enorme cane nero con gli occhi luccicanti l'aveva seguito per tutta la strada dalla stazione fino a casa. Era l'anima di un morto.
A casa sua ci si riscaldava con i bracieri, le forchette erano di stagno, leggere e tutte corrose, i bicchieri opachi e sapevano sempre di vino, la carta da parati piena di toppe attaccate con farina e acqua. In cima allo sgabuzzino stavano a seccare le mele cotogne.
Nella sua favola preferita, la volpe ingannava il lupo spalmandosi la testa di ricotta e sugo di pomodoro ("guarda, il pastore mi ha rotto la testa a bastonate, il cervello mi esce fuori"), e alla fine era il lupo a morire al posto suo.
L'esercito imperiale di Carlo V assediava San Severo, fedele ai Francesi. La notte in cui la città sarebbe dovuta esser presa a tradimento, un uomo percorse le vie del centro urlando: Scetàteve, jallinacce, ca mo ce 'mbicce l'acce. I soldati videro un cavaliere che galoppava nel cielo e fuggirono terrorizzati. La mattina dopo, nella chiesa di San Severino, proprio sotto l'altare, si trovarono le tracce degli zoccoli di un cavallo.
La notte del due novembre i morti scendono giù per il camino e portano regali ai bambini, ma la sera prima si deve lasciar loro qualcosa da mangiare.
Gli uomini che portavano le statue dei santi avevano un lungo bastone che terminava con una forcella. Durante le soste, si toglievano l'asta dalla spalla e la appoggiavano sulla forcella.
Sotto il convento dei Celestini c'è una cripta, dove ci sono tante sedie di pietra con un buco in mezzo alla seduta. I monaci morti venivano messi lì, a scolare i liquami della putrefazione. Poi si raccoglievano le ossa e si buttavano giù per il buco, nell'ossario, e si metteva un morto nuovo al posto del vecchio.
Sand'Andune chèpe ricce,
pigghje u foche e jànnelu ppicce,
jànnelu ppicce bbellu bbelle,
Sand'Andune c'u cambanelle.
giovedì 5 febbraio 2009
giuramento di ippocrate
"Giuro [...] di perseguire come scopi esclusivi la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza [...] di attenermi alla mia attività ai principi etici della solidarietà umana, [...] di prestare la mia opera [...] osservando le norme deontologiche che regolano l'esercizio della medicina e quelle giuridiche che non risultino in contrasto con gli scopi della mia professione, di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità condizione sociale e ideologia politica, [...] di prestare assistenza d' urgenza a qualsiasi infermo che ne abbisogni".
Questo giuramento l'hanno pronunciato tutti i medici in servizio in Italia.
Oggi il Governo italiano chiede ai medici di denunciare i clandestini che vanno a curarsi nelle strutture pubbliche. Di fatto, questo significa che molti clandestini non andranno più a curarsi per paura di venire denunciati.
In pratica, il Governo chiede ai medici di venire meno al loro giuramento e di privare alcuni esseri umani di un diritto fondamentale: quello alla salute e alla vita.
Ora più che mai, l'obiezione di coscienza non è un diritto: è un dovere.
mercoledì 4 febbraio 2009
il destino è un cammello cieco
"Zuhair, nella sua lirica, dice che nel trascorrere di ottant'anni di dolore e di gloria ha visto molte volte il destino colpire all'improvviso gli uomini, come un cammello cieco; Abdalmalik afferma che questa figura non può più meravigliare. A questa osservazione si potrebbero rispondere molte cose. La prima è che, se il fine della poesia fosse la meraviglia, il suo tempo non si misurerebbe a secoli, ma a giorni e a ore, e forse a minuti. La seconda, che un grande poeta è meno inventore che scopritore.
Per lodare Ibn-Sharaf di Berja, si è ripetuto che egli soltanto avrebbe potuto immaginare che le stelle all'alba cadono lentamente, come cadono le foglie degli alberi; se ciò fosse vero, dimostrerebbe che l'immagine è futile. L'immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno. Infinite sono le cose sulla terra; una qualunque di esse può essere paragonata a qualunque altra. Paragonare le stelle a foglie non è meno arbitrario che paragonarle a pesci o a uccelli. Tutti, invece, hanno sentito qualche volta che il destino è forte e stupido, innocente e inumano. Per questo sentimento, che può essere passeggero o costante, ma che nessuno elude, fu scritto il verso di Zuhair. Non si dirà meglio quel che li è detto.
Inoltre (e questo forse è l'essenziale delle mie riflessioni) il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi. Quello di Zuhair, quando questi lo compose in Arabia, servì a paragonare due immagini, quella del vecchio cammello e quella del destino; ripetuto ora, serve a ricordare Zuhair e a confondere il nostro dolore con quello del poeta morto. La figura aveva due termini, ora ne ha quattro. Il tempo amplia l'orizzonte dei versi; ve ne sono alcuni che, come la musica, sono tutto per tutti gli uomini. Così, tormentato anni fa in Marrakesh dal ricordo di Cordova, mi compiacevo di ripetere l'apostrofe che Abdurrahmàn rivolse nei giardini di Ruzafa a una palma africana:
O palma! tu pure sei
in questo suolo straniera...
Singolare beneficio della poesia: le parole scritte da un re che anelava all'Oriente servirono a me, esiliato in Africa, per esprimere la mia nostalgia della Spagna."
Poi Averroè parlò dei primi poeti, di coloro che nel Tempo dell'Ignoranza, prima dell'Islam, già dissero tutte le cose, nell'infinito linguaggio dei deserti. Allarmato, non senza ragione, per le futilità di Ibn-Sharaf, disse che negli antichi e nel Corano era racchiusa tutta la poesia e condannò come vana e frutto d'ignoranza l'ambizione d'innovare. Gli altri ascoltarono con piacere, poiché difendeva la tradizione.
Per lodare Ibn-Sharaf di Berja, si è ripetuto che egli soltanto avrebbe potuto immaginare che le stelle all'alba cadono lentamente, come cadono le foglie degli alberi; se ciò fosse vero, dimostrerebbe che l'immagine è futile. L'immagine che un solo uomo può formare non tocca nessuno. Infinite sono le cose sulla terra; una qualunque di esse può essere paragonata a qualunque altra. Paragonare le stelle a foglie non è meno arbitrario che paragonarle a pesci o a uccelli. Tutti, invece, hanno sentito qualche volta che il destino è forte e stupido, innocente e inumano. Per questo sentimento, che può essere passeggero o costante, ma che nessuno elude, fu scritto il verso di Zuhair. Non si dirà meglio quel che li è detto.
Inoltre (e questo forse è l'essenziale delle mie riflessioni) il tempo, che dirocca i castelli, aggiunge forza ai versi. Quello di Zuhair, quando questi lo compose in Arabia, servì a paragonare due immagini, quella del vecchio cammello e quella del destino; ripetuto ora, serve a ricordare Zuhair e a confondere il nostro dolore con quello del poeta morto. La figura aveva due termini, ora ne ha quattro. Il tempo amplia l'orizzonte dei versi; ve ne sono alcuni che, come la musica, sono tutto per tutti gli uomini. Così, tormentato anni fa in Marrakesh dal ricordo di Cordova, mi compiacevo di ripetere l'apostrofe che Abdurrahmàn rivolse nei giardini di Ruzafa a una palma africana:
O palma! tu pure sei
in questo suolo straniera...
Singolare beneficio della poesia: le parole scritte da un re che anelava all'Oriente servirono a me, esiliato in Africa, per esprimere la mia nostalgia della Spagna."
Poi Averroè parlò dei primi poeti, di coloro che nel Tempo dell'Ignoranza, prima dell'Islam, già dissero tutte le cose, nell'infinito linguaggio dei deserti. Allarmato, non senza ragione, per le futilità di Ibn-Sharaf, disse che negli antichi e nel Corano era racchiusa tutta la poesia e condannò come vana e frutto d'ignoranza l'ambizione d'innovare. Gli altri ascoltarono con piacere, poiché difendeva la tradizione.
J. L. Borges, "La ricerca di Averroè" (da "L'Aleph")
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nuove strade (appunti di estetica)
Il mito dell'innovazione, il nuovo come valore in sé ("il faut être absolument moderne": ma l'arte fa i conti con il proprio tempo o con l'eternità?).
Essere "innovativi" è sempre e comunque un valore?
Non c'è nulla di più ortodosso di uno sperimentatore ad oltranza.
Il "nuovo" smette presto di essere nuovo (che cosa c'è di più banale, oggi, che scrivere una poesia mettendo una parola per verso?), il classico non smette mai di esserlo (anche se può metterci molto a diventarlo).
Il "nuovo" rischia di essere una prigione ancora più costrittiva della tradizione.
"Aprire nuove strade" è di per sé meglio che lavorare nella tradizione?
L'Ulysses è intrinsecamente meglio dei Buddenbrook? O, piuttosto, l'Ulysses ha senso perché viene dopo la grande tradizione del romanzo ottocentesco (che a sua volta nasce come espressione eversiva rispetto alle regole classiche)?
Pochi grandi innovatori sono nati tali.
Schoenberg, prima di creare il sistema dodecafonico, si sentì in dovere di scrivere un ponderoso trattato di armonia. E Coltrane, prima di lanciarsi in "My Favorite Things", esplorò il vocabolario bebop e hardbop fino a produrre "Giant Steps", che ne è l'estremizzazione. Poi lo distrusse e passò ad altro.
Calvino scriveva che l'unico modo per evadere da una prigione è conoscerne la mappa ("Il conte di Montecristo", da "Ti con zero", 1967). Non puoi aprire una porta se prima non ti rendi conto di dov'è, altrimenti ci sbatti il muso senza accorgertene.
C'è chi a 5 anni compone sinfonie e chi a 18 anni scrive "Le illuminazioni", però non si tratta di nascere dal nulla, piuttosto di precocità, di bruciare le tappe.
Ma i geni sono pochi, i presuntuosi tanti.
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martedì 3 febbraio 2009
autocritica (con la mia testa sotto i vostri piedi)
Ho pubblicato il primo post di questo blog il 27 giugno 2008, anche se l'inizio vero e proprio, ossia il momento in cui ho cominciato a scrivere con regolarità, andrebbe datato all'8 agosto. Quindi, a seconda del momento dal quale si fa iniziare il computo, sono entrato da poco, oppure sto per entrare, nel mio secondo semestre da blogger.
Ora, non ho mai creduto nell'assoluta necessità di commisurare le nostre vite sui cicli di rotazione e rivoluzione del globo terracqueo rispetto a corpi celesti come il Sole o la Luna (per me, non celebrerei manco i compleanni), però alle ricorrenze non si sfugge. Perdipiù, mi accorgo che i primi due post di agosto 2008 erano dedicati a un paio di riflessioni preliminari: quello dell'8 ai pro e contro di tenere un blog, quello del 12 alle cose di cui (non) parlare. E dunque, buona occasione per fare un po' di esame di coscienza.
(I lettori sono avvisati: se l'argomento non interessa, saltate la casella, come si faceva nel buon vecchio gioco dell'oca).
Mi chiedevo se avrei potuto essere intelligente abbastanza spesso. Problema parzialmente risolto appoggiandomi all'intelligenza altrui: post con canzoni, o poesie, o semplici aforismi. Insomma, siamo o non siamo nani sulle spalle dei giganti? Meglio un briciolo di intelligenza altrui che un quintale di sciocchezza autoprodotta.
Mi preoccupavo della pubblicità data a ogni parto del mio cervello. Paura infondata, dato che (per fortuna) questo blog lo leggiamo in quattro o cinque, sottoscritto compreso. Meglio così: lathe biosas, diceva uno che ne sapeva più di me.
Pensavo all'obbligo (?) di scrivere ogni giorno, e devo ammettere che questo è stato uno sprone positivo, una disciplina mentale. Mi ha fatto perdere del tempo, forse, sottratto al lavoro o ad attività più piacevoli, ma ho la netta impressione che ora il mio cervello giri meglio di qualche mese fa. O è vero, oppure il rincoglionimento avanza. Speriamo la prima.
Poi mi facevo una lista di argomenti di cui parlare: musica, jazz nella fattispecie (ce l'ho), letteratura (ce l'ho), cinema (mi manca, ma non è colpa mia); e una lista di argomenti di cui non parlare: sport, e in particolare calcio (vabbè, ma questa era facile, visto il peso che lo sport occupa nella mia vita e la repulsione che mi ispira uno spettacolo in cui ventidue energumeni semianalfabeti, puzzolenti di sudore, vestiti con ridicoli mutandoni, passano un'ora e mezza a correre per un prato inseguendo un pezzo di cuoio); vita privata (e posso dire di averlo fatto, visto che quel poco che ho raccontato di me era in post che parlavano d'altro).
E poi c'era la politica: e qui qualche volta mi è scappata. Ma proprio non ne potevo più. D'ora in poi cercherò di rispettare il fioretto: niente politica, o il meno possibile. Anche perché il mondo non aspetta certo la mia opinione.
E infine, che cos'è diventato in sei mesi questo blog? Per fortuna, non un diario in pubblico: non l'avrei proprio sopportato. Piuttosto, uno spazio dove mettere nero su bianco i pensieri, e magari confrontarli con quelli di qualcun altro. Ecco, uno spazio per fare un po' di chiarezza, per cernire l'utile dal superfluo.
Vedremo quanto durerà
Ora, non ho mai creduto nell'assoluta necessità di commisurare le nostre vite sui cicli di rotazione e rivoluzione del globo terracqueo rispetto a corpi celesti come il Sole o la Luna (per me, non celebrerei manco i compleanni), però alle ricorrenze non si sfugge. Perdipiù, mi accorgo che i primi due post di agosto 2008 erano dedicati a un paio di riflessioni preliminari: quello dell'8 ai pro e contro di tenere un blog, quello del 12 alle cose di cui (non) parlare. E dunque, buona occasione per fare un po' di esame di coscienza.
(I lettori sono avvisati: se l'argomento non interessa, saltate la casella, come si faceva nel buon vecchio gioco dell'oca).
Mi chiedevo se avrei potuto essere intelligente abbastanza spesso. Problema parzialmente risolto appoggiandomi all'intelligenza altrui: post con canzoni, o poesie, o semplici aforismi. Insomma, siamo o non siamo nani sulle spalle dei giganti? Meglio un briciolo di intelligenza altrui che un quintale di sciocchezza autoprodotta.
Mi preoccupavo della pubblicità data a ogni parto del mio cervello. Paura infondata, dato che (per fortuna) questo blog lo leggiamo in quattro o cinque, sottoscritto compreso. Meglio così: lathe biosas, diceva uno che ne sapeva più di me.
Pensavo all'obbligo (?) di scrivere ogni giorno, e devo ammettere che questo è stato uno sprone positivo, una disciplina mentale. Mi ha fatto perdere del tempo, forse, sottratto al lavoro o ad attività più piacevoli, ma ho la netta impressione che ora il mio cervello giri meglio di qualche mese fa. O è vero, oppure il rincoglionimento avanza. Speriamo la prima.
Poi mi facevo una lista di argomenti di cui parlare: musica, jazz nella fattispecie (ce l'ho), letteratura (ce l'ho), cinema (mi manca, ma non è colpa mia); e una lista di argomenti di cui non parlare: sport, e in particolare calcio (vabbè, ma questa era facile, visto il peso che lo sport occupa nella mia vita e la repulsione che mi ispira uno spettacolo in cui ventidue energumeni semianalfabeti, puzzolenti di sudore, vestiti con ridicoli mutandoni, passano un'ora e mezza a correre per un prato inseguendo un pezzo di cuoio); vita privata (e posso dire di averlo fatto, visto che quel poco che ho raccontato di me era in post che parlavano d'altro).
E poi c'era la politica: e qui qualche volta mi è scappata. Ma proprio non ne potevo più. D'ora in poi cercherò di rispettare il fioretto: niente politica, o il meno possibile. Anche perché il mondo non aspetta certo la mia opinione.
E infine, che cos'è diventato in sei mesi questo blog? Per fortuna, non un diario in pubblico: non l'avrei proprio sopportato. Piuttosto, uno spazio dove mettere nero su bianco i pensieri, e magari confrontarli con quelli di qualcun altro. Ecco, uno spazio per fare un po' di chiarezza, per cernire l'utile dal superfluo.
Vedremo quanto durerà
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