Mi guardo il dito medio della mano destra. Sul polpastrello si sta cicatrizzando una scottatura. Spinta da quella nuova, la pelle vecchia si solleva in faglie, si accartoccia e muore ingiallendo.
All'improvviso mi torna in mente il Cristo alla colonna che mio padre teneva (tiene? la mia memoria visiva ha un buco nero al proposito) nello studio, sotto una campana di vetro. È una statuetta in cera del Seicento napoletano, alta poco più di mezzo metro. Un'opera di pregio, il cui pezzo forte è lo studio puntiglioso delle ferite: l'artista è riuscito a rendere i segni del flagello, i tagli e le escoriazioni ai cui margini la pelle si solleva, un po' come sta facendo ora la mia.
Mi rendo conto, oscuramente, di un'assonanza personale.
Per tutta l'adolescenza, cioè per tutto il periodo pugliese della mia vita, sono vissuto anch'io sottovetro. Niente di me usciva e niente del mondo entrava; e, quando ci riusciva, non faceva che confermare una verità evidente: che io, con il mondo, con quel mondo, non avevo niente da spartire.
Non avevo niente da spartire con E., che in primo liceo mi fece la corte inutilmente per settimane (e che non comprese mai le ragioni dell'apatia scivolosa con la quale reagivo ai suoi approcci); con i ragazzi e le ragazze che annullavano senza sforzo apparente lo spazio tra la propria epidermide e quella altrui; con G., che pure era la mia migliore amica, e con i suoi atroci gusti musicali; con la proterva estroversione dei miei compaesani e con le loro frasi urlate in un dialetto gutturale; con i professori che continuavano a propagare per le aule la propria mortifera carenza di entusiasmo didattico; con le carampane impellicciate che, ai concerti degli Amici della Musica, applaudivano con uguale convinzione qualunque concerto, senza capirci assolutamente nulla; con la sincronia che si instaurava all'istante tra i corpi dei miei coetanei e le canzonette da quattro soldi messe su alle feste.
Ogni contatto con quel mondo si risolveva in un'ustione, che mi lasciava scoperto un altro lembo di carne viva e che guarivo innalzando una nuova barriera, inspessendo l'atmosfera anossica del mio mondo privato.
Non so se sarei mai uscito da quella campana di vetro, se non fosse per mia moglie e per i miei figli.
Oggi ho fatto pace con il mondo, o almeno ho imparato ad accettare la mia differenza come un dato di fatto, e non come una maledizione.
All'improvviso mi torna in mente il Cristo alla colonna che mio padre teneva (tiene? la mia memoria visiva ha un buco nero al proposito) nello studio, sotto una campana di vetro. È una statuetta in cera del Seicento napoletano, alta poco più di mezzo metro. Un'opera di pregio, il cui pezzo forte è lo studio puntiglioso delle ferite: l'artista è riuscito a rendere i segni del flagello, i tagli e le escoriazioni ai cui margini la pelle si solleva, un po' come sta facendo ora la mia.
Mi rendo conto, oscuramente, di un'assonanza personale.
Per tutta l'adolescenza, cioè per tutto il periodo pugliese della mia vita, sono vissuto anch'io sottovetro. Niente di me usciva e niente del mondo entrava; e, quando ci riusciva, non faceva che confermare una verità evidente: che io, con il mondo, con quel mondo, non avevo niente da spartire.
Non avevo niente da spartire con E., che in primo liceo mi fece la corte inutilmente per settimane (e che non comprese mai le ragioni dell'apatia scivolosa con la quale reagivo ai suoi approcci); con i ragazzi e le ragazze che annullavano senza sforzo apparente lo spazio tra la propria epidermide e quella altrui; con G., che pure era la mia migliore amica, e con i suoi atroci gusti musicali; con la proterva estroversione dei miei compaesani e con le loro frasi urlate in un dialetto gutturale; con i professori che continuavano a propagare per le aule la propria mortifera carenza di entusiasmo didattico; con le carampane impellicciate che, ai concerti degli Amici della Musica, applaudivano con uguale convinzione qualunque concerto, senza capirci assolutamente nulla; con la sincronia che si instaurava all'istante tra i corpi dei miei coetanei e le canzonette da quattro soldi messe su alle feste.
Ogni contatto con quel mondo si risolveva in un'ustione, che mi lasciava scoperto un altro lembo di carne viva e che guarivo innalzando una nuova barriera, inspessendo l'atmosfera anossica del mio mondo privato.
Non so se sarei mai uscito da quella campana di vetro, se non fosse per mia moglie e per i miei figli.
Oggi ho fatto pace con il mondo, o almeno ho imparato ad accettare la mia differenza come un dato di fatto, e non come una maledizione.
5 commenti:
ci sono famiglie che non ti danno strumenti per stare in pace con il mondo ed uno, disarmato, nudo e vulnerabile rischia qualsiasi tipo di ustione.
Ci vogliono comodi abbracci da cui partire ed un sorriso disposto a guardare fuori accettando che davvero non è tutto perfetto, anzi, ma se non conosci ciò che è diverso da te non cresci
certe volte è questione di destino.
si nasce nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, sotto la stella sbagliata. soprattutto, con l'indole sbagliata.
sarai sicuramente un buon posto, un buon momento ed una buona stella per i tuoi figli
è una lettera d'amore per tua moglie: deve essere una bella persona se ha compiuto il miracolo di farti uscire da quella campana di vetro
beh, mettiamola così: mia moglie è la persona più assolutamente buona che abbia mai conosciuto, e i miei figli sono la cosa migliore che io abbia fatto in vita mia.
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