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venerdì 16 ottobre 2015

visioni: "Il brigante di Tacca del Lupo" (1952), o il western di casa nostra

Il brigante di Tacca del Lupo (Italia, 1952), di Pietro Germi. Con Amedeo Nazzari, Cosetta Greco, Saro Urzì (b/n, 93 minuti)

Anche noi abbiamo avuto il nostro Far West. Fu la lotta al brigantaggio.
E il paragone non sembri azzardato, perché le montagne lucane e calabresi non erano, nel 1860, meno selvagge delle praterie americane, e i contadini meridionali subirono un trattamento non meno duro di quello delle tribù pellirossa (si cerchino su Google i nomi di Pontelandolfo e Casalduni, per averne un'idea). Solo che gli americani hanno – più o meno – fatto pace con Sioux e Cheyenne, o almeno con quel poco che ne resta, mentre in Italia il Sud rimane una piaga suppurata.
Tutto ciò per dire che questo film di Pietro Germi comincia con una rappresentazione tutto sommato abbastanza verosimile di quelle che erano le condizioni del Meridione subito dopo l'Unità. Il duro e inflessibile capitano Giordani (un granitico Amedeo Nazzari) arriva in un paesello della Basilicata per prendere il comando di un reggimento di bersaglieri, deciso a dare la caccia e a catturare l'imprendibile brigante Raffa-Raffa. Si dovrà scontrare con l'ostilità della popolazione locale, ben poco disposta a dare man forte ai “piemontesi”. Persino il commissario di polizia inviato da Foggia per indagare è una figura ambigua, sfuggente, in odore di doppio gioco. E c'è pure il personaggio di un ex-ufficiale borbonico passato tra i briganti, a rappresentare quell'istanza legittimista che fu una componente importante del brigantaggio.
Per tutta la prima parte, ci sono scene anche di una certa crudezza, tra cui la fucilazione sommaria di alcuni contadini accusati di aver collaborato con i ribelli. Poi si cambia marcia, e il film si rivela per quel che è: un western, con i bersaglieri al posto del Settimo Cavalleria, Nazzari al posto di John Wayne e i briganti al posto degli Apache (che, ricordiamocelo, a quest'epoca erano ancora i cattivi, senza troppe remore morali).
Dopo vicissitudini che non sto a riassumere, la situazione si risolve grazie a una sottotrama passionale: la bella contadina Zita Maria, violentata da Raffa-Raffa, verrà vendicata dal marito Carmine, che per questo accetterà di collaborare con i bersaglieri, rivelando loro il nascondiglio dei briganti. Una piccola pattuglia, con Giordani al comando, raggiunge il covo, ma viene scoperta e assediata e sta per soccombere; sul più bello, come di prammatica, arriveranno i nostri.
Finale consolatorio, con Raffa-Raffa ucciso in duello da Carmine, i due sposi riuniti e tutta la popolazione del paese poco plausibilmente impegnata a fraternizzare con i soldati, i quali da parte loro concedono l'onore delle armi al nemico sconfitto. 
Peccato, perché poteva essere una bella occasione. Ma si vede che i tempi non erano maturi (del resto, c'è da chiedere se lo siano persino ora).

(Il film, comunque, ha un ritmo svelto e incalzante e si lascia guardare volentieri. Nella sceneggiatura, spicca la mano di un giovane Federico Fellini.)

lunedì 14 novembre 2011

visioni - 6

La classe operaia va in Paradiso (1971) di Elio Petri, con Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Salvo Randone.
(DVD, 6 novembre)

Quanto durano quarant'anni? Un battito di ciglia nella storia dell'Universo, metà della vita di un uomo, un'eternità per una mosca. Quarant'anni fa in Italia si parlava di classe operaia, lotta sindacale, rivoluzione, alienazione, piattaforma di rivendicazione unitaria. Quant'è passato? Ere geologiche?
Un'era geologica fa, usciva questo film di Elio Petri.
Il protagonista è Lulù Massa (G. M. Volontè), operaio il cui unico obiettivo nella vita è produrre, produrre e produrre. Ha trentun anni e da quindici vive in simbiosi con la sua macchina; ha una famiglia disastrata: una convivente (M. Melato), un figlio adottivo a carico, l'ex-moglie divorziata con figlio e relativi alimenti, vita sociale limitata all'ipnosi televisiva serale e ai dialoghi con Militina (Salvo Randone), ex compagno di fabbrica ora rinchiuso in manicomio.
Lulù odia gli studenti di estrema sinistra che ogni mattina urlano slogan rivoluzionari di fronte alla sua fabbrica ed è odiato dai compagni che lo vedono come un servo dei padroni. Soffre di ulcera e di impotenza, coltiva fantasie sessuali sulla giovane collega notoriamente vergine: insomma, sta male e non sa nemmeno lui perché.
Fino al giorno in cui la sua amata macchina gli mozza un dito. Lì comincia per Lulù il risveglio. Prende coscienza della propria alienazione, si lancia in un disperato sciopero, ma la sua discesa agli inferi si fa sempre più precipitosa: viene mollato dalla compagna, licenziato dai padroni, abbandonato da tutti. Arriva alle soglie della follia.
Alla fine, reintegrato nel suo posto di lavoro, si consola profetizzando ai compagni il paradiso per tutti gli operai.
Il film è scandito dal ritmo frenetico e allucinato della fabbrica; la telecamera insegue un Volonté rabbiosamente grottesco nel suo calvario, filmandolo sul posto di lavoro, o in giro per una Novara gelida e nevosa, o nel suo squallido appartamento proletario zeppo dei simboli del benessere sognato e mai raggiunto.
Un'opera a volte sbilanciata, ma sempre spinta da un autentico e doloroso furore. Che fece incazzare un po' tutti, anche (e soprattutto) a sinistra.

venerdì 21 ottobre 2011

visioni - 5

Lo spaccone (The Hustler) (1961), di Robert Rossen, con Paul Newman, Jackie Gleason, Piper Laurie, George C. Scott (DVD, domenica 16 ottobre)

Sì, sì, lo so, non mi dite niente: è un classicissimo, un capolavoro, storia del cinema, ma come non l'avevi mai visto e bla bla bla. Ebbene no: confesso, non l'avevo mai visto. E, confessione per confessione, non ho mai visto un sacco di altri classici della storia del cinema. Che ci volete fare.
La storia è notissima. Eddie Felson*, un giovanotto imbattibile al biliardo, campa spennando i "polli" di passaggio nelle piccole sale di provincia. Ma il suo sogno è sfidare e sconfiggere Minnesota Fats, il campione d'America. Ed è sul punto di riuscirci, quando gli cedono i nervi: e perde.
Si riduce quindi a vivacchiare di piccole scommesse, ma conosce Sarah, un'outcast sbandata quanto lui, e se ne innamora. Sembrerebbe l'inizio di una nuova vita, specialmente dopo che un gruppo di teppisti, infuriati per essere stati truffati, gli spezza le dita; senonché Eddie finisce tra le grinfie del cinico Gordon, un giocatore professionista che vorrebbe inculcargli la sua perversa morale: conta solo vincere, contano solo i soldi; il resto, amore compreso, non vale niente.
Eddie dovrà imparare a sue spese che alcune cose non le ripaga nulla, neanche la vittoria, neanche i quattrini.
Che dire? Semplicemente che è un film perfetto. Trama tesa dall'inizio alla fine senza il minimo cedimento, regia (di Robert Rossen, uno di quei magnifici artigiani della Hollywood di una volta, ovviamente vittima del maccartismo) classica e impeccabile, dialoghi memorabili, un bianco e nero da sindrome di Stendhal. E soprattutto un cast di attori in stato di grazia: un Paul Newman di bellezza e bravura quasi imbarazzanti, che in più di un punto ha rischiato di dare brividi erotici persino a me; Piper Laurie nella parte della sfortunata Sarah; George C. Scott un viscidone da antologia; e Jackie Gleason nel ruolo-chiave della sua carriera.
Giusto una nota a margine. Nel 1961, Hollywood produceva un film così: drammatico, disincantato, pieno di personaggi emarginati e sconfitti, privo di un vero lieto fine; un'amara riflessione sul mito del successo. Oggi... lasciamo perdere.
O tempora! O mores!


(*) Com'è noto, Newman riprese il personaggio di Eddie Felson venticinque anni dopo, ne "Il colore dei soldi" (1986), con la regia di Martin Scorsese e, per partner, un Tom Cruise sulla buona strada verso il divismo. Vidi il film secoli fa e purtroppo non ne conservo quasi alcun ricordo. Rimedierò.

sabato 12 marzo 2011

fly me to solaris



http://www.youtube.com/watch?v=eXj9dOF_vb4

lunedì 17 gennaio 2011

visioni - 1 e 2


Quando arrivai a Perugia, nel novembre 1993, c'erano almeno cinque o sei cinema in centro o nelle immediate vicinanze, ai quali si aggiungevano una cineteca e vari cineforum. Io non sono mai stato un grande esperto di cinema, ma in quegli anni ero uno spettatore piuttosto assiduo; diciamo almeno un paio di volte a settimana, alternando roba più mainstream con bizzarrie di vario tipo. Quando, nell'inverno del 1998, cominciai a uscire con quella che sarebbe poi diventata mia moglie, trascinai anche lei - non saprei dire quanto contenta, comunque ci veniva.
Verso la fine degli anni '90 chiuse il Modernissimo, una saletta d'essai nascosta in un vicolo medievale proprio sopra Porta Pesa. Poco dopo, l'Ariston (due sale di fronte alla stazione) cominciò a proiettare film porno per poi chiudere; adesso al suo posto c'è una sala bingo. Seguì il Lilli, in piazza Partigiani. L'anno scorso hanno chiuso i battenti, non si sa ancora se in via provvisoria o definitiva, il Turreno (due sale, in pieno centro) e il Pavone, cinema-teatro storico, che si affaccia su Corso Vannucci.
Oggi sopravvivono lo Zenith, saletta di dimensioni medio-piccole rintanata in una discesa di Borgo XX Giugno, estrema propaggine del centro storico, e il Sant'Angelo, un teatrino a gestione comunale che ogni tanto proietta film. D'estate, ci sono un paio di rassegne all'aperto. In compenso, negli ultimi dieci anni hanno aperto due mega-multisala da una dozzina di sale ciascuno, entrambi completamente fuori dal centro storico, raggiungibili solo in macchina.
Nel frattempo, io mi sono laureato e ho lasciato il mio appartamentino da studente in Piazza Morlacchi, cuore della Perugia medievale, per trasferirmi sempre più in periferia. Poi abbiamo cominciato a lavorare, sia io sia mia moglie.
Risultato: non si va praticamente più al cinema, perché i due superstiti in centro sono complicati da raggiungere (questioni di parcheggio, soprattutto) e le due multisala proiettano quasi esclusivamente immondizia commerciale. Per un po' abbiamo supplito con VHS e DVD, ma tra il divano di casa e la stanchezza di una giornata in ufficio, il sonno piombava inesorabile.
Negli ultimi due o tre anni, con l'arrivo dei bambini, il lettore DVD è stato monopolizzato dai mostriciattoli, che con feroce ostinazione continuano a richiedere la visione sempre degli stessi cartoni (giuro che ormai sono in grado di recitare a memoria l'intero copione di Monsters & Co., L'era glaciale 1 e 2, Gli Aristogatti e Biancaneve e i sette nani). Nelle ore in cui i pargoli dormono, ne approfitto per lavorare.
Insomma, tutta questa tiritera per dire che tra i buoni propositi del 2011 ci ho messo anche quello di ricominciare a vedere un po' di film - buoni film, intendo, quindi la TV è esclusa a priori.
Vedremo se riuscirò a mantenerlo. Intanto, questi sono i primi due.

Gangster Story (Bonnie and Clyde) (1967) di Arthur Penn, con Warren Beatty, Faye Dunaway, Gene Hackman, Michael J. Pollard
(DVD, 7 gennaio)

La storia è ben nota.
Texas, primi anni '30. Bonnie Parker, ragazza di buona famiglia annoiata del suo lavoro di cameriera, incontra Clyde Barrow, fascinoso delinquentello di mezza tacca. E' amore a prima vista: Bonnie comincerà a seguire Clyde nelle sue imprese criminali. Quando, durante una rapina, lui uccide un uomo, i due entrano nella lista dei ricercati più pericolosi d'America. Per due anni lasceranno in tutto il Midwest una scia di rapine e di sangue; diventeranno idoli della stampa, che li trasformerà in un misto tra una coppia di amanti diabolici e una versione moderna di Robin Hood; e andranno infine incontro all'inevitabile morte violenta.
Arthur Penn (che, lo ricordo ai più distratti, ha girato robetta come Anna dei miracoli, Piccolo grande uomo, Furia selvaggia, Alice's Restaurant e si è spento qualche mese fa, a 88 anni) si prende parecchie libertà rispetto ai fatti storici: avvenimenti, nomi, rappresentazione dei personaggi (ad esempio, Bonnie e Clyde erano poco più che ventenni, quindi molto più giovani di come li si vede nel film) e costruisce un film che fa esplodere la tradizione del gangster-movie.
Violenza esplicita (la celebre, brutale sparatoria finale) mescolata con toni da commedia, fusione di realismo e lirismo, risvolti psicanalitici (l'impotenza sessuale di Clyde), montaggio sincopato e stile ispirato alla Nouvelle Vague (la sceneggiatura originale era stata offerta a Truffaut e a Godard).
Anche i protagonisti vengono demitizzati: Bonnie e Clyde sono due ribelli senza causa, due bambini fragili e violenti che giocano a fare i gangster. Ma, soprattutto, tutti i personaggi sono disperatamente soli, sradicati, sullo sfondo di una società senza eroi, in cui i buoni non sono migliori dei cattivi e in cui gli unici lampi di umanità arrivano dai dropouts, come i tanti contadini rovinati dalla Depressione e trasformati in vagabondi.
Candidato a nove Oscar, ne vinse due e diventò poi uno dei modelli per la New Hollywood degli anni Settanta. Fra i tanti attori giovani (Warren Beatty, Faye Dunaway, Gene Hackman) fa capolino anche un Gene Wilder al suo esordio cinematografico.

P.S.: tanto per curiosità, questi sono i veri Bonnie e Clyde e qui c'è la loro storia.

* * *

Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s'est échappé, ou Le vent souffle où il veut) (1956) di Robert Bresson.
(DVD, 9 gennaio)

Siamo in Francia, durante l'occupazione tedesca. Un membro della Resistenza è condotto in carcere in attesa della fucilazione. Con metodo e caparbietà, progetta ed esegue la propria evasione.
Una trama minimale per un film di assoluto rigore ed essenzialità. La recitazione è ridotta al minimo, i tempi sono dilatati, la sceneggiatura lascia programmaticamente fuori campo tutti gli avvenimenti più drammatici per concentrarsi esclusivamente sui personaggi e sul loro percorso interiore: la determinazione inflessibile del protagonista, il coro dei compagni di prigionia, la progressiva presa di coscienza del compagno di cella.
Anzi, in tutto il film la stessa tematica politica rimane molto sfumata (i tedeschi, ad esempio, compaiono a malapena in qualche scena marginale), dando al film un tono molto più universale, quasi metafisico, sottolineato anche dal sottotitolo francese ("il vento soffia dove vuole").
Un film di un'ora e mezza in cui non succede quasi nulla, in cui persino il finale è svelato già dal titolo, ma in cui la tensione non viene meno neanche per un secondo.
Capolavoro.

sabato 12 giugno 2010

dalla parte di stan


Guardate questa foto.
Non vi dice niente?
Fu scattata nel 1910, a bordo di un transatlantico che andava dall'Inghilterra all'America.
Niente?
Quelli rappresentati sono gli attori di una compagnia di varietà inglese, gestita da un impresario di nome Fred Karno*.
Niente ancora?
Beh, sappiate che il tizio al centro, che sorride da dentro un salvagente, è il capocomico e si chiama Charles. Charles Spencer Chaplin. Meglio noto, da noi, come Charlot.
E quel tipetto magrolino, all'estrema sinistra, seduto con aria timida su una sdraio, si chiama Arthur Stanley Jefferson, ma di lì a qualche anno avrebbe assunto il nome d'arte di Stan Laurel. Per noi italiani, Stanlio.
Sì, i due recitavano insieme, all'epoca. Stan era un attore di seconda fila, con poche occasioni per emergere; Charles, invece, era già un piccolo divo, e cominciava a mostrare i segni del carattere egocentrico e capriccioso per cui sarebbe diventato celebre.
La compagnia andava a cercar fortuna nel Nuovo Mondo. Arrivati in America, Chaplin sfondò. Divenne in breve tempo una celebrità, famosissimo e strapagato, girò i suoi primi capolavori. Fu riconosciuto ovunque come un genio.
Stan no. Tornò in Inghilterra con la coda tra le gambe, poi ripartì di nuovo per l'America, nel 1912, fece un sacco di gavetta, e finalmente incontrò un attore dalla stazza enorme e dal carattere bonario e gentilissimo, che si chiamava Oliver Norvell Hardy; per gli amici "Babe", per gli italiani Ollio.
Ma ci vollero anni: il duo nacque ufficialmente solo nel 1927, con un cortometraggio muto dal titolo "Putting Pants on Philip".
La coppia fu sempre affiatatissima. Mai un litigio, mai uno screzio. Quasi vent'anni di lavoro insieme, fino all'ultimo film, nel 1945. Tra i due, la mente era Laurel: era lui che scriveva le sceneggiature, ideava le gag, dirigeva gli attori, supervisionava il montaggio. Quando qualcuno chiedeva qualcosa a Hardy, lui rispondeva immancabilmente: "Chiedete a Stan".
Laurel e Hardy ebbero un enorme successo, ma per la critica rimasero sempre dei guitti (solo nel 1961 Laurel, ormai vecchio e malato, ricevette un Oscar alla carriera; Hardy se n'era andato quattro anni prima). Chaplin, invece, era l'Artista.
E non è che non sia vero. E' vero.
Eppure, chissà perché, guardando quella foto del 1910, a me viene spontaneo stare dalla parte di Stan.




* Per inciso, Karno (1866-1941) fu un personaggio pittoresco: impresario geniale, scopritore di talenti, amministratore abilissimo, ma anche vero e proprio tiranno e, non ultimo, gran puttaniere. Si dice che fu lui a inventare il cosiddetto casting couch (in parole povere, le attrici per lavorare con lui dovevano prima passare... sul suo divano; in posizione orizzontale, of course).

domenica 16 maggio 2010

auguri al Maestro

Mario Monicelli.
Nato a Viareggio il 16 maggio 1915.
Per fortuna, ancora vivo e vegeto.

Totò e Carolina (1955)




I soliti ignoti (1958)




La grande guerra (1959)




L'armata Brancaleone (1966)




Amici miei(1975)




Un borghese piccolo piccolo (1977)




I picari (1988)




Parenti serpenti (1992)

sabato 26 dicembre 2009

weird nightmare

E vabbè, oggi mi sento cattivo.
Forse vuol essere un antidoto all'atmosfera caramellosa di questi giorni.
Comunque: avete presente David Lynch? Sì, il regista pazzoide di "Blue Velvet", "Twin Peaks", "Elephant Man", "Dune" eccetera eccetera.
Beh, questo è il tuo primo film, uno dei più pazzi in assoluto. Si intitola "Eraserhead" (1977) ed è in pratica tutto un'unica allucinazione lunga un'ora e mezza. Incubi assicurati.
Buona visione...


http://www.youtube.com/watch?v=nwEK7onUO6M

giovedì 15 ottobre 2009

ipazia e la censura



A Cannes è stato presentato un film di Alejandro Amenabar intitolato "Agora" (qui si può vedere qualche scena).
Racconta la vita di Ipazia di Alessandria, una delle prime donne della storia ad occuparsi di scienza (matematica, astronomia, fisica) e di filosofia. Visse tra la fine del IV e l'inizio del V secolo d.C. e fu uccisa nel 415 da fanatici cristiani, pare istigati da Cirillo, vescovo di Alessandria. L'assassinio fu particolarmente brutale: mentre passava per strada su un carro, venne trascinata in strada dalla folla, spogliata e lapidata sul sagrato di una chiesa, il suo corpo fu mutilato, smembrato e infine bruciato.
Ipazia era pagana e rifiutò di convertirsi al cristianesimo, e anzi continuò a insegnare sfidando l'interdetto delle autorità cristiane (siamo subito dopo gli Editti di Teodosio, che nel 391-392 avevano proclamato il cristianesimo religione ufficiale dell'impero e avevano dichiarato illegali tutte le forme di paganesimo). L'omicidio, comunque, fu dettato anche dalle rivalità politiche tra il prefetto imperiale Oreste (amico di Ipazia) e il vescovo Cirillo.
Quella di Ipazia è una figura molto interessante: era ritenuta una delle menti più brillanti della sua epoca e pare abbia inventato anche parecchi strumenti scientifici, tra cui l'astrolabio. Ebbe come allievo Sinesio di Cirene, che più tardi si convertì al cristianesimo e divenne uno dei più importanti scrittori cristiani del IV-V secolo. Oltre a interessarsi di matematica, Ipazia fu anche tra i principali esponenti del tardo neoplatonismo pagano. Purtroppo, tutte le sue opere sono andate perdute.

Il film, dicevo, è stato stato presentato a Cannes e sembra abbia riscosso un buon successo.
Ultimamente si è scatenata una polemica perché pare che in Italia vogliano censurarlo o non distribuirlo proprio (ne parla La Stampa del 7 ottobre, e pare ci sia anche un gruppo di FaceBook che se ne sta occupando).
Ora, io non so se veramente si stia pensando di boicottare il film, e non ho idea del suo valore. Dal trailer, sembrerebbe un kolossal, realizzato con gran dispiego di mezzi e di effetti speciali. Da quel che ho capito, Amenabar - del quale mi era piaciuto molto "The Others" (2001), una ghost story con protagonista Nicole Kidman - lo ha pensato come un apologo contro il fanatismo, di qualunque marca religiosa o politica o filosofica (anche se Ipazia è stata spesso rappresentata come una martire della tolleranza pagana, oppressa dall'assolutismo cristiano).
Spero solo che il film si possa vedere e che se ne possa parlare. Il tema mi interessa molto, e ho sempre avuto un debole per le età "tarde": l'ellenismo, la tarda latinità, l'impero bizantino, il tardo Medioevo...
E poi, la protagonista è Rachel Weisz, e per me questo è già un bel titolo di merito...

P.S.: la vita di Ipazia è raccontata anche in un testo teatrale di Mario Luzi (scrittore cattolicissimo, per inciso), intitolato "Il libro di Ipazia" (1974).

giovedì 1 ottobre 2009

a proposito di sex symbol

Ma quanto erano sexy 'ste dive degli anni Trenta?
Guardate, per esempio, da 6:27 a 7:50.



Da: Red Dust, 1932, con Jean Harlow, Clark Gable,
Gene Raymond e Mary Astor.
Il filmato si può vedere anche qui.

giovedì 21 maggio 2009

non c'è più religione

Pensavo di averle viste tutte, ma Sherlock Holmes con il nunchaku proprio mi mancava.