giovedì 12 febbraio 2009

perché non posso non dirmi deamicisiano


Cercando la parola "deamicisiano" in vari dizionari, cartacei o on-line, si trovano definizioni come: "(di tono, stile): patetico, sentimentale; sentimentalistico; moralista, moralistico" (De Mauro); "pervaso di patetismo e di buoni sentimenti" (Sabatini-Coletti); "che ha toni patetici e moralistici" (www.dizi.it); "indica, in un discorso, brano, o saggio, la presenta di caratteri di pateticità e/o moralismo" (http://it.wiktionary.org/wiki), eccetera eccetera.
Tutto vero, per carità.
Sentimentale, patetico, moralistico non sono termini che invoglino alla lettura di un libro, specie di questi tempi in cui i "sentimenti" sembrano monopolio dei vari Cucuzza e Grandifratelli e la morale è un accessorio antiquato almeno quanto le ghette e il borsello per uomini.
Eppure, eppure.
Se penso a "Cuore" - o meglio, "al libro Cuore", come credo venga ancora, chissà perché, sempre chiamato - mi torna in mente la vecchissima edizione rilegata in tela rossa posseduta da mio nonno, che me la leggeva per pomeriggi interi, in una stanza che ormai sopravvive solo nella mia memoria (la casa venduta, ristrutturata, i mobili regalati ai robivecchi, il libro finito chissà dove insieme ai tanti altri dai quali ho probabilmente contratto il virus che mi spinge a comprare dalle bancarelle volumi dalle pagine ingiallite, corrose ai margini, dalle rilegature sgangherate e macchiate di umido, volumi che mi costringono a una continua guerra di posizione tra mia moglie, che vorrebbe relegarli negli angoli più nascosti della casa, e me, che vorrei farli risalire il più possibile a portata degli occhi - e del naso, perché di quei libri amo soprattutto l'odore).
Mi torna in mente anche l'Istituto Edmondo De Amicis (o, come si esprimono più concisamente i miei compaesani, u deàmiciss), che da decenni, con la sua severa facciata umbertina, sovrintende allo struscio serale dei sanseveresi.
Soprattutto, mi tornano in mente intere frasi del libro: "quell'infame sorrise", "alza un banco con una mano", "non dire mai di un operaio che torna dal lavoro: è sudicio; dì: egli porta i segni della sua fatica", "io non ho più famiglia, la mia famiglia siete voi; mostratemi che siete ragazzi di cuore", "l'amico fece le quattro giravolte", "il quadrato del Quarantanove". E i personaggi: il muratorino, Stardi, Franti, Garrone, Nobis, Derossi, il calabrese, quello che salvava il bambino sotto all'omnibus, la maestrina dalla penna rossa, il papà che stringe la mano al re e poi accarezza il figlio ("questa è una carezza del re": a proposito, se ne sarà mica ricordato Papa Giovanni?), l'eroico Ferruccio di "Sangue romagnolo", il piccolo emigrante di "Dagli Appennini alle Ande", l'intermiere di tata.
Ora, si potrà dire tutto il male possibile di De Amicis. Il suo italiano è spesso un po' affettato, i giri di frase lievitano in una retorica impettita (però, altrettanto spesso, hanno una vivacità e un'ironia inconfondibili); i suoi protagonisti, i bambini soprattutto, sono afflitti da una sfiga apocalittica; il suo pathos oggi lo classificheremmo tout-court come ingenuo buonismo; la sua visione di un'Italia unita dal Risorgimento e dal lavoro paga lo scotto dell'incapacità di concepire il cambiamento, di un volemose bene collettivo tutto sentimenti ed elemosina, alla fine del quale i ricchi restano ricchi e i poveri restano a tossire nelle soffitte (però l'uomo non era affatto stupido, e nella sua produzione più tarda ripudiò quell'ingenuo nazionalismo per una visione sociale più complessa e matura); le sue famiglie sono occhiute, patriarcalmente oppressive (i genitori, e persino la sorella maggiore, che vanno a leggere il diario di Enrico e ci scrivono sopra i loro predicozzi); per non parlare dell'assoluta assenza di qualunque dimensione erotica (i personaggi sono tutti amici, padri, figli, fratelli, sorelle, in una sorta di casto, asessuato eden infantile).
Però sta di fatto che quelle pagine si sono inchiavardate da qualche parte nella mia memoria. Avrà forse contribuito anche lo sceneggiato di Comencini, datato 1984 (io avevo nove anni, cioè ero ancora nell'età in cui non si hanno barriere intellettuali e le cose, se colpiscono, colpiscono a fondo), con Johnny Dorelli che disegnava un maestro di grande tenerezza e con qualche piccola, perfida modifica nei caratteri dei personaggi: un Franti sociologicamente motivato ("ognuno ha una sua parte, io ho quella del cattivo"), un Enrico vigliacchetto, un Derossi insopportabilmente secchione e vanesio, al posto del figurino bello buono e generoso del libro.
Ultimamente ho ritrovato "Cuore" sul web, nella biblioteca virtuale di LiberLiber. L'ho riletto, e ho pianto come un vitello, come non mi succedeva da anni.
Insomma, "Cuore" è lì, da qualche parte. Posso provare a fare il blasé, il cinico, a deriderlo come il reperto ammuffito di un'Italietta grigia e trombona. Però le lacrime non mentono.

E concludo con un consiglio: del vecchio Edmondo, leggetevi "Amore e ginnastica" (1892), racconto tra i più fini del nostro Ottocento.
Ci troverete un'analisi sottilissima dei moti dell'animo, una grande vivacità narrativa e un erotismo del tutto inaspettato (il tema centrale è l'attrazione di un uomo debole e gracile per una donna-virago, persino con divertiti spunti di feticismo e voyeurismo).
Italo Calvino, che se ne intendeva, definì il libro "probabilmente il più bello, certo il più ricco di humour, malizia, sensualità, acutezza psicologica che mai scrisse Edmondo De Amici", e lo pubblicò nella sua collana Centopagine.
Cercàtelo: ne vale la pena.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

immagino che molto abbia fatto il tuo particolare rapporto con quel libro... voglio dire se ci sei affezionato non c'è analisi critica che tenga... ma poi perchè? chi non ha i propri scheletri nell'armadio? personalmente io ho un debole per il giornalino di giaburrasca...
e poi sono pronto a giurare che nel prossimo secolo ci sarà anche qualcuno che a sua volta scriverà un post dal titolo "perchè non posso dirmi baricchiano" proprio come fai tu oggi, prendendosela con affetto con, che ne so "castelli di rabbia"...

sergio pasquandrea ha detto...

Il Giornalino di Giamburrasca è, a suo modo, un'opera eversiva, quindi è più facile affezionarcisi. E poi fa ridere, e una cosa che fa ridere non può mai essere tanto male.
Invece il fatto di avere "Cuore" tra le mie più care memorie infantili mi provoca ancora lacerazioni interiori.