Posso dire a mia discolpa che non è un testo a mio nome, ma un'antologia. O che è solo una plaquette, una ventina tra poesie e prose poetiche, e che dunque, alla fin fine, gran danno non fa. Oppure che, trattandosi di poesia, non lo leggerà nessuno, forse neanche parenti e amici. Tanto più che esce d'estate. Però non ci sono scuse: d'ora in poi appartengo anch'io alla funesta schiatta degli scrittori pubblicati. Peggio: dei poeti pubblicati. Ne faccio pubblica autocritica. Con la mia testa sotto i vostri piedi.
(Poi, se proprio volete farvi del male, il libro è questo.)
Sono le tre di notte. Tre e diciotto, per la precisione. È venerdì ventritre luglio duemiladieci, anche se sul blog questo pezzo chissà se e quando lo pubblicherò. Però mi interessava fissare una data, con tanto di ore e minuti. Perché oggi, ora, in questo preciso momento, finisce una fase della mia vita iniziata sei anni fa. Finisce serenamente, senza rimpianti. Dal 2004 ad oggi mi sono sposato, ho avuto due splendidi bambini che sono la cosa migliore fatta in vita mia, ho scritto di musica, studiato, concluso un dottorato, viaggiato, parlato in conferenze internazionali, e soprattutto ho imparato. Tanto. Oggi sono un altro uomo, posso dirlo in piena coscienza. Però qualche minuto fa ho completato e spedito la revisione di un articolo al quale stavo lavorando da mesi, destinato a una prestigiosa rivista americana, una delle più grosse del mio settore. Non so se l'articolo sarà accettato. Se dovessi valutare in base al mio giudizio, direi: no. Ma non è questo che importa. Importa il fatto che questo è l'ultimo lavoro che faccio per il progetto di ricerca con cui ho lavorato negli ultimi anni. Soldi per finanziarlo non ce ne sono più, perciò da settembre tornerò ad insegnare al liceo. Devo mangiare, io, e tengo pure famiglia, e per come è messa oggi l'università rischierei di crescere i miei figli a pane e acqua. Non che tornare a insegnare mi dispiaccia. Anzi, tra tutte le cose che ho fatto, insegnare è forse quella che mi piace di più (i problemi con la scuola piuttosto sono altri, ma magari ne parliamo un'altra volta). E, a dire il vero, mi ero anche un po' stufato della situazione all'università, per una serie di motivi che adesso non è il caso di stare a spiegare. Questo non significa che taglierò i ponti con l'ambiente accademico, anzi, ho già dei nuovi contatti in ballo, ma certamente cambierò università, dipartimento, campo di studi. Non di molto, ma quanto basta. E dovrò (se ci riesco) farlo in parallelo con l'insegnamento a scuola. Insomma, times they are a-changin'. Intanto, per ora guardo la pagina web del giornale, che mi dice “you have successfully uploaded your revision”. Fra un po' (settimane? mesi? non si può mai sapere) avrò una risposta. Per ora saluto quest'ultimo piccolo parto del mio intelletto, come si saluterebbe un palloncino che prende il volo verso il cielo, o una barchetta di carta lasciata andare giù per un rigagnolo. Buon viaggio per il mondo. Non lo rileggerò, perché non ritorno mai su quel che ho fatto. Quel che è stato è stato. Da settembre, vita nuova, che poi è la vita vecchia, che avevo interrotto quando ero andato in aspettativa, ma insomma sono io ad essere diverso. Però prima si va in ferie. Eccheccazzo.
Strano disco, De Gregori (1978). In copertina c'è lui, solo in mezzo a un campo deserto, ripreso da lontano mentre insegue un pallone. Un'immagine che può evocare serenità, ma anche malinconia La celeberrima "Generale", che lo apre, finisce per oscurare un album ricco di luci (l'allegra e rockeggiante "Il '56", la dolcissima "Raggio di sole", dedicata ai due figli gemelli nati proprio quell'anno, la lirica "Due Zingari") e di ombre. Anzi, direi che il disco contiene due fra le canzoni più drammatiche e disperate della sua intera produzione, "L'impiccato" e "La campana", oltre alla malinconica "Natale". Del resto, De Gregori arrivava dopo due anni di crisi, durante i quali, in seguito al famigerato "processo del Palalido", il cantautore aveva addirittura meditato di ritirarsi dalle scene. Però, proprio al centro del disco, campeggia uno dei suoi più riusciti ritratti femminili: "Renoir". Che, con un colpo di genio, viene presentata in due versioni, una malinconica e pensosa, l'altra chiassosa e caciarona (nell'LP originale, la prima versione chiudeva la facciata A, la seconda, con un bellissimo effetto, apriva il lato B, e mannaggia ai cd, dove tutto l'effetto si perde). Ve le presento entrambe.
Versione 1
http://www.youtube.com/watch?v=E35Jiy57JGA
Versione 2
http://www.youtube.com/watch?v=mxI5Auk_6ps
Gli aerei stanno al cielo come le navi al mare come il sole all'orizzonte la sera com'è vero che non voglio tornare a una stanza vuota e tranquilla dove aspetto un amore lontano e mi pettino i pensieri col bicchiere nella mano
Chi di voi l'ha vista partire dica pure che stracciona era quanto vento aveva nei capelli se rideva o se piangeva la mattina che prese il treno e seduta accanto al finestrino vide passare l'Italia ai suoi piedi giocando a carte col suo destino
Ora i tempi si sa che cambiano passano e tornano tristezza e amore da qualche parte c'è una casa più calda sicuramente esiste un uomo migliore io nel frattempo ho scritto altre canzoni di lei parlano raramente ma non vero che io l'abbia perduta dimenticata come dice la gente
Segnalo un bel post sul blog di Daniele Barbieri, a proposito di questa bellissima (e oscurissima) poesia del grande Milo De Angelis.
Questi succhi del paradiso che urla ancora nutrono un’intera ciurma e anche il più decrepito, pozzanghera della propria valle, si farà giustizia nessuno declina l’invito sono nati per tutto l’inverno, con una bocca in guerra e una bocca perfetta, vicinissime al pane e nei pazzi giungerà l’universo, quel silenzio frontale dove erano già stati.
Le donne, nelle canzoni di De Gregori, sono spesso presenze balenanti, fulminee (la madre in "1940", la "donna giovane" di "Saigon"). Due di queste apparizioni sono contenute in De Gregori (1978). La prima è nella brevissima e, secondo me, splendida "Babbo in prigione". In cui una tragedia familiare viene allusa per frammenti e, proprio per questo, emerge in maniera ancor più efficace e struggente. La seconda, nella prossima puntata.
http://www.youtube.com/watch?v=PhIg1WJEjAY
Stella guarda la luna la luna guarda Stella la notte è bella è bella e profumata d'aranciata e di menta Stella è contenta che babbo se n'è andato che babbo è via lontano...
“Rimmel” (1975), “Bufalo Bill” (1976) e “De Gregori” (1978) costituiscono un ideale trittico, che definisce quello che potremmo chiamare il primo stile maturo di De Gregori (il successivo “Viva l'Italia”, del 1979, secondo me già preannuncia la svolta verso le sonorità più vicine al pop che caratterizzeranno gli anni Ottanta). Da “Bufalo Bill”, scelgo Ipercarmela. Che è l'angelo sceso a illuminare la città “pulita e violenta” (la Torino degli anni di piombo, secondo le parole di De Gregori stesso; il che mi fa sospettare nei genitori due immigrati meridionali). Nata da suo padre e sua madre, ma in realtà figlia di un altro tempo, di un altro spazio, di una diversa e possibile felicità.
http://www.youtube.com/watch?v=NH5vqdwK_uk
La cucina era vuota il bicchiere a metà l'uomo guardava serio il muro e poi seguiva il fumo che saliva lento verso la lampadina la stagione era quasi finita l'uomo pensava "questa è casa mia"
Nella stanza del letto la donna grassa e nervosa guardava su un giornale a colori la vita di una donna bionda famosa e ricca "con qualche anno in meno" pensò "qualche anno di meno e lei somiglierebbe a me"
E il tempo passa come una colomba sulla casa dell'uomo e della donna dentro una città pulita e violenta la donna partorì una stella e la chiamò Carmela figlia di suo padre e sua madre fiocco rosa da crescere in fretta rideva quasi sempre piangere non piangeva mai
Premetto: non ho idea di che cosa sia il N.I.E. (New Italian Epic). Non ho seguito le relative polemiche, che trovo sterili come tutte le polemiche letterarie (sono scrittori, che scrivano, cazzo; perché perdere tempo a polemizzare?). Comunque, chi fosse interessato trova ampio materiale qui. Non ho nemmeno letto Q, il romanzo del 1999 al quale Altai si riallaccia in parte nella trama (e che, a questo punto, penso leggerò), né altro dei Wu Ming, o Luther Blisset, o come diamine si chiamano. Ho comprato questo romanzo perché ne ho sentito parlare, mi ha incuriosito, e soprattutto mi interessavano il periodo storico (il Cinquecento) e l'ambientazione (Istambul, il Mediterraneo occidentale). In breve: il protagonista, Emanuele, è un ebreo mezzosangue (madre ebrea, padre veneziano) che ha rinnegato il suo popolo e si è messo a fare la spia per Venezia. Finché un'accusa (falsa) di alto tradimento non lo costringe a fuggire. Braccato, senza più patria né amici, finirà proprio tra le braccia dei nemici che ha sempre combattuto: i Turchi. E, in particolare, conoscerà Giuseppe / Yussuf, un ebreo sefardita è diventato potente presso la corte ottomana e che insegue un'utopia: conquistare un regno per dare una nuova terra alla sua gente dispersa per il mondo. Attraverso il rapporto con Yussuf, Emanuele riscoprirà sé stesso, troverà una ragione di vita e, per la prima volta, potrà sognare di volare alto come il falco che dà il titolo al romanzo. Peccato che i sogni si debbano prima o poi scontrare con la realtà: in questo caso, gli intrighi labirintici della politica e l'irredimibile brutalità della guerra (le pagine sull'efferato assedio di Famagosta, che costituiscono il cuore del libro, sono davvero impressionanti). Ovviamente, il finale non si rivela. E, ovviamente, la trama ha molti agganci con l'attualità, che non sto nemmeno ad enumerare. Giudizio? Il libro è scritto bene e l'ho letto in pochi giorni, con piacere. Per me, basta e avanza.
Ancora “Rimmel”, doppio De Gregori per oggi. “Buonanotte fiorellino” è una canzone che non ho mai saputo come interpretare. È davvero così dolce e tenera, quasi smielata? Oppure è una presa in giro, come sembrerebbe suggerire quel ritmo di valzer impettito e saltellante? O è entrambe le cose? Sia come sia, all'epoca si beccò un bel po' di critiche perché non era “abbastanza politica”. Erano gli anni Settanta, e farsi i cazzi propri era un crimine. Comunque, è dichiaratamente ispirata a “Winterlude” di Bob Dylan (da “New Morning”), con alcuni versi che sono una citazione quasi letterale ("winterlude by the corn tonight", "winterlude my little daisy / winterlude by the telephone wire", "the snow is so cold / but our love can be bold", "the moonlight reflects from the window / where the snowflakes cover the sand").
http://www.youtube.com/watch?v=RjoHxExQzXQ
Buonanotte buonanotte amore mio buonanotte tra il telefono e il cielo. Ti ringrazio per avermi stupito per avermi giurato che è vero. Il granturco nei campi è maturo ed ho tanto bisogno di te la coperta è gelata e l'estate è finita buonanotte questa notte è per te.
Buonanotte buonanotte fiorellino buonanotte fra le stelle e la stanza per sognarti devo averti vicino e vicino non è ancora abbastanza. Ora un raggio di sole si è fermato proprio sopra il mio biglietto scaduto. Tra i tuoi fiocchi di neve e le tue foglie di tè buonanotte questa notte è per te.
Buonanotte buonanotte monetina buonanotte tra il mare e la pioggia la tristezza passerà domattina e l'anello resterà sulla spiaggia. Gli uccellini nel vento non si fanno mai male hanno ali più grandi di me e dall'alba al tramonto sono soli nel sole buonanotte questa notte è per te.
* * *
“Piccola mela” è ripresa da un canto popolare sardo e il titolo è un'altra citazione da “Winterlude” (“my little apple”). Un rispetto amoroso cantato a voce spiegata, in bilico tra affetto e ironia ("la figlia del dottore"...). Contrasto che, poi, è anche il tema della copertina del disco, con quel ritratto di donna, romantico e ottocentesco, che stride con l'orribile carta da parati bianconera.
http://www.youtube.com/watch?v=J_LXNBAdc_8
Mi metto in tasca una piccola mela ti portassero in piazza con chiodi e catene se davvero non sei sincera.
La figlia del dottore è una maestrina e conosce a memoria tutti i libri di Omero li ripassa tre volte la mattina.
Mi metto in tasca un piccolo fiore ti legassero stretta alla quercia più vecchia se davvero non vuoi il mio cuore.
La figlia del dottore sa cantare e mi piace poi tanto quel suo modo di fare forse un giorno faremo l'amore.
Per arrivare a quello che non sai devi andare per dove non sai. Per arrivare a quello che ora non ti piace devi andare per dove non ti piace. Per arrivare a quel che non possiedi devi andare per dove non ti piace. Per arrivare a quello che non sai devi andare per dove non sai.
San Juan de la Cruz (traduzione di Cristina Campo)
Okay, siamo arrivati a uno dei capisaldi degregoriani, per universale e condivisa opinione. Et pour cause: se i primi dischi erano lavori affascinanti, ma ancora in parte immaturi, con "Rimmel" (1975) De Gregori raggiunge la sintesi perfetta tra la raffinata dimensione autoriale e la (relativa) accessibilità di testi e melodie. E infatti il disco fu un successone, più che meritato. La canzone che gli dà il titolo è uno degli esempi più compiuti di come il Principe riesca a raccontare cose già sentite (un amore che finisce, odii, amarezze e rimpianti) in modo nuovo: trattando il tema di scorcio, lasciando emergere frammenti di storie e persone all'interno di una sorta di monologo interiore. La foto, il vento che passa sul collo di pelliccia, quella frase improvvisa e definitiva ("è tutto quel che hai di me") rimangono scolpiti nella memoria. Buon ascolto.
P.S.: solo ora, riascoltando la canzone dopo anni, mi rendo conto di quanto sia dylaniana. Forse sarà quell'organo in sottofondo (Like a Rolling Stone?), o forse il canto un po' strascicato, o quel tono un po' così che c'è nel testo, quell'aria da uomo che, va bene, gli dispiace, ma in fondo sai com'è la vita... o chissà che cos'altro ancora...
http://www.youtube.com/watch?v=K9TWvYChavk
E qualcosa rimane tra le pagine chiare e le pagine scure e cancello il tuo nome dalla mia facciata e confondo i miei alibi e le tue ragioni
Chi mi ha fatto le carte mi ha chiamato vincente ma uno zingaro è un trucco è un futuro invadente fossi stato un po' più giovane l'avrei distrutto con la fantasia l'avrei stracciato con la fantasia
Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro ancora i tuoi quattro assi bada bene di un colore solo li puoi nascondere o giocare come vuoi o farli rimanere buoni amici come noi
Santa voglia di vivere e dolce Venere di rimmel come quando pioveva e tu mi domandavi se per caso avevo ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi ed il vento passava sul tuo collo di pelliccia e sulla tua persona e quando io senza capire ho detto "sì" hai detto "è tutto quel che hai di me" è tutto quel che ho di te
Ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo e la mia faccia sovrapporla a quella di chissà chi altro ancora i tuoi quattro assi bada bene di un colore solo li puoi nascondere o giocare come vuoi o farli rimanere buoni amici come noi
Da una vita mi dicono che “incuto soggezione”. E io, sinceramente, non ne capisco il motivo. O meglio. Alcune volte sì: e lo faccio anche apposta. Incutere soggezione è comodo, e serve a non essere scocciati. Però quelle volte sono la minoranza. Ma altre volte no, proprio no. Mi è capitato anche di recente, mentre chiacchieravo con una ragazza (tra parentesi, una ricercatrice universitaria seria e preparata, che di sicuro non ha da invidiare niente a nessuno, tantomeno a me). Le stavo dicendo che una certa persona non aveva mai voluto farmi leggere le cose che scrive e lei ha commentato: “probabilmente prova un po' di soggezione nei tuoi confronti”. E il brutto è che, probabilmente, aveva ragione. Rimuginandoci su, sono giunto a due possibili spiegazioni, che poi in fondo non si escludono a vicenda. La prima spiegazione è che la gente interpreti come un atteggiamento scostante e altezzoso quella che è solo la mia paura di essere importuno. Mi capita spesso di non fermarmi a parlare con una persona, o di non farle certe domande, o magari semplicemente non farmi sentire per un po', solo perché temo di risultare invadente, sgradito. Magari c'è chi trova antipatico questo modo di fare. Per me, è una forma di rispetto. La seconda spiegazione sta nel fatto che, per ragioni a me inesplicabili, sono considerato da molti come una persona “intelligente”. Ora, chiariamo subito due punti. Il primo è che non sto facendo il falso modesto per ricevere complimenti e rassicurazioni: I really mean what I'm saying. Il secondo è che, in tutta onestà, pur non considerandomi affatto uno stupido, so benissimo che c'è un mucchio di gente molto più intelligente di me. So di avere delle doti: una qualche prontezza nell'apprendere nuovi concetti e nel collegarli, buona memoria, una certa brillantezza di esposizione. Ma so anche che altre doti mi mancano, irrimediabilmente: ad esempio, quella di produrre qualcosa di realmente originale. Che è poi, secondo me, il vero segno dell'intelligenza. Nutro pensieri di seconda mano, già in parte consumati dall'usura con cervelli altrui. Poi, forse, desta impressione il mio strenuo eclettismo. La gente mi vede scrivere, suonare, disegnare, leggere, commentare, pubblicare, ecc. ecc., e pensa: “come cazzo fa?”. Ormai ho un armamentario di possibili risposte. Ad esempio: "non dormo"; che è vero. Oppure: "semplice: non faccio nulla davvero bene"; che, dal mio punto di vista, è altrettanto vero. Oppure: "lo faccio per non annoiarmi"; che è vera anche questa. Poi ce ne sarebbe un'altra che non dò mai, e forse questa è la prima volta: "il mio eclettismo è una fuga da me stesso". Fare, cambiare, non fermarmi, è un modo per evitare di trovarmi di fronte a quel nocciolo di Nulla ipnotico, pietrificante, a quella testa di Medusa che sta lì, da qualche parte, seppellita nei territori più desolati della mia psiche. È un modo per sopravvivere a me stesso.
"Francesco De Gregori", 1974, noto anche come "il disco della pecora", per via della copertina. De Gregori ha detto di ritenerlo il suo disco più brutto. Di certo è il più cupo e il più ermetico: sembra scritto sotto l'effetto di molto vino cattivo e di molte notti insonni. Anche qui, vari ritratti femminili: il sardonico quadretto coniugale di Niente da capire, il surreale Dolce amore del Bahia, o Bene, tristissima cronaca di un amore al tramonto. A me, quello che piace di più è questo, per la sua malinconia un po' scanzonata.
http://www.youtube.com/watch?v=08_7_WGg2RM
Chissà dove sei perduta nella notte col tuo trucco infame e la tua giacca da bandito. Io ti ho aspettata all'ombra dei tuoi percome col mio viso angelico percosso dai fatti. Chissà dove sei perduta nei segni con la tua sigaretta come una matita e le tue speranze di vittoria.
Io ti ho accettata come una bella calligrafia un biglietto da visita e due occhi diversi. Può accadere di tutto puoi anche conquistare vari uomini bruni e misurarne l'aspetto ma il mio indirizzo è via del sopracciglio destro con rispetto parlando e altre parti di me.
"Theorius Campus", 1972. Francesco De Gregori e Antonello Venditti, rispettivamente ventuno e ventitré anni, fanno capolino insieme sulla scena della musica leggera italiana. Sei canzoni di Venditti (fra cui la straceleberrima Roma capoccia), quattro di De Gregori (una in collaborazione con Giorgio Lo Cascio) e due pezzi scritti a quattro mani. Disco acerbo, senza dubbio. Ma affascinante. La più famosa fra quelle di De Gregori è Signora Aquilone (qui una versione live, eseguita alla tv da un Francesco giovanissimo e imberbe*), che però, in tutta onestà, ho sempre trovato bruttina anzichenò. Invece mi piace molto questa, scritta da De Gregori e cantata a due voci insieme a Venditti.
http://www.youtube.com/watch?v=pC9o0Ieo0o0
Dolce Signora che bruci per che cosa stai bruciando? I gerani al tuo balcone si stanno consumando, Dolce Signora che bruci qual è il tuo peccato originale? Quanta acqua è passata sul tuo corpo di sale?
Il tuo album di foto sta andando alla deriva e il tuo amante prezioso se n'è andato un'ora fa ma io posso capire la tua età.
Dolce Signora che bruci i soldati che aspettavi sono tutti alla tua porta che chiedono le chiavi. Stanotte puoi trovare sul mio letto di velluto gli specchi che hai spezzato i figli che hai perduto.
Il tuo album di foto sta andando alla deriva e il tuo amante prezioso se n'è andato un'ora fa ma io posso capire la tua età.
Dolce Signora che bruci per che cosa stai bruciando? I gerani al tuo balcone si stanno consumando.
*) In questa versione, De Gregori salta una strofa, che del resto era stata censurata anche nell'originale: nel dialogo con l'ubriacone, uno scandalosissimo "è cattivo come Dio" era stato sostituito con un più rassicurante "è antico come Dio".
De Gregori ha sempre respinto l'accusa di essere "ermetico". Ma ascoltando una canzone come questa non si può negare che, specialmente nei suoi primi dischi, la materia psichica più privata emergesse spesso con una forza magmatica, visionaria. La canzone è piena di bivi, incertezze, decisioni non prese, e Marianna ne è il simbolo: ferma sulla strada, con il sole nei capelli e un paradiso di stagnola. Dove andrà? Che strada sceglierà? De Gregori, ovviamente, non ce lo dice.
P.S.: a proposito, il "poeta che suonava il pianoforte" è Antonello Venditti, che con De Gregori aveva condiviso gli esordi al mitico Folkstudio e aveva inciso il primo album, "Theorius Campus". Lilli Greco era stato il produttore di quel disco. E Suzanne... beh, devo proprio dirvi chi è?
http://www.youtube.com/watch?v=R7EbE6Xt05I
Cade pioggia e cade neve non ho più la mia virtù cosa importa quel bambino alla finestra? Il dolore della gente non riguarda la mia età chiudo gli occhi ed ogni giorno è sempre festa. Anna è morta e Mario non c'è più non hanno più parole le canzoni che scrivevo non le riconosco più sono l'ombra di un fantasma che cammina ma Suzanne mi dà la mano come prima.
Ho dormito troppo a lungo la montagna era stregata da un poeta che suonava il pianoforte. Ho sognato le mie mani che sparivano nel buio mentre Dio me le stringeva un po' più forte. Quattro porte quattro verità e ognuna sorrideva e un palazzo di granito con un uomo che gridava e la luna che sembrava una patata ma Suzanne non l'ho dimenticata.
E Marianna camminava con il sole nei capelli aggrappata a un paradiso di stagnola ogni uomo che passava ne toccava la sorgente ma lasciava la sua anima da sola e la strada divideva due esistenze parallele l'orizzonte ne copriva la realtà e Marianna non sapeva cosa fosse veramente quel diamante che stringeva nella mano mentre il sole la seguiva da lontano.
Cade piogga cade neve chi ha guardato le mie carte sa che forse la mia vita è già decisa. Lilli Greco non capisce ma che dio lo benedica tra un bicchiere e una bistecca mi diverte. Quattro porte quattro verità e ognuna sorrideva e un palazzo di granito con un uomo che scriveva e la luna che sembrava una patata ma Suzanne non l'ho dimenticata.
Sempre da Alice non lo sa: non una delle più note, ma secondo me una delle più belle canzoni di De Gregori.
Come co-autore del testo, figura Edoardo De Angelis, che però - pare - si limitò a raccontare a De Gregori il fatto da cui la canzone prende spunto (anche se nell'originale non erano diamanti ma sigarette, lei non si chiamava Hilde e non suonava la cetra...).
Curiosità: i primi due versi sono un'esplicita citazione di "Story of Isaac" di Leonard Cohen, che insieme a Bob Dylan è sempre stato uno degli autori prediletti di De Gregori.
http://www.youtube.com/watch?v=yoJ5jaMhmXI
L’ombra di mio padre due volte la mia
lui camminava e io correvo.
Sopra il sentiero di aghi di pino
la montagna era verde.
Oltre quel monte il confine
oltre il confine chissà
oltre quel monte la casa di Hilde.
Io mi ricordo che avevo paura
quando bussammo alla porta
ma lei sorrise e ci disse di entrare
era vestita di chiaro.
E ci mettemmo seduti ad ascoltare il tramonto
Hilde nel buio suonava la cetra.
E nella notte mio padre dormiva
ma io guardavo la luna
dalla finestra potevo toccarla
non era più alta di me.
E il cielo sembrava più grande
ed io mi sentivo già uomo
quando la neve scese a coprire la casa di Hilde.
Il doganiere aveva un fucile
quando ci venne a svegliare.
Disse a mio padre di alzare le mani
e gli frugò nelle tasche.
Ma non trovò proprio niente
solo una foto ricordo.
Hilde nel buio suonava la cetra.
Il doganiere ci strinse la mano
e se ne andò desolato
e allora Hilde aprì la sua cetra
e tirò fuori i diamanti.
E insieme bevemmo del vino
ma io solo mezzo bicchiere.
Quando fu l’alba lasciammo la casa di Hilde.
Oltre il confine con molto dolore
non trovai fiori diversi
ma sulla strada incontrammo una capra
che era curiosa di noi.
Mio padre le andò più vicino
e lei si lasciò catturare
così la legammo a una corda e venne con noi.
Ed eccola qui, sempre da "Alice non lo sa", Irene. La sorellina minore di Alice. Alice guarda il mondo e non vede nulla, Irene sta al quarto piano e pensa al suicidio. Con la dolce, enigmatica serenità delle donne di De Gregori. Forse non è un caso che "Irene" significhi "pace".
http://www.youtube.com/watch?v=sxVe0W_nClw
Irene alla finestra e tanta gente per la strada il mondo passa accanto a lei e non la sfiora mai con le mani aperte il cuore aperto Irene guarda giù.
Irene alla finestra e tanta gente al suo suicidio con il telefono staccato l'anima in libertà com'è grande il cielo e com'è piccola una donna com'è grande il cielo.
Ed il traffico sta crescendo mentre il sole se ne va ed Irene sta sognando cose che non sa.
Irene alla finestra e tanta gente per la strada il mondo passa accanto a lei e non la sfiora mai con le mani aperte il cuore aperto Irene guarda giù.
"Alice" è la canzone che mi ha fatto innamorare di De Gregori. E ancor oggi la considero il suo capolavoro, la sua canzone più perfetta.
La ascoltai forse a 13 o 14 anni, quando De Gregori non sapevo neanche chi fosse, e ci capii poco o niente, ma che importa? Quelle figure femminili sfuggenti, enigmatiche mi si impressero subito in maniera indelebile.
Per qualche anno, credo dai 14 ai 17 o giù di lì, ascoltai De Gregori quasi ossessivamente. Il primo lp suo che comprai fu Miramare (1989), che è un disco un po' strano, un po' di transizione se vogliamo, forse non del tutto risolto, ma secondo me ancora affascinante. Poi recuperai tutti i suoi lavori precedenti, e continuai a seguirlo fino al '92 o '93.
Poi uscì Canzoni d'amore, che non mi piacque (e continua a non piacermi), e contemporaneamente scoprii il jazz, quindi lasciai indietro De Gregori per farmi prendere da altre passioni.
Però l'imprinting di "Alice" dev'essermi rimasto, perché ancor oggi una delle cose che più mi piacciono di lui sono i suoi ritratti di donna.
E dunque, ecco il primo post della serie.
I riferimenti, per quel che serve: "Alice" esce su Alice non lo sa (1973), il primo disco a suo nome. De Gregori la porta a "Un disco per l'estate" e arriva ultimo tra gli ultimi.
Irene è la protagonista di un'altra canzone dello stesso disco; Cesare è Pavese, che realmente si innamorò di una ballerina e si buscò una polmonite per averla aspettata sei ore sotto la pioggia; lo sposo continua a emettere il suo grido muto, tra l'indifferenza dei parenti.
In origine, il "qualcosa" che il mendicante arabo ha nel cappello era "un cancro", ma la censura non accettò di far passare un verso cotanto scandaloso. Altri tempi (o forse no?).
Ma Alice (in Wonderland?), con i suoi gatti pigri, tutto questo "non lo sa".
Buon ascolto.
http://www.youtube.com/watch?v=6WdopDCbr3Q
Alice guarda i gatti e i gatti guardano nel sole
mentre il mondo sta girando senza fretta.
Irene al quarto piano è lì tranquilla
che si guarda nello specchio
e accende un'altra sigaretta.
E Lilì Marlene bella più che mai
sorride e non ti dice la sua età
ma tutto questo Alice non lo sa.
Ma io non ci sto più
gridò lo sposo e poi
tutti pensarono dietro ai cappelli
lo sposo è impazzito oppure ha bevuto
ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa
non è così che se ne andrà.
Alice guarda i gatti e i gatti muoiono nel sole
mentre il sole a poco a poco si avvicina
e Cesare perduto nella pioggia
sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina
E rimane lì
a bagnarsi ancora un po'
e il tram di mezzanotte se ne va
ma tutto questo Alice non lo sa.
Alice guarda i gatti e i gatti girano nel sole
mentre il sole fa l'amore con la luna.
Il mendicante arabo ha qualcosa nel cappello
ma è convinto che sia un portafortuna.
Non ti chiede mai
pane e carità
e un posto per dormire non ce l'ha
ma tutto questo Alice non lo sa.
Ma io non ci sto più
gridò lo sposo e poi
tutti pensarono dietro i cappelli
lo sposo è impazzito oppure ha bevuto
ma la sposa aspetta un figlio e lui lo sa
non è così
che se ne andrà.
Come mai, quando si tratta di una donna, è aborto, e quando si tratta di un pollo, è un'omelette? All'improvviso siamo diventati meglio dei polli? Quand'è che abbiamo superato i polli in bontà?
Ditemi sei cose in cui noi siamo meglio dei polli. Visto? Nessuno è capace. E sapete perché? Perché i polli sono brave persone. Non s'è mai visto un pollo andare in giro a spacciare droga, no? Non s'è mai visto un pollo legare un tizio alla sedia e collegargli le palle alla batteria di un'auto, no? Quando mai si è sentito un pollo che è tornato a casa dal lavoro e ha caricato di botte la sua gallina?
Sono sempre stato particolarmente cedevole al fascino del desolato, dell'arrugginito, del demodé, della formaldeide. Fin da bambino mi piacevano i magazzini un po' bui, le soffitte polverose, i capannoni abbandonati, i negozi che odoravano di carta vecchia o di olio lubrificante; mio nonno ferroviere mi portava alla stazione e io mi incantavo a guardare non i treni, ma i binari morti, le sfumature rossicce dei vagoni merci in disarmo. Mi piace passeggiare in città, possibilmente in periferia, possibilmente quando per strada non c'è nessuno. Il cemento e l'asfalto mi rasserenano, mentre la natura, chissà perché, mi mette tristezza, quando non angoscia.
Ralph W. Ellison, Invisible Man, Vintage Books, 1990 (581 pp.)
Come si fa a recensire un capolavoro della letteratura afroamericana del Novecento? Anzi, della letteratura americana del Novecento? Anzi, della letteratura americana tout-court? (E mi fermo qui, ma potrei andare avanti).
Potrei dire che “Invisible Man” è un potente ritratto dell'America anni Trenta, vista attraverso gli occhi di un ragazzo nero che, pieno all'inizio di speranze, le perde tutte, una ad una, fino a ridursi a uno spettro vagante (il celeberrimo attacco: “I am an invisible man”). Oppure potrei dire che è l'Odissea trasposta nella Harlem Reinassance. Oppure potrei dire che il romanzo ha una quantità di letture simboliche, ma che le fonde tutte in una narrazione allo stesso tempo picaresca ed epica. O che è una delle più profonde e geniali riflessioni sull'identità afroamericana mai prodotte. In poche parole: il protagonista-narratore, del quale mai viene rivelato il nome, all'inizio studia in un college per neri dell'Alabama, esplicitamente modellato sul Tuskeegee Institute frequentato da Ellison stesso. Per lui, giovane ambizioso ma ingenuo, intriso delle teorie sociali di Booker T. Washington, il college è il primo gradino della scalata sociale. Invece la scala non sarà ascendente, ma discendente: prima perderà il diploma, poi la posizione sociale, poi il nome, infine la stessa identità. Si renderà conto che nessuno lo vede per quel che è: qualcuno lo vede come la speranza della razza nera, qualcuno come un leader rivoluzionario, o come un traditore dei neri, o come una marionetta da manovrare, o come uno stallone da portarsi a letto, o come un delinquente. Ma nessuno lo vede come un uomo. Finirà per richiudersi in una cantina di New York, illuminata da 1369 lampadine alimentate abusivamente, ad ascoltare ossessivamente Louis Armstrong. “Invisible Man” è l'unico romanzo pubblicato in vita da Ralph W. Ellison (1914-1994), ma è bastato per consegnarlo alla storia. Uscì nel 1952 e vinse il premio National Book Award l'anno dopo: tanto per dire, tra i concorrenti c'era “Il vecchio e il mare” di Hemingway. Ne esiste una traduzione italiana recente (Einaudi 2009, 24 €), che non ho letto e della quale non conosco la qualità: ma consiglio a chi può di leggerlo in inglese, perché la lingua di Ellison riesce a rendere in maniera inimitabile accenti e tic linguistici di ciascun personaggio.
Veronica Raimo, Il dolore secondo Matteo, minimum fax 2007 (164 pp., 11 euro)
Che cosa ci si aspetta da un “romanzo erotico”? Particolareggiate descrizioni di amplessi, il più possibile variate nello stile e nelle modalità esecutive. E da una “scrittura femminile”? Palpitante indagine dei più sottili moti dell'animo. Nulla di tutto ciò, per fortuna, in questo esordio narrativo di Veronica Raimo. Anzi, per evitare ogni equivoco, l'autrice assume una voce maschile, quella del protagonista, Matteo, trentenne, che sotto i modi sempre affabili nasconde una totale anaffettività. Incapace di gioia o dolore, di amore o di odio, Matteo si lascia trasportare dalla vita. Per puro caso, finisce a lavorare in un'agenzia di pompe funebri, dove il suo imperturbabile sorriso si rivela il perfetto ammortizzatore per le richieste di empatia dei clienti. Altrettanto casualmente, si trova invischiato in un ménage a trois: da una parte Filippo, omosessuale con la testa piena di sogni romantici e rivoluzionari, dall'altra Claudia, nevrotica amante del sadomaso. Sentimenti, rapporti umani, rapporti sessuali (pochini, in verità, e tutti abbastanza squallidi): attraverso lo sguardo di Matteo, Veronica Raimo disseziona entomologicamente il tutto, riducendolo alla sua essenza grottesca. Un crudele teatrino di autoinganni, dal quale trasuda una gelida, stranita comicità. Scrittura nitida, intelligente, affilata, che nel romanzo breve (o, meglio, racconto lungo) trova la sua misura ideale.
Centralinista, il numero, per favore:
sono tanti anni,
si ricorderà della mia vecchia voce
mentre lotto con le lacrime?
Ciao, ciao laggiù, parla Marta?
È il vecchio Tom Frost,
chiamo con un'interurbana,
ma non preoccuparti del costo
perché sono quarant'anni o più,
ora Marta ricordati per favore,
vediamoci fuori per un caffè,
dove parleremo di tutto.
E quelli erano i giorni delle rose,
poesia e prosa e Martha,
tutto quel che avevo eri tu
e tutto quel che avevi ero io.
Non c'erano domani,
avevamo riposto i nostri affanni,
messi da parte per i tempi duri.
E ora mi sento tanto più vecchio,
e anche tu lo sei.
Come sta tuo marito?
E i ragazzi?
Sai che anch'io mi sono sposato?
Che fortuna aver trovato qualcuno
che ti fa sentire al sicuro,
perché eravamo così giovani e sciocchi,
e ora siamo maturi.
E quelli erano i giorni delle rose...
Ed ero così impulsivo,
mi sa che lo sono ancora,
e tutto quel che contava allora
era che io ero un uomo.
Mi sa che stare insieme per noi due
non era destino.
E Martha... Martha...
ti amo, non lo capisci?
E quelli erano i giorni delle rose...
E mi ricordo sere tranquille
a tremare vicino a te...
Il rumore del tuono contiene dentro di sé
molti altri rumori – scatole frattali
ci rammentano la superficie sbriciolata
del Tutto. È come quando
bisognava filtrare la morchia
non provocare scosse
ogni cosa deve abbandonarsi al proprio
assetto. Fervido
sangue risale ai capillari
verso la luce e il silenzio
dopo il fracasso
arriverà il giorno come un lupo buono
a consolarti.
Mi guardo il dito medio della mano destra. Sul polpastrello si sta cicatrizzando una scottatura. Spinta da quella nuova, la pelle vecchia si solleva in faglie, si accartoccia e muore ingiallendo.
All'improvviso mi torna in mente il Cristo alla colonna che mio padre teneva (tiene? la mia memoria visiva ha un buco nero al proposito) nello studio, sotto una campana di vetro. È una statuetta in cera del Seicento napoletano, alta poco più di mezzo metro. Un'opera di pregio, il cui pezzo forte è lo studio puntiglioso delle ferite: l'artista è riuscito a rendere i segni del flagello, i tagli e le escoriazioni ai cui margini la pelle si solleva, un po' come sta facendo ora la mia.
Mi rendo conto, oscuramente, di un'assonanza personale. Per tutta l'adolescenza, cioè per tutto il periodo pugliese della mia vita, sono vissuto anch'io sottovetro. Niente di me usciva e niente del mondo entrava; e, quando ci riusciva, non faceva che confermare una verità evidente: che io, con il mondo, con quel mondo, non avevo niente da spartire. Non avevo niente da spartire con E., che in primo liceo mi fece la corte inutilmente per settimane (e che non comprese mai le ragioni dell'apatia scivolosa con la quale reagivo ai suoi approcci); con i ragazzi e le ragazze che annullavano senza sforzo apparente lo spazio tra la propria epidermide e quella altrui; con G., che pure era la mia migliore amica, e con i suoi atroci gusti musicali; con la proterva estroversione dei miei compaesani e con le loro frasi urlate in un dialetto gutturale; con i professori che continuavano a propagare per le aule la propria mortifera carenza di entusiasmo didattico; con le carampane impellicciate che, ai concerti degli Amici della Musica, applaudivano con uguale convinzione qualunque concerto, senza capirci assolutamente nulla; con la sincronia che si instaurava all'istante tra i corpi dei miei coetanei e le canzonette da quattro soldi messe su alle feste. Ogni contatto con quel mondo si risolveva in un'ustione, che mi lasciava scoperto un altro lembo di carne viva e che guarivo innalzando una nuova barriera, inspessendo l'atmosfera anossica del mio mondo privato.
Non so se sarei mai uscito da quella campana di vetro, se non fosse per mia moglie e per i miei figli. Oggi ho fatto pace con il mondo, o almeno ho imparato ad accettare la mia differenza come un dato di fatto, e non come una maledizione.
Poetry is just the evidence of life. If your life is burning well, poetry is just the ash. ("La poesia non è altro che il documento del...
disclaimer
Questo è un blog. Viene aggiornato senza alcuna periodicità (ogni settimana, o ogni giorno, o magari più volte al giorno), ad assoluto arbitrio del suo autore. L'autore non è iscritto all'ordine dei giornalisti e non viene retribuito per i contributi pubblicati. Si riserva di parlare di qualunque argomento ed è personalmente responsabile delle opinioni qui espresse. Questo blog non è una testata giornalistica, ai sensi della legge n. 62 del 7 marzo 2001. I materiali pubblicati sono di proprietà dell'autore, oppure di pubblico dominio. Se qualcuno ritiene di poter vantare diritti su di essi, è pregato di contattare l'autore. Buona lettura.