Guido Buzzelli, Ayesha (I maestri del fumetto, n. 37 - Mondadori/Il Sole 24 ore, 2009)
Lorenzo Mattotti, Da un tempo lontano (I maestri del fumetto, n. 18 - Mondadori/Il Sole 24 ore, 2009)
Non so se c'è ancora qualcuno che si pone il dubbio se il fumetto sia o non sia arte. Se per caso un simile esemplare esiste, la lettura di questi due volumi gli è caldamente consigliata.
“Ayesha” raccoglie due storie di Guido Buzzelli: “Il ritorno di Ayesha” (su testi di Mino Milani, da un romanzo di H. R. Haggard, uscito sul “Corriere dei Ragazzi” nel 1976), e “L'uomo del Bengala” (1979), sceneggiato dal grande Gino D'Antonio (in origine parte della meravigliosa serie “Un uomo un'avventura”). Storie che hanno in comune l'ambientazione esotica: in “Ayesha” un Oriente favoloso, in cui due personaggi inseguono una mitologica donna-dea, sullo sfondo di monasteri sperduti tra i ghiacci, reami nascosti, re crudeli, epiche battaglie e oscuri incantesimi; ne “L'uomo del Bengala”, l'India di metà Ottocento, con l'inevitabile, salgariano corredo di fachiri, Thugs e riti della dea Khalì.
Su sceneggiature altrui, viene un po' meno il lato perfidamente grottesco dei capolavori buzzelliani come “L'agnone” o “La rivolta dei racchi”; in compenso, viene esaltato il suo legame con l'illustrazione ottocentesca (adoro quelle illustrazioni: passerei ore a osservare il "Pinocchio" di Mazzanti o la "Commedia" del Dorè) e, andando più indietro, con il Goya dei “Capricci”. Nel grande formato di questi volumi, si esaltano i suoi straordinari giochi di pennello, i suoi neri pieni, i suoi tratteggi nervosi, uniti a quel dinamismo irrefrenabile che è una delle sue marche distintive.
Lorenzo Mattotti è, in un certo senso, l'estremo opposto. Quanto Buzzelli si esalta nel bianco e nero, tanto Mattotti lo fa nel colore: i suoi colori accesi, onirici, costruiti con sapienti stratificazioni di pastelli ad olio, su figure nelle quali la stilizzazione più estrema e il realismo più minuzioso si fondono senza soluzione di continuità.
“Da un tempo lontano” raccoglie, nella prima parte, il lungo racconto “Il rumore della brina”, nella seconda le storie brevi “Lettere da un tempo lontano”. Che non cerco nemmeno di riassumere, perché quel che davvero conta, nelle storie di Mattotti, è l'atmosfera, evocata dall'incontro alchemico di testo e immagine.
Mi si dirà che recensire un libro dicendo che il libro non si può descrivere non è un gran che, come recensione. Ma io che cosa posso farci?
Piuttosto, se non conoscete Mattotti, leggetelo. Una storia a caso, fa poca differenza. Tanto, sono tutti capolavori.
lunedì 31 gennaio 2011
domenica 30 gennaio 2011
sabato 29 gennaio 2011
la domanda sorge spontanea
Mi rivolsi a Ghinthoss. "Lei è un poeta?".
"Sì. Ho quest'onore", rispose lui sorridendo con aria compiacente.
"Ho sempre desiderato sapere una cosa di voi poeti".
"Sì", disse Ghinthoss sempre sorridendo.
"Che cazzo fate tutto il giorno?".
Robert Mcliam Wilson, "Eureka Street"
(ringrazio Agostino per la citazione)
venerdì 28 gennaio 2011
nel frattempo, al bivio
Come l’ala sfrutta il peso, chiedi un gesto
che porti in tavola o a dormire. Viene il mese giustointanto, con la sua muta affacciata ai frutti
in strada, che fanno aprile, nozze e ogni altro
a capo, per un soffio vivo e languido insieme
come se notte e cagna o giorno e angelo
sgorgassero qui, al bivio
con la platea da fare e la scrofa
che tiene il mondo in moto, che dispera
ai quattro angoli della lingua. E non c’è altro
infatti: autobomba, ladro, lavoro, amante
scarico dell’iva, tutto, dalla bocca
scuote le tende e nasce.
Stefano Guglielmin (da "Canti dell'amore coniugale")
giovedì 27 gennaio 2011
solo contro tutti
Ventisei quaderni dalla copertina blu si ammucchiano sulla mia scrivania. Ventisei ragazzi di quattordici anni circa hanno fatto un componimento di geografia. Sì, insegno geografia e storia.
Fuori c'è ancora il sole. Come si deve stare bene nei parchi! Ma il dovere innanzi tutto. Correggo i quaderni e noto sul mio taccuino i buoni e i cattivi.
L'argomento, imposto dal consiglio, è questo: "Perché abbiamo bisogno di colonie?" Sì, perché?
Vediamo un po'.
Il nome del primo scolaro incomincia per B. Si chiama Bauer, Franz Bauer. In questa classe non ci sono nomi che cominciano per A. In compenso, abbiamo cinque B. Una rarità, tanti B, su ventisei scolari in tutto. E' vero che due sono gemelli.
Scorro macchinalmente la lista alfabetica dei nomi e constato che i B fanno concorrenza agli S. Sì, ci sono quattro S, tre M, due E, due G, due L, due R, un F, un H, un N, un T, un W, uno Z, mentre non ci sono né A, né C, né D, né I, né O, né P, né, Q, né U, né V, né X, né, Y.
Ebbene, Franz Bauer, perché abbiamo bisogno di colonie?
"Abbiamo bisogno di colonie perché abbiamo bisogno di materie prime in grande quantità; senza materie prime non potremmo far funzionare come si dovrebbe la nostra industria, con la spiacevole conseguenza che il nostro lavoratore ridiventerebbe disoccupato".
Benissimo, caro Bauer.
"Ma non si tratta soltanto dell'operaio".
E di che cosa allora, Bauer?
"Si tratta di tutta la nazione, poiché, in definitiva, anche l'operaio fa parte della nazione".
Già, in definitiva, questa è davvero una scoperta straordinaria, penso; e mi colpisce una volta di più la constatazione che spesso ai nostri giorni verità vecchie come il mondo passano per parole d'ordine nuove fiammanti. O sarà sempre stato così?
Non ne so nulla.
So soltanto che devo leggere e rileggere ventisei compiti, che, da premesse storte, traggono conclusioni false. Come sarebbe bello se storto e falso si neutralizzassero a vicenda. Ma non lo fanno, passeggiano insieme a braccetto, e cantano frasi vuote.
Mi guarderò bene, naturalmente, come funzionario dello Stato, dal muovere la più piccola obiezione a questo grazioso canto. Mi dà fastidio, certo; ma che cosa si può fare, quando si è soli contro tutti? Nient'altro che avvelenarsi il sangue.
Spicciati a correggere, che devi ancora andare al cinema. Ma che cosa scrive quest'altro...?
"Tutti i negri sono mascalzoni, vili e pigri."
Una cosa davvero troppo stupida, questa. Cancelliamo.
E scrivo in margine, con inchiostro rosso: "Assurda generalizzazione!" Mi fermo. A proposito, non l'ho udita poco fa, questa frase sui negri? Dove? Ah, ecco, in trattoria, urlata dall'altoparlante. Sì, e mi aveva quasi tolto l'appetito.
Lascio quindi la frase intatta, poiché nessun professore ha il diritto di cancellare in un quaderno ciò che si dice per radio. E, mentre seguito a leggere, odo continuamente la radio: sussurra, stride, urla, geme, minaccia. E i giornali riportano le sue parole, e i ragazzi le copiano.
Fuori c'è ancora il sole. Come si deve stare bene nei parchi! Ma il dovere innanzi tutto. Correggo i quaderni e noto sul mio taccuino i buoni e i cattivi.
L'argomento, imposto dal consiglio, è questo: "Perché abbiamo bisogno di colonie?" Sì, perché?
Vediamo un po'.
Il nome del primo scolaro incomincia per B. Si chiama Bauer, Franz Bauer. In questa classe non ci sono nomi che cominciano per A. In compenso, abbiamo cinque B. Una rarità, tanti B, su ventisei scolari in tutto. E' vero che due sono gemelli.
Scorro macchinalmente la lista alfabetica dei nomi e constato che i B fanno concorrenza agli S. Sì, ci sono quattro S, tre M, due E, due G, due L, due R, un F, un H, un N, un T, un W, uno Z, mentre non ci sono né A, né C, né D, né I, né O, né P, né, Q, né U, né V, né X, né, Y.
Ebbene, Franz Bauer, perché abbiamo bisogno di colonie?
"Abbiamo bisogno di colonie perché abbiamo bisogno di materie prime in grande quantità; senza materie prime non potremmo far funzionare come si dovrebbe la nostra industria, con la spiacevole conseguenza che il nostro lavoratore ridiventerebbe disoccupato".
Benissimo, caro Bauer.
"Ma non si tratta soltanto dell'operaio".
E di che cosa allora, Bauer?
"Si tratta di tutta la nazione, poiché, in definitiva, anche l'operaio fa parte della nazione".
Già, in definitiva, questa è davvero una scoperta straordinaria, penso; e mi colpisce una volta di più la constatazione che spesso ai nostri giorni verità vecchie come il mondo passano per parole d'ordine nuove fiammanti. O sarà sempre stato così?
Non ne so nulla.
So soltanto che devo leggere e rileggere ventisei compiti, che, da premesse storte, traggono conclusioni false. Come sarebbe bello se storto e falso si neutralizzassero a vicenda. Ma non lo fanno, passeggiano insieme a braccetto, e cantano frasi vuote.
Mi guarderò bene, naturalmente, come funzionario dello Stato, dal muovere la più piccola obiezione a questo grazioso canto. Mi dà fastidio, certo; ma che cosa si può fare, quando si è soli contro tutti? Nient'altro che avvelenarsi il sangue.
Spicciati a correggere, che devi ancora andare al cinema. Ma che cosa scrive quest'altro...?
"Tutti i negri sono mascalzoni, vili e pigri."
Una cosa davvero troppo stupida, questa. Cancelliamo.
E scrivo in margine, con inchiostro rosso: "Assurda generalizzazione!" Mi fermo. A proposito, non l'ho udita poco fa, questa frase sui negri? Dove? Ah, ecco, in trattoria, urlata dall'altoparlante. Sì, e mi aveva quasi tolto l'appetito.
Lascio quindi la frase intatta, poiché nessun professore ha il diritto di cancellare in un quaderno ciò che si dice per radio. E, mentre seguito a leggere, odo continuamente la radio: sussurra, stride, urla, geme, minaccia. E i giornali riportano le sue parole, e i ragazzi le copiano.
Ödön von Horváth, Gioventù senza Dio (1938)
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Che la religione pubblica fosse decaduta in misura notevole in Atene, nel cinquantennio dopo Cheronea, lo possiamo arguire dall'inno di Ermocle a Demetrio Poliorcete: in nessun'altra epoca anteriore sarebbe stato possibile cantare, in occasione di una grande solennità pubblica, un inno in cui si dice che gli dèi della città o sono indifferenti, o non esistono, e che un vero dio, lo stesso Demetrio, ha ormai sostituito quelle inutili immagini di legno o di pietra. [...] Il motivo adulatorio può non essere sincero, ma lo scetticismo è evidentemente effettivo, anzi doveva essere assai diffuso, perché si dice che l'inno fosse popolarissimo. Che il culto ellenistico del monarca fosse sempre poco sincero, che fosse una montatura politica e niente altro, non lo crederà nessuno che abbia osservato, ai nostri giorni, il costante aumento dell'entusiasmo delle masse nei confronti di re, di dittatori, o, in mancanza di meglio, di campioni sportivi (*). Quando i vecchi dèi si ritirano, i troni vuoti invocano a gran voce un successore, e con una certa regìa, o anche senza senza regìa (**), un mortale qualsiasi può venir elevato sino al soglio vacante. Credo che il culto del monarca, e le forme analoghe, antiche e moderne, quanto al senso religioso che possono avere per l'individuo, siano anzitutto espressione di una dipendenza impotente: chi considera divino un altro essere umano pone se stesso nella posizione correlativa di bambino o di animale.
(*) E non siamo i soli. Il V secolo, con l'approvazione di Delfi, "eroizzava" i suoi grandi atleti, e talvolta i suoi grandi uomini, secondo ogni verosimiglianza per soddisfare al desiderio popolare; mai, però prima che fossero morti. Forse una tendenza in questo senso è sempre esistita, in ogni tempo e in ogni luogo, ma un concetto serio del soprannaturale riesce a tenerla a freno. Gli onori tributati a un Brasida impallidiscono accanto a quelli che riceveva pressoché qualsiasi re ellenistico, e Hitler si è avvicinato alla divinizzazione più di qualsiasi altro conquistatore dell'età cristiana.
(**) Parrebbe che, una volta contratta l'abitudine, gli onori divini fossero spesso offerti spontaneamente, perfino dai Greci; e in qualche caso chi li riceveva ne era sinceramente imbarazzato, ad esempio Antigono Gonata, che sentendosi definire un dio, ribattè seccamente, "Chi vuota il mio orinale non se ne è accorto" (Plutarco, Is. et Os., 24, 360 CD)
(*) E non siamo i soli. Il V secolo, con l'approvazione di Delfi, "eroizzava" i suoi grandi atleti, e talvolta i suoi grandi uomini, secondo ogni verosimiglianza per soddisfare al desiderio popolare; mai, però prima che fossero morti. Forse una tendenza in questo senso è sempre esistita, in ogni tempo e in ogni luogo, ma un concetto serio del soprannaturale riesce a tenerla a freno. Gli onori tributati a un Brasida impallidiscono accanto a quelli che riceveva pressoché qualsiasi re ellenistico, e Hitler si è avvicinato alla divinizzazione più di qualsiasi altro conquistatore dell'età cristiana.
(**) Parrebbe che, una volta contratta l'abitudine, gli onori divini fossero spesso offerti spontaneamente, perfino dai Greci; e in qualche caso chi li riceveva ne era sinceramente imbarazzato, ad esempio Antigono Gonata, che sentendosi definire un dio, ribattè seccamente, "Chi vuota il mio orinale non se ne è accorto" (Plutarco, Is. et Os., 24, 360 CD)
Eric R. Dodds, "Il timore della libertà",
in I Greci e l'irrazionale (1951)
in I Greci e l'irrazionale (1951)
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sopravvissuti
Il 30 marzo 1944 le vacanze di Pasqua avrebbero dovuto ricondurmi a Lusigny. Non ricordo perché mi trovassi, invece, a Neuilly. Quel giorno, all'alba, elementi di un reggimento ucraino comandati da sottufficiali tedeschi circondarono Lusigny e iniziarono una perquisizione che aveva tutta l'aria di una spedizione punitiva. Per ore e ore i soldati circolarono per le case, rompendo e saccheggiando tutto quello che capitava loro sotto mano. [...] Tutti i maschi di più di quindici anni erano chiusi nella chiesa. Più tardi furono condotti nel bosco. Credettero di venir portati alla fucilazione. Ma al momento era solo per fargli seppellire nove partigiani uccisi nel corso di uno scontro che era all'origine di tutto. Alla fine, quattordici persone vennero caricate sui camion e spedite in direzione ignota. La famiglia Fournier vide partire il padre, il garzone di quindici anni e i due figli maggiori, tutti accusati di aver foraggiato il "maquis" [la Resistenza antinazista francese]. Era la "mia" famiglia. Avrei dovuto conoscere Buchenwald con loro. Questo nome non era ancora valutato come sinistro quando più tardi cominciò a circolare nel villaggio, e qualcuno venne a domandare a mia madre che aveva viaggiato in Germania se sapesso qualcosa di quella località. [...] Buchenwald? No, lei non ne sapeva nulla. Nessuna carta della Germania registrava il nome. Voleva dire Foresta di faggi. Non era rassicurante? I nostri deportati avrebbero fatto i boscaioli...
Non tornarono tutti, e, tra quelli che tornarono, certi come papà Fournier avevano qualcosa di rotto dentro. Vegetarono e si lasciarono morire. Quando si parla di vittime dei lager, si contano solo quelli che vi sono morti. Bisognerebbe pensare anche a quelli che, essendosi aggrappati alla vita nell'ossessiva attesa della liberazione, effettivamente liberati, ma separati per sempre dagli altri a causa di quello di cui erano stati testimoni, si lasciarono scivolare nella morte, avendo esaurito ogni energia. La loro percentuale è spaventosa.
Michel Tournier
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l'altruista
Ritengo che l'essenza del fanatismo stia nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. Il fanatico è un grande altruista. Il fanatico è più interessato a te che a se stesso, di solito. Vuole salvarti l'anima, vuole redimerti, vuole affrancarti dal peccato, dall'errore, dal fumo, dalla tua fede o dalla tua incredulità, vuole migliorare le tue abitudini alimentari, vuole impedirti di bere o di votare nel modo sbagliato. Il fanatico si preoccupa assai di te, e o ti si butta al collo perché ti vuole bene sul serio o punta alla gola, nell'eventualità che ti dimostri irriducibile. In entrambi i casi, da un punto di vista topografico, il gesto è più o meno lo stesso.
(Amos Oz, Contro il fanatismo)
carne fresca
Era effettivamente una delle caratteristiche del fascismo quella di sopravvalutare la giovinezza, di farne un valore, un fine in sé, un'ossessione quasi pubblicitaria. Un movimento giovane, di giovani, per i giovani, questo era lo slogan più spesso ripetuto in Italia. E si deve convenire che la vita politica fascista ha qualcosa d'infantile, voglio dire che si manifesta a un livello che la mette alla portata dei più giovani con le sue perpetue sfilate, le sue feste, i suoi falò, le sue adunate, le sue organizzazioni giovanili.
[...]
Il nazismo innestandosi in tutta questa "giovanifilia" l'aggrava con raffinamenti maniacali. Poiché, ormai, ci si interessa ai ragazzi sin dalla loro più giovane età - non si voglion più solo dei piccoli soldati, è in causa la sostanza biologica della nazione carnale - la giovanifilia inclina alla pedofilia. E per sovrappiù si avvantaggeranno determinati caratteri fisici. La carne fresca per essere buona deve essere bionda, azzurra e dolicocefala, e ha il suo opposto in una cattiva carne bruna, nera e brachicefala. Il seguito mostrò che l'una e l'altra carne eran votate dal sistema alla distruzione, la cattiva perché condannata a massacri, oppressioni e campi di sterminio, la buona perché plasmata come carne da cannone del Reich millenario.
(Michel Tournier)
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purezza
La purezza è l'inversione maligna dell'innocenza. L'innocenza è amore dell'essere, sorridente accettazione dei nutrimenti celesti e terrestri, ignoranza dell'infernale alternativa purezza-impurità. Di questa santità spontanea e come naturale, Satana ha fatto una scimmiottatura che è somigliante ed è tutto il contrario: la purezza. La purezza è orrore della vita, odio dell'uomo, passione morbosa del nulla. Un corpo chimicamente puro ha subito un trattamento barbaro per pervenire a un simile stato assolutamente contro natura. L'uomo cavalcato dal demone della purezza semina intorno a sé la rovina e la morte. Purificazione religiosa, epurazione politica, salvaguardia della purezza della razza, sono numerose le variazioni su questo tema atroce, ma tutte sboccano in infiniti crimini, il cui strumento privilegiato è il fuoco, simbolo della purezza e simbolo dell'inferno.
(Michel Tournier, Il re degli ontani)
mercoledì 26 gennaio 2011
recensioni in pillole 89 - "Barbari"
Alessandro Barbero, Barbari. Immigrati, profughi e deportati nell'Impero Romano, Laterza 2010 (prima ed. 2006) (337 pp., € 10,50)
Alessandro Barbero è quel tizio con sorriso a 64 denti che a “Superquark” parla di curiosità relative alla vita quotidiana dei diversi periodi storici (colgo l'occasione per spezzare una lancia in favore di “Quark” e degli Angela, padre e figlio, che per quanto ormai sbiaditi e fiacchi resistono a fare divulgazione intelligente e garbata in quell'oceano fecale che è la TV).
Barbero, comunque, è anche docente universitario con tanto di solidissimo curriculum accademico. E in questo libro (oltre duecento pagine di testo, corredate da altre sessanta di note e cinquanta di bibliografie e indici vari) affronta un problema raramente trattato in tutta la sua dimensione: quale fu la politica dei Romani nei confronti dell'immigrazione di popoli stranieri all'interno del loro impero? Barbero ripercorre una vasta rassegna, dalla prima età imperiale fino alla caduta dell'Impero d'Occidente, unendo il rigore dello studioso con l'affabilità del divulgatore.
E, nel frattempo, sfata un bel po' di luoghi comuni che ancora persistono nella storiografia corrente. Ad esempio, che tra Romani e barbari ci fosse sempre conflitto: vero, piuttosto, che sovente erano gli stessi barbari a chiedere asilo e ospitalità a Romani a loro volta ben contenti di concederla, perché acquisivano così braccia per il lavoro nei campi e spade per l'esercito (e non dimentichiamo che furono di origine barbarica gli ultimi difensori dell'Impero, come il celebre Stilicone). Che i Romani disprezzassero sempre e comunque i barbari: e invece l'Impero cercò spesso di integrare i barbari nella romanità, ad esempio concedendo loro la cittadinanza al termine del servizio nell'esercito. Che i barbari fossero selvaggi vestiti di pellicce e ornati di elmi cornuti: quando molti di loro erano ansiosi di approfittare degli agi e dei lussi offerti dalla civiltà romana. L'immagine del mondo romano che ne esce è quella di un affascinante melting pot, straordinariamente simile a quello odierno.
Il che non significa che tutto fosse rose e fiori: anzi, spesso la figura peggiore ce la fanno proprio i Romani che, con il loro brillante senso della Realpolitik, non esitavano a deportare, schiavizzare e, se necessario, trucidare senza alcuno scrupolo intere tribù riottose. Fino a cadere loro stessi, quando il loro sistema sociale e militare infine collassò.
Insomma, la storia si ripete; e tutte le volte è sempre la stessa tragedia.
Alessandro Barbero è quel tizio con sorriso a 64 denti che a “Superquark” parla di curiosità relative alla vita quotidiana dei diversi periodi storici (colgo l'occasione per spezzare una lancia in favore di “Quark” e degli Angela, padre e figlio, che per quanto ormai sbiaditi e fiacchi resistono a fare divulgazione intelligente e garbata in quell'oceano fecale che è la TV).
Barbero, comunque, è anche docente universitario con tanto di solidissimo curriculum accademico. E in questo libro (oltre duecento pagine di testo, corredate da altre sessanta di note e cinquanta di bibliografie e indici vari) affronta un problema raramente trattato in tutta la sua dimensione: quale fu la politica dei Romani nei confronti dell'immigrazione di popoli stranieri all'interno del loro impero? Barbero ripercorre una vasta rassegna, dalla prima età imperiale fino alla caduta dell'Impero d'Occidente, unendo il rigore dello studioso con l'affabilità del divulgatore.
E, nel frattempo, sfata un bel po' di luoghi comuni che ancora persistono nella storiografia corrente. Ad esempio, che tra Romani e barbari ci fosse sempre conflitto: vero, piuttosto, che sovente erano gli stessi barbari a chiedere asilo e ospitalità a Romani a loro volta ben contenti di concederla, perché acquisivano così braccia per il lavoro nei campi e spade per l'esercito (e non dimentichiamo che furono di origine barbarica gli ultimi difensori dell'Impero, come il celebre Stilicone). Che i Romani disprezzassero sempre e comunque i barbari: e invece l'Impero cercò spesso di integrare i barbari nella romanità, ad esempio concedendo loro la cittadinanza al termine del servizio nell'esercito. Che i barbari fossero selvaggi vestiti di pellicce e ornati di elmi cornuti: quando molti di loro erano ansiosi di approfittare degli agi e dei lussi offerti dalla civiltà romana. L'immagine del mondo romano che ne esce è quella di un affascinante melting pot, straordinariamente simile a quello odierno.
Il che non significa che tutto fosse rose e fiori: anzi, spesso la figura peggiore ce la fanno proprio i Romani che, con il loro brillante senso della Realpolitik, non esitavano a deportare, schiavizzare e, se necessario, trucidare senza alcuno scrupolo intere tribù riottose. Fino a cadere loro stessi, quando il loro sistema sociale e militare infine collassò.
Insomma, la storia si ripete; e tutte le volte è sempre la stessa tragedia.
martedì 25 gennaio 2011
comunicazione di servizio
Ho mandato alcune cose mie al premio "Turoldo".
Tutte le poesie che partecipano al concorso vengono messe in rete; è possibile leggerle (qui) ed inviare commenti e giudizi. Sono testi già apparsi su questo blog, ma se avete voglia di dare un'occhiata, e magari anche di commentare, a me fa piacere.
lampi - 104
lunedì 24 gennaio 2011
lampi - 103
domenica 23 gennaio 2011
l'état c'est lui
"Oggi come oggi, la difesa di Silvio Berlusconi coincide con la difesa della libertà di tutti gli italiani".
(Daniele "Sopracciglio" Capezzone, al TG1 delle 13,30 di oggi)
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http://www.youtube.com/watch?v=r-mXfxdYn_o
"Le donne italiane devono avere, come sono certa che già avranno, la percezione che per Silvio Berlusconi le donne sono solo in posizione orizzontale, mai verticale".
(Daniela Santanché, 2008)
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recensioni in pillole 88 - "Nei miei occhi"
Bastien Vivès, Nei miei occhi, Black Velvet 2010 (133 pp., € 18)
Di Bastien Vivès avevo letto, tempo fa, “Il gusto del cloro”; che mi era piaciuto (ne ho parlato qui).
Questo "Nei miei occhi" l'ho visto per caso in libreria, l'ho aperto e non ho assolutamente riconosciuto lo stile (il che, per me, è un segnale più che positivo). Ne "Il gusto del cloro" c'era un tratto essenziale, pulito, riempito da larghe campiture di tinte fredde e uniformi; qui c'è un segno più nervoso, a cui vengono sovrapposti caldi e materici strati di pastello.
In più, come annuncia già il titolo, il libro è basato su una scommessa: raccontare tutto “in soggettiva”, ossia mettendo la telecamera – per così dire – direttamente negli occhi del protagonista. Del quale, per inciso, non sentiamo mai né la voce né i pensieri (e che non vediamo, ovviamente).
Per farla breve, l'ho comprato.
Lo stile narrativo, invece, è sostanzialmente quello de “Il gusto del cloro”: piccoli frammenti di vita quotidiana, fotografati in brevi tranches de vie. Un ragazzo e una ragazza si conoscono, si piacciono, cominciano a uscire insieme. Si innamorano, lei è tormentata, qualcosa forse non va, ma chissà. Finale sospeso.
Però.
Però c'è un problema: che il confine tra l'illuminazione zen e il gracile intellettualismo fine a se stesso è molto, ma molto labile. E, secondo me, qui Vivès l'ha varcato.
O, per meglio dire: non c'è niente in particolare che non mi sia piaciuto, anzi. Vivès sa come narrare e come disegnare, molte scene sono davvero ben riuscite, con invenzioni narrative e grafiche azzeccatissime: semplicemente, non sono riuscito a identificarmi in nessuno dei personaggi, né nel protagonista (invisibile, del resto, come già detto) né nella ragazza (carina, sì, ma svampita, volubile e lagnosa al limite del sopportabile). Insomma, la storia non mi ha preso, per niente.
Il finale, poi: il risvolto di copertina lo definisce “imprevedibile e spiazzante”; secondo me, lascia tutto campato per aria, e basta.
E vabbè, non è che può sempre andar bene, no?
Di Bastien Vivès avevo letto, tempo fa, “Il gusto del cloro”; che mi era piaciuto (ne ho parlato qui).
Questo "Nei miei occhi" l'ho visto per caso in libreria, l'ho aperto e non ho assolutamente riconosciuto lo stile (il che, per me, è un segnale più che positivo). Ne "Il gusto del cloro" c'era un tratto essenziale, pulito, riempito da larghe campiture di tinte fredde e uniformi; qui c'è un segno più nervoso, a cui vengono sovrapposti caldi e materici strati di pastello.
In più, come annuncia già il titolo, il libro è basato su una scommessa: raccontare tutto “in soggettiva”, ossia mettendo la telecamera – per così dire – direttamente negli occhi del protagonista. Del quale, per inciso, non sentiamo mai né la voce né i pensieri (e che non vediamo, ovviamente).
Per farla breve, l'ho comprato.
Lo stile narrativo, invece, è sostanzialmente quello de “Il gusto del cloro”: piccoli frammenti di vita quotidiana, fotografati in brevi tranches de vie. Un ragazzo e una ragazza si conoscono, si piacciono, cominciano a uscire insieme. Si innamorano, lei è tormentata, qualcosa forse non va, ma chissà. Finale sospeso.
Però.
Però c'è un problema: che il confine tra l'illuminazione zen e il gracile intellettualismo fine a se stesso è molto, ma molto labile. E, secondo me, qui Vivès l'ha varcato.
O, per meglio dire: non c'è niente in particolare che non mi sia piaciuto, anzi. Vivès sa come narrare e come disegnare, molte scene sono davvero ben riuscite, con invenzioni narrative e grafiche azzeccatissime: semplicemente, non sono riuscito a identificarmi in nessuno dei personaggi, né nel protagonista (invisibile, del resto, come già detto) né nella ragazza (carina, sì, ma svampita, volubile e lagnosa al limite del sopportabile). Insomma, la storia non mi ha preso, per niente.
Il finale, poi: il risvolto di copertina lo definisce “imprevedibile e spiazzante”; secondo me, lascia tutto campato per aria, e basta.
E vabbè, non è che può sempre andar bene, no?
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sabato 22 gennaio 2011
venerdì 21 gennaio 2011
un brano d'attualità
http://www.youtube.com/watch?v=fXPLZ9wpimA
Mi piaccion le sbarbine
Mi piaccion le sbarbine
Mi piaccion le sbarbine
Non posso farci niente
(mi piaccion le sbarbine)
Mi sento un deficiente
(yeah yeah yeah)
Lo so che non conviene
(mi piaccion le sbarbine)
Ma poi chi si trattiene
(mi piaccion le sbarbine)
Quelle alte un metro e ottanta
(yeah yeah yeah)
Quelle basse uno e cinquanta
(mi piaccion le sbarbine)
Non esiste divisione
(no no no)
Quel che conta è il calore
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine sono bionde
Le sbarbine sono more
Le sbarbine sono tante
Le sbarbine in amore
Mi piaccion le sbarbine
(yeah yeah yeah)
Anche se mi fan soffire
(mi piaccion le sbarbine)
Non ci ho mai niente da dire
(mi piaccion le sbarbine)
Quel che voglio è solo amore
(yeah yeah yeah)
Sono un tipo senza storia
(mi piaccion le sbarbine)
Mi han fregato la memoria
(mi piaccion le sbarbine)
Ma l'amore di una sbarba
(yeah yeah yeah)
Mi fa andare giù di testa
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine sono bionde
Le sbarbine sono more
Le sbarbine sono tante
Le sbarbine in amore
Le sbarbine sono carine
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine ci hanno gli occhi
(yeah yeah yeah)
Le sbarbine con i tacchi
(mi piaccion le sbarbine)
Che mi mandano nei matti
(mi piaccion le sbarbine)
Mi piaccion le sbarbine
(yeah yeah yes)
Lo so che non conviene
(no no no)
Mi piaccion le sbarbine
(mi piaccion le sbarbine)
Io voglio starci insieme
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine sono bionde
Le sbarbine sono more
Le sbarbine sono tante
Le sbarbine in amore
Yes....
Mi piaccion le sbarbine
Mi piaccion le sbarbine
Non posso farci niente
(mi piaccion le sbarbine)
Mi sento un deficiente
(yeah yeah yeah)
Lo so che non conviene
(mi piaccion le sbarbine)
Ma poi chi si trattiene
(mi piaccion le sbarbine)
Quelle alte un metro e ottanta
(yeah yeah yeah)
Quelle basse uno e cinquanta
(mi piaccion le sbarbine)
Non esiste divisione
(no no no)
Quel che conta è il calore
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine sono bionde
Le sbarbine sono more
Le sbarbine sono tante
Le sbarbine in amore
Mi piaccion le sbarbine
(yeah yeah yeah)
Anche se mi fan soffire
(mi piaccion le sbarbine)
Non ci ho mai niente da dire
(mi piaccion le sbarbine)
Quel che voglio è solo amore
(yeah yeah yeah)
Sono un tipo senza storia
(mi piaccion le sbarbine)
Mi han fregato la memoria
(mi piaccion le sbarbine)
Ma l'amore di una sbarba
(yeah yeah yeah)
Mi fa andare giù di testa
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine sono bionde
Le sbarbine sono more
Le sbarbine sono tante
Le sbarbine in amore
Le sbarbine sono carine
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine ci hanno gli occhi
(yeah yeah yeah)
Le sbarbine con i tacchi
(mi piaccion le sbarbine)
Che mi mandano nei matti
(mi piaccion le sbarbine)
Mi piaccion le sbarbine
(yeah yeah yes)
Lo so che non conviene
(no no no)
Mi piaccion le sbarbine
(mi piaccion le sbarbine)
Io voglio starci insieme
(mi piaccion le sbarbine)
Le sbarbine sono bionde
Le sbarbine sono more
Le sbarbine sono tante
Le sbarbine in amore
Yes....
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giovedì 20 gennaio 2011
cazzeggi beatlesiani
http://www.youtube.com/watch?v=jaZzZactGQU
http://www.youtube.com/watch?v=keWqX92kYE4
http://www.youtube.com/watch?v=fpT4kgg5xlw
http://www.youtube.com/watch?v=_cGwrlGzwcM
http://www.youtube.com/watch?v=jxXm9ZLwivQ
http://www.youtube.com/watch?v=EL8hhSlkDUM
... curiosità: non per essere maliziosi, ma voi il ritornello come lo tradurreste ("come together / right now / over me")?
... curiosità: non per essere maliziosi, ma voi il ritornello come lo tradurreste ("come together / right now / over me")?
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mercoledì 19 gennaio 2011
martedì 18 gennaio 2011
quattro poesie di andrea inglese
(dopo)
questo sopra quello sotto,
e poi il geranio e il filo di ferro,
gli esterni gli interni e sfondamenti,
e poi il sale sul gambo,
il tonfo dietro, il battito dentro,
la notte nel giardino tenue,
e poi le labbra e la nebbia… e poi…
e poi altro… a perdersi, in ritorni e fughe,
finché ci saranno coordinazioni (e poi…)
per allineare nella paratassi (e poi… )
altro ancora, malvisto, poi visto fin troppo,
andremo e verremo, e poi ancora, e poi piano
più forte, più intensamente, poi meno
e ancora, in successione, trovando
un posto, anche noi, tra i fatti :
il posto dell’ostacolo,
rallentando di traverso
quasi a tenere, a prendere,
in un abbraccio,
le ombre onde, lo scatto dei denti
sugli echi (e poi ?)
* * *
«Entra nell’ascensore, poi scendi.»
«Mi servirà davvero? Avranno custodito
il groviglio, il segreto, la mano porgerà
la chiave, saprò dove nasce
il movente?» «Sei nella colonna
vuota, in caduta, passi i piani della memoria
finché ricorderai non ciò che vedevi
con imprecisi contorni e richiami,
ma lo spessore di tavoli e sedie,
l’impugnatura dei recipienti,
le piastrelle scalfite, i mattoni
a nudo, i sacchi di plastica in aria,
ed altre tattili inezie che sotto
le dita non hai percepito
nell’urgenza di tanto sognare.»
* * *
Fra poco torneranno. Tutte quante. Le cose.
Come ai bei vecchi tempi. Nella dimora
del cuore. Ad una ad una. Col raffio,
il bastone curvo, la rete, pian piano.
Con il loro blues, il mormorio roco
di fondo, in umida mota, dal fondo
sorgeranno. E meditano, nel sommo,
una calma definitiva adunata.
* * *
Desiderio
Le reti erano quelle alte del tennis
dietro a cui colava un’acqua
dubbia, tra argini d’erba.
Tu imparavi a ipnotizzare
le rane, io sganciavo cauto
il tuo reggiseno, e le menti buie
schiarivano, in sogno nessuno
ha fretta, potevo passarti
ogni tanto la lingua sulla schiena,
tra le scapole, mentre la festa
in giardino continuava.
Portavo bicchieri sempre doppi,
pieni di sangue, che rovesciavo
a terra, al riparo da bocche
assetate, indiscrete,
ancora non ti decidevi
a sfilarlo il vestito scollato,
ci spostavamo sui fondali
senza mai doverlo consumare
il desiderio, ed esso si eternava
davanti a noi, nitido nell’aria,
come un fiore crudo, una galassia.
lunedì 17 gennaio 2011
visioni - 1 e 2
Quando arrivai a Perugia, nel novembre 1993, c'erano almeno cinque o sei cinema in centro o nelle immediate vicinanze, ai quali si aggiungevano una cineteca e vari cineforum. Io non sono mai stato un grande esperto di cinema, ma in quegli anni ero uno spettatore piuttosto assiduo; diciamo almeno un paio di volte a settimana, alternando roba più mainstream con bizzarrie di vario tipo. Quando, nell'inverno del 1998, cominciai a uscire con quella che sarebbe poi diventata mia moglie, trascinai anche lei - non saprei dire quanto contenta, comunque ci veniva.
Verso la fine degli anni '90 chiuse il Modernissimo, una saletta d'essai nascosta in un vicolo medievale proprio sopra Porta Pesa. Poco dopo, l'Ariston (due sale di fronte alla stazione) cominciò a proiettare film porno per poi chiudere; adesso al suo posto c'è una sala bingo. Seguì il Lilli, in piazza Partigiani. L'anno scorso hanno chiuso i battenti, non si sa ancora se in via provvisoria o definitiva, il Turreno (due sale, in pieno centro) e il Pavone, cinema-teatro storico, che si affaccia su Corso Vannucci.
Oggi sopravvivono lo Zenith, saletta di dimensioni medio-piccole rintanata in una discesa di Borgo XX Giugno, estrema propaggine del centro storico, e il Sant'Angelo, un teatrino a gestione comunale che ogni tanto proietta film. D'estate, ci sono un paio di rassegne all'aperto. In compenso, negli ultimi dieci anni hanno aperto due mega-multisala da una dozzina di sale ciascuno, entrambi completamente fuori dal centro storico, raggiungibili solo in macchina.
Nel frattempo, io mi sono laureato e ho lasciato il mio appartamentino da studente in Piazza Morlacchi, cuore della Perugia medievale, per trasferirmi sempre più in periferia. Poi abbiamo cominciato a lavorare, sia io sia mia moglie.
Risultato: non si va praticamente più al cinema, perché i due superstiti in centro sono complicati da raggiungere (questioni di parcheggio, soprattutto) e le due multisala proiettano quasi esclusivamente immondizia commerciale. Per un po' abbiamo supplito con VHS e DVD, ma tra il divano di casa e la stanchezza di una giornata in ufficio, il sonno piombava inesorabile.
Negli ultimi due o tre anni, con l'arrivo dei bambini, il lettore DVD è stato monopolizzato dai mostriciattoli, che con feroce ostinazione continuano a richiedere la visione sempre degli stessi cartoni (giuro che ormai sono in grado di recitare a memoria l'intero copione di Monsters & Co., L'era glaciale 1 e 2, Gli Aristogatti e Biancaneve e i sette nani). Nelle ore in cui i pargoli dormono, ne approfitto per lavorare.
Insomma, tutta questa tiritera per dire che tra i buoni propositi del 2011 ci ho messo anche quello di ricominciare a vedere un po' di film - buoni film, intendo, quindi la TV è esclusa a priori.
Vedremo se riuscirò a mantenerlo. Intanto, questi sono i primi due.
Gangster Story (Bonnie and Clyde) (1967) di Arthur Penn, con Warren Beatty, Faye Dunaway, Gene Hackman, Michael J. Pollard
(DVD, 7 gennaio)
La storia è ben nota.
Texas, primi anni '30. Bonnie Parker, ragazza di buona famiglia annoiata del suo lavoro di cameriera, incontra Clyde Barrow, fascinoso delinquentello di mezza tacca. E' amore a prima vista: Bonnie comincerà a seguire Clyde nelle sue imprese criminali. Quando, durante una rapina, lui uccide un uomo, i due entrano nella lista dei ricercati più pericolosi d'America. Per due anni lasceranno in tutto il Midwest una scia di rapine e di sangue; diventeranno idoli della stampa, che li trasformerà in un misto tra una coppia di amanti diabolici e una versione moderna di Robin Hood; e andranno infine incontro all'inevitabile morte violenta.
Arthur Penn (che, lo ricordo ai più distratti, ha girato robetta come Anna dei miracoli, Piccolo grande uomo, Furia selvaggia, Alice's Restaurant e si è spento qualche mese fa, a 88 anni) si prende parecchie libertà rispetto ai fatti storici: avvenimenti, nomi, rappresentazione dei personaggi (ad esempio, Bonnie e Clyde erano poco più che ventenni, quindi molto più giovani di come li si vede nel film) e costruisce un film che fa esplodere la tradizione del gangster-movie.
Violenza esplicita (la celebre, brutale sparatoria finale) mescolata con toni da commedia, fusione di realismo e lirismo, risvolti psicanalitici (l'impotenza sessuale di Clyde), montaggio sincopato e stile ispirato alla Nouvelle Vague (la sceneggiatura originale era stata offerta a Truffaut e a Godard).
Anche i protagonisti vengono demitizzati: Bonnie e Clyde sono due ribelli senza causa, due bambini fragili e violenti che giocano a fare i gangster. Ma, soprattutto, tutti i personaggi sono disperatamente soli, sradicati, sullo sfondo di una società senza eroi, in cui i buoni non sono migliori dei cattivi e in cui gli unici lampi di umanità arrivano dai dropouts, come i tanti contadini rovinati dalla Depressione e trasformati in vagabondi.
Candidato a nove Oscar, ne vinse due e diventò poi uno dei modelli per la New Hollywood degli anni Settanta. Fra i tanti attori giovani (Warren Beatty, Faye Dunaway, Gene Hackman) fa capolino anche un Gene Wilder al suo esordio cinematografico.
P.S.: tanto per curiosità, questi sono i veri Bonnie e Clyde e qui c'è la loro storia.
* * *
Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s'est échappé, ou Le vent souffle où il veut) (1956) di Robert Bresson.
(DVD, 9 gennaio)
Siamo in Francia, durante l'occupazione tedesca. Un membro della Resistenza è condotto in carcere in attesa della fucilazione. Con metodo e caparbietà, progetta ed esegue la propria evasione.
Una trama minimale per un film di assoluto rigore ed essenzialità. La recitazione è ridotta al minimo, i tempi sono dilatati, la sceneggiatura lascia programmaticamente fuori campo tutti gli avvenimenti più drammatici per concentrarsi esclusivamente sui personaggi e sul loro percorso interiore: la determinazione inflessibile del protagonista, il coro dei compagni di prigionia, la progressiva presa di coscienza del compagno di cella.
Anzi, in tutto il film la stessa tematica politica rimane molto sfumata (i tedeschi, ad esempio, compaiono a malapena in qualche scena marginale), dando al film un tono molto più universale, quasi metafisico, sottolineato anche dal sottotitolo francese ("il vento soffia dove vuole").
Un film di un'ora e mezza in cui non succede quasi nulla, in cui persino il finale è svelato già dal titolo, ma in cui la tensione non viene meno neanche per un secondo.
Capolavoro.
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domenica 16 gennaio 2011
prima del volo
È il suo ultimo minuto di gioia
il suo ultimo verde
l'ultimo gesto aperto nella luce.
È il suo ultimo dolore la sua ultima vocale
l'ultimo freddo sotto i canini.
Tra poco sarà amico il giorno – l'aria
darà strada al sangue
ma adesso è il suo respiro migliore
vuole trattenerlo ancora – prima
di abbandonare il peso.
sabato 15 gennaio 2011
venerdì 14 gennaio 2011
giovedì 13 gennaio 2011
nero
Io non c'ero quel giorno: ero appena uscito. Nemmeno la conosco, non è alunna mia.
Mi hanno detto che è stata adottata a nove anni, insieme alle sorelle. Venivano dalla Russia, cresciute in orfanotrofio; sono finite nella classica famiglia-modello, gente perbene, onesta, affettuosa, tutta una vita spesa per i figli.
Mi hanno anche detto che l'anno scorso andava male a scuola, si era lasciata con il ragazzo, ma che quest'anno le cose si erano aggiustate, aveva un ragazzo nuovo, i voti erano buoni. Si è parlato di un paio di compagne di classe che l'avevano insultata su FaceBook, ma chissà.
Martedì, all'uscita di scuola, ha consegnato un biglietto alle amiche, chiedendo di leggerlo una volta arrivate a casa, poi ha finto di aver dimenticato qualcosa ed è tornata indietro. E' salita al quinto piano, ha messo una sedia sotto una finestra, ci è salita sopra e si è buttata di sotto. Un volo di quindici metri.
Ora è in ospedale, in coma, fratture multiple a gambe, bacino e vertebre, un'emorragia interna. Prognosi riservata.
Negli ultimi giorni tutti - compagni, genitori, insegnanti - l'avevano vista serena, quasi felice.
mercoledì 12 gennaio 2011
martedì 11 gennaio 2011
chi ha preso i soldi?
Di Troisi pensavo di conoscere tutto, o quasi. Invece questa mi era sfuggita, e ringrazio Daniz per avermela fatta conoscere.
Mi scuso per i non-meridionali che non coglieranno le finezze; ma io non finisco mai di stupirmi per la levità, l'acutezza, l'intelligenza, insomma il genio con cui quest'uomo trovava sempre il modo più imprevisto e laterale per dire le cose. Per come riusciva a dire le cose più serie facendo credere a tutti di scherzare, di dire altro.
Dedicato, ovviamente, a Borghezio e alla feccia che lo accompagna, vota, sostiene, appoggia e spalleggia. E anche a tutta l'altra feccia che fa finta di opporglisi.
http://www.youtube.com/watch?v=a0CDIjFc9I8
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lunedì 10 gennaio 2011
no turning back
La realtà non si ripete. Ciò che viene tolto e ciò che viene ridato non sono mai la stessa identica cosa. Com’è astuta l’esca degli occultisti! «Qui da noi le cose non sono poi tanto diverse». Sigari in Paradiso. Perché è questo che vorremmo tutti: riavere indietro il passato felice.
(C. S. Lewis, "Diario di un dolore")
domenica 9 gennaio 2011
recensioni in pillole 87 - "Il ragazzo morto e le comete"
Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete, Neri Pozza 1951 (188 pp.)
Neri Pozza, che fu il suo primo editore, definì “Il ragazzo morto e le comete” un'opera “fuori dalla regola italiana, dalla nostra equilibrata tradizione”; Eugenio Montale parlò di “una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti”.
E in effetti mi risulta difficile trovare antecedenti per questo libro (e anche eredi, se è per questo; persino Parise, nella sua produzione successiva, prese tutt'altre strade). Forse gli unici paralleli che mi vengono in mente sono con scrittori che con Parise non c'entrano assolutamente niente: la Ortese de “Il cardillo innamorato” o il Bruno Schulz de “Le botteghe color cannella”, accomunati dalla stessa irriducibile e inquietante stranezza.
Quando scrisse “Il ragazzo morto”, Parise aveva vent'anni; quandò il libro uscì, nel 1951, non ne aveva ancora compiuti ventidue. Ne furono stampate mille copie (una delle quali è quella che possiedo e che ho letto: una delle mie trouvailles) e fu un insuccesso clamoroso. A Vicenza, sua città natale, tutti dissero che era “matto da legare”. Fu solo tre anni dopo, con il suo terzo romanzo, “Il prete bello”, che Parise mietè il suo primo successo di critica e pubblico, e ce ne vollero altri dieci prima che quest'opera prima fosse ristampata e riconosciuta in tutto il suo valore.
L'autore lo definì “libro lirico e cubista”. Definizione perfetta: perché Parise frantuma ogni regola di coerenza, realismo, consequenzialità narrativa; fa esplodere la prosa nella poesia; trasfigura la provincia veneta della sua adolescenza – gli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra – in un paesaggio onirico di acque putride, macerie e rifiuti, popolato da personaggi bizzarri e da adolescenti impuramente creaturali, dove vivi e morti abitano fianco a fianco con disarmante naturalezza.
Un'opera del tutto inclassificabile, che piombò come una meteora aliena nell'Italia malata di neorealismo, e che ancor oggi, dopo sessant'anni, conserva intatta la sua potenza fantastica.
P.S.: la copertina che riporto è quella dell'edizione più recente, a mia notizia (Adelphi 2006).
Neri Pozza, che fu il suo primo editore, definì “Il ragazzo morto e le comete” un'opera “fuori dalla regola italiana, dalla nostra equilibrata tradizione”; Eugenio Montale parlò di “una sostanza poetica che ribolle e rifiuta di assestarsi entro schemi definiti”.
E in effetti mi risulta difficile trovare antecedenti per questo libro (e anche eredi, se è per questo; persino Parise, nella sua produzione successiva, prese tutt'altre strade). Forse gli unici paralleli che mi vengono in mente sono con scrittori che con Parise non c'entrano assolutamente niente: la Ortese de “Il cardillo innamorato” o il Bruno Schulz de “Le botteghe color cannella”, accomunati dalla stessa irriducibile e inquietante stranezza.
Quando scrisse “Il ragazzo morto”, Parise aveva vent'anni; quandò il libro uscì, nel 1951, non ne aveva ancora compiuti ventidue. Ne furono stampate mille copie (una delle quali è quella che possiedo e che ho letto: una delle mie trouvailles) e fu un insuccesso clamoroso. A Vicenza, sua città natale, tutti dissero che era “matto da legare”. Fu solo tre anni dopo, con il suo terzo romanzo, “Il prete bello”, che Parise mietè il suo primo successo di critica e pubblico, e ce ne vollero altri dieci prima che quest'opera prima fosse ristampata e riconosciuta in tutto il suo valore.
L'autore lo definì “libro lirico e cubista”. Definizione perfetta: perché Parise frantuma ogni regola di coerenza, realismo, consequenzialità narrativa; fa esplodere la prosa nella poesia; trasfigura la provincia veneta della sua adolescenza – gli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra – in un paesaggio onirico di acque putride, macerie e rifiuti, popolato da personaggi bizzarri e da adolescenti impuramente creaturali, dove vivi e morti abitano fianco a fianco con disarmante naturalezza.
Un'opera del tutto inclassificabile, che piombò come una meteora aliena nell'Italia malata di neorealismo, e che ancor oggi, dopo sessant'anni, conserva intatta la sua potenza fantastica.
P.S.: la copertina che riporto è quella dell'edizione più recente, a mia notizia (Adelphi 2006).
sabato 8 gennaio 2011
per un'assenza
Se muore un uomo,
con lui muore
la sua prima neve, il primo bacio,
la sua prima battaglia…
E tutto egli porta via con sé.
Restano, è vero, libri e ponti.
Macchine e quadri. E’ destino
che molto rimanga, eppure
qualcosa se ne va lo stesso.
E’ la legge di un gioco spietato:
non muoiono uomini,
ma interi mondi.
[...]
Impossibile risuscitare i loro mondi misteriosi.
Ma ogni volta desidero ancora
gridare
per questa irrevocabilità.
(Evgenij Aleksandrovič Evtušenko)
Le cose accadono, non bisogna sentirsene in colpa. Non bisogna, eppure non se ne può fare a meno. Anche ora che sono passati dieci anni.
Non ho colpa se Carlo non volle vedere nessuno prima di morire; se non volle che nessuno sapesse e vedesse. Non ho colpa se, mentre moriva, io ero lontano e baciavo la mia ragazza.
Non ho colpa se l'avevo visto ad agosto, e a gennaio il cancro se l'era già divorato per intero, senza che potessi nemmeno salutarlo. Gli avevo scritto, no? E lui non mi aveva risposto.
Non ho colpa nemmeno se non ho potuto prendere un giorno di ferie per andare al suo funerale (a che sarebbe servito, del resto?).
Eppure ho la colpa di essere vivo e felice. Ho la colpa di ascoltare musica, di leggere, di ridere e di pensare.
Carlo aveva capelli biondi da scandinavo, occhi azzurri, gli piaceva il freddo (mentre io lo detesto), quando ti parlava ti si appiccicava alla faccia come fanno i miopi, suonava il contrabbasso (male, ma non gliel'ho mai detto), guidava un po' troppo veloce, al liceo gli passavo le versioni di latino (ma il prof ce l'aveva con lui e gli metteva sempre cinque), studiava a Napoli, aveva cambiato tre o quattro facoltà prima di prendere filosofia, aveva un po' il vizio di tagliare i panni addosso a tutti.
Mi aveva fatto ascoltare "Kind of Blue", "My Favorite Things" e "The Shape of Jazz to Come", e di questo gli sarò grato in eterno.
Mi diceva sempre che sarebbe venuto a trovarmi per Umbria Jazz e non l'ha mai fatto.
Quando è morto, il tredici gennaio di dieci gennai fa, non aveva ancora venticinque anni, e io non posso fare a meno di sentirmi in colpa per averne trentacinque.
(nella fotografia: R. Mapplethorpe, Calla)
http://www.youtube.com/watch?v=crPqaCgeGLA
venerdì 7 gennaio 2011
giovedì 6 gennaio 2011
recensioni in pillole 86 - "Le api migratori"
Andrea Raos, Le api migratori, Liquid/Oèdipus 2007 (135 pp. € 10)
Ricopio dalla quarta di copertina.
“Nel 1956 alcuni membri della comunità scientifica brasiliana importarono in amazzonia dall'Africa api di quel continente, più robuste, e le incrociarono ad api produttrici di miele, inoffensive, meno aggressive.
L'obiettivo era rendere queste ultime più produttive dal punto di vista economico e industriale.
Una terribile serie di mutazioni non volute produsse le cosiddette 'api assassine', che fuggirono dal laborarorio e […] migrarono verso nord. […] All'inizio degli Anni Ottanta, la paura degli scienziati ed i funzionari del governo degli Stati Uniti era che queste api creassero panico e caos mentre, capaci di uccidere vite umane, risalivano il continente americano”.
All'apparenza, un soggetto improbabile per un libro di poesia.
E invece Andrea Raos non solo ne ha tratto proprio un libro di poesia, ma un libro di poesia tra i più potenti e originali che io abbia letto ultimamente. (Ora, non ho abbastanza familiarità con il frammentatissimo e magmatico panorama della poesia contemporanea per saper riconoscere se Raos abbia avuto dei modelli, e quali siano. Comunque, io non avevo mai letto nulla del genere).
Avverto subito che la poesia di Raos è percorsa da una forte tensione sperimentale, rivolta soprattutto verso il linguaggio: i versi si frammentano e spargono sulla pagina, le parole forzano senso e sintassi, cedendo agli slittamenti fonetici, inseguendo la lingua pre-umana e pre-logica delle api, il lessico mescola prosaico e sublime, citazioni dalla Playstation e traduzioni della Pharsalia di Lucano, scienza e cosmogonia.
Allo stesso tempo, però, “Le api migratori” (a proposito: com'è ovvio, la discrasia grammaticale del titolo è voluta, e mima linguisticamente la mutazione genetica degli insetti) è un poemetto coerente e compiuto, in cui si può sempre riconoscere una solida traccia narrativa.
L'unico neo è che, a mia notizia, di un libro così vigoroso, nuovo e coinvolgente (e difficile, certo) sembra non essersi accorto nessuno, o quasi* (io stesso non me ne sarei accorto, se l'autore, che mi pregio di conoscere di persona**, non me ne avesse regalata una copia).
Purtroppo, questo è il destino della poesia. In Italia, perlomeno.
* Per chi fosse interessato, estratti dal libro si possono leggere qui, qui e qui.
** Per la cronaca, Andrea l'ho conosciuto tramite Nazione Indiana, ed è una delle poche cose buone che ho ricavato dal quel sito.
Ricopio dalla quarta di copertina.
“Nel 1956 alcuni membri della comunità scientifica brasiliana importarono in amazzonia dall'Africa api di quel continente, più robuste, e le incrociarono ad api produttrici di miele, inoffensive, meno aggressive.
L'obiettivo era rendere queste ultime più produttive dal punto di vista economico e industriale.
Una terribile serie di mutazioni non volute produsse le cosiddette 'api assassine', che fuggirono dal laborarorio e […] migrarono verso nord. […] All'inizio degli Anni Ottanta, la paura degli scienziati ed i funzionari del governo degli Stati Uniti era che queste api creassero panico e caos mentre, capaci di uccidere vite umane, risalivano il continente americano”.
All'apparenza, un soggetto improbabile per un libro di poesia.
E invece Andrea Raos non solo ne ha tratto proprio un libro di poesia, ma un libro di poesia tra i più potenti e originali che io abbia letto ultimamente. (Ora, non ho abbastanza familiarità con il frammentatissimo e magmatico panorama della poesia contemporanea per saper riconoscere se Raos abbia avuto dei modelli, e quali siano. Comunque, io non avevo mai letto nulla del genere).
Avverto subito che la poesia di Raos è percorsa da una forte tensione sperimentale, rivolta soprattutto verso il linguaggio: i versi si frammentano e spargono sulla pagina, le parole forzano senso e sintassi, cedendo agli slittamenti fonetici, inseguendo la lingua pre-umana e pre-logica delle api, il lessico mescola prosaico e sublime, citazioni dalla Playstation e traduzioni della Pharsalia di Lucano, scienza e cosmogonia.
Allo stesso tempo, però, “Le api migratori” (a proposito: com'è ovvio, la discrasia grammaticale del titolo è voluta, e mima linguisticamente la mutazione genetica degli insetti) è un poemetto coerente e compiuto, in cui si può sempre riconoscere una solida traccia narrativa.
L'unico neo è che, a mia notizia, di un libro così vigoroso, nuovo e coinvolgente (e difficile, certo) sembra non essersi accorto nessuno, o quasi* (io stesso non me ne sarei accorto, se l'autore, che mi pregio di conoscere di persona**, non me ne avesse regalata una copia).
Purtroppo, questo è il destino della poesia. In Italia, perlomeno.
* Per chi fosse interessato, estratti dal libro si possono leggere qui, qui e qui.
** Per la cronaca, Andrea l'ho conosciuto tramite Nazione Indiana, ed è una delle poche cose buone che ho ricavato dal quel sito.
mercoledì 5 gennaio 2011
il tempo e la bellezza
Anche in pieno giorno nella Stanza del Tè, la luce è sempre soffusa, poiché gli spioventi del tetto lasciano a malapena penetrare pochi raggi di sole. Ogni cosa è delicata nel colore, dal pavimento al soffitto; anche gli invitati hanno scelto con cura le loro vesti, optando per le tinte più discrete. La patina del tempo ricopre ogni oggetto, poiché in questo luogo non è ammesso niente di nuovo all’infuori del lungo cucchiaio di bambù ed all’asciugatoio di tela che deve essere nuovo e di un candore immacolato. Ogni utensile deve essere lindo e pulito per quanto vecchio esso sia. Anche l’angolo della Stanza del Tè più remoto non deve conoscere il benché minimo strato di polvere, poiché se così non fosse il padrone di casa non potrebbe ritenersi un Maestro del Tè, che deve possedere, come principale qualità, quella di scopare, pulire e lavare da se stesso la Stanza. Anche pulire e spolverare è un’arte. Un antico oggetto di metallo non deve venire lucidato sconsideratamente, con l’energia che vi impiegherebbe una massaia olandese. Su di un vaso da fiori le gocce d’acqua non devono venire asciugate ma lasciate, cosicché possano richiamare la rugiada e la freschezza.
[...]
La Stanza del Tè è completamente vuota, lo ripeto, all’infuori di quello che vi può essere portato per un periodo temporaneo e per rispondere a qualche fantasia estetica. Vi si porta a volte un oggetto di un particolare interesse artistico e si sceglie e si dispone ogni altra cosa in modo da far valere la bellezza del tema principale. Come non si possano ascoltare contemporaneamente diversi brani musicali, così si può comprendere il bello unicamente quando ci si concentra su di un motivo particolare. Come si può vedere il sistema di decorazione delle nostre Stanze del Tè è nettamente diverso da quello usato in occidente dove spesso si trasformano in piccoli musei gli interni delle case. Ad un giapponese, abituato alla semplicità ornamentale e ai frequenti cambiamenti dell’arredo, un interno occidentale pieno zeppo di quadri, sculture e antichità di ogni epoca sembra una volgare ostentazione di opulenza.
[...]
Soltanto nella Stanza del Tè ci si può consacrare all’adorazione della bellezza, senza timore di essere disturbati. Nel sedicesimo secolo la Stanza del Tè offrì ai guerrieri e agli Statisti, che lavoravano per l’unificazione e per la ricostruzione del Giappone, un gradito riposo dalle loro fatiche. Nel diciassettesimo secolo, con l’istaurazione del severo formalismo dei Tokugawa, essa costituì l’unica possibilità di libera comunione per le anime elette. Di fronte alla bellezza di un’autentica opera d’arte scompare ogni differenza tra il daimyo, il samurai e l’uomo del popolo. Oggi il processo di industrializzazione rende sempre più difficile la pratica del bello e del raffinato. Oggi più che mai sentiamo il bisogno della Stanza del Tè.
(Okakura Kakuzo, Il libro del tè)
http://www.youtube.com/watch?v=5mfyCI82lWM
martedì 4 gennaio 2011
lunedì 3 gennaio 2011
lampi - 94
domenica 2 gennaio 2011
sabato 1 gennaio 2011
il catalogo è questo (edizione 2010)
Come l'anno scorso, non importerà nulla a nessuno. Ma io lo pubblico lo stesso.
I libri letti nel 2010 (con l'esclusione della roba letta per ragioni strettamente lavorative: scuola, giornale, università).
NARRATIVA, AUTOBIOGRAFIE
Ralph Ellison, Invisible Man (cominciato nel 2009)
Dizzy Gillespie (con Al Fraser), To be or not to bop. L'autobiografia
Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa
Veronica Raimo, Il dolore secondo Matteo
Wu Ming, Altai
Marcel Schwob, Vite immaginarie
Marcel Schwob, La crociata dei bambini
Michel Tournier, Il re degli ontani
Simone Schwarz-Bart, Pioggia e vento su Telumée
John Cheever, Il nuotatore
Ödön von Horváth, Gioventù senza dio
Juan Rulfo, La pianura in fiamme
Ardengo Soffici, Kobilek
Valerio Evangelisti, Rex Tremendae Maiestatis
Piervittorio Tondelli, Rimini
P. G. Wodehouse, Avanti, Jeeves
Goffredo Parise, Il ragazzo morto e le comete (da finire)
SAGGISTICA
Daniele Barbieri, Nel corso del testo
Hermann Schreiber, La Cina. Tremila anni di civiltà
(a cura di) Giorgio Rimondi e Franco Minganti, Amiri Baraka. Ritratto dell'artista in nero
Luca Serianni, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente
Farinaccio/Sutera/Martorella, La sindrome di Bollani
Ciro Pistillo / Attilio Littera, Dizionario e grammatica del dialetto sanseverese
Gunther Schuller, Il jazz: L'era dello swing. Le orchestre bianche e i complessi
Ben Ratliff, Come si ascolta il jazz
Eric Dodds, I Greci e l'irrazionale
Carl Woideck, Charlie Parker. Vita e musica
Marco Belpoliti, Settanta
Davide Sparti, Suoni inauditi. L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana (da finire)
Alessandro Barbero, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell'Impero Romano (da finire)
POESIA
Feinstein & Komunyakaa, The Jazz Poetry Anthology vol. 1 e 2 (non per intero)
Langston Hughes, Collected Poems (non per intero)
Nazario Tartaglione, U pucchète. Raccolta di poesie in dialetto sanseverese
Andrea Raos, Le api migratori
Daniele Barbieri, La nostra vita e altro (da finire)
FUMETTI
Tex n. 591-602
Almanacco del West 2010
Texone - "I ribelli di Cuba"
Maxi Tex - "La belva umana"
Greystorm n. 4-12
Dylan Dog n. 280, 287
Dylan Dog Color Fest Humor
Dampyr n. 15, 16, 123, 124, 126
Caravan n. 8-12
Lilith n. 4 e 5
Dix n. 11-14
Magico Vento n. 126-130 + SpecialeNathan Never n. 224 e 225, Agenzia Alfa n. 21, Gigante n. 13
Tex – Sulle piste del Nord (Oscar Mondadori)
Boselli/Colombo/Majo, “Dampyr. Il figlio del diavolo” (raccolta - Oscar Mondadori)
Rat-Man n. 76-81 + AvaRat 1-2
Topolino n. 2826 (26 gennaio 2010), 2827 (3 febbraio 2010), 2828 (10 febbraio 2010)
I grandi classici Disney, n. 27 (maggio 1987)
Disney Big, settembre 2010 (raccolta)
“Gli anni d'oro di Topolino” (ristampa integrale delle storie di Floyd Gottfredson) – 38 volumi (+ anastatiche Topolino dal n. 1 – Aprile 1949 al n. 38 – Febbraio 1952)
Linus, XLVI, 1 (538), gennaio 2010
“Ken Parker Magazine” n. 2 (luglio-agosto 1992), 14 (dicembre 1993), 15 (gennaio 1994), 16 (febbraio 1994), 23 (dicembre 1994)
Sualzo, L'improvvisatore
Jiro Taniguchi, Uno zoo d'inverno
Ivo Milazzo-Fabrizio Càlzia, Uomo Faber
Paolo Bacilieri-Carlo Ambrosini, Napoleone
Grazia Nidasio, Valentina Mela Verde vol. 2
Hugo Pratt-Hector Oesterheld, Sgt. Kirk, vol. 2
Francesco Guccini-Bonvi, Storie dello spazio profondo
Aa.Vv., Alta infedeltà. Il meglio dell'eros italiano a fumetti
Magnus, Erotico e fantastico. Opere 1980-1995
Bill Watterson, The indispensable Calvin and Hobbes
Milo Manara, Le opere, vol. 19: Storie brevi
Hugo Pratt-Hector Oesterheld, Ernie Pike
Aa. Vv., Logicomix
Craig Thompson, Blankets
Jeff Smith, Bone 1 ( In fuga da Boneville) / Bone 3 (Gli occhi della tempesta)
Campanella / Pasqualini, Giètz
Aa. Vv. (a cura di A. Provinciali), Tiamottì! 11 + 1 canzoni d'amore italiane a fumetti
Manuele Fior, Cinquemila chilometri al secondo
Manuele Fior, La signorina Else
Claudio Nizzi/Rodolfo Torti, Rosco & Sonny (I maestri del fumetto, Panorama/Mondadori)
Alfredo Castelli / Ferdinando Tacconi, Gli aristocratici (I maestri del fumetto, Panorama/Mondadori)
“Kriminal” (ristampa allegata a “Panorama”, 14 volumi)
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