Gunther Schuller, Il jazz: L'era dello swing. Le orchestre bianche e i complessi (Glenn Miller, Artie Shaw, Woody Herman, Nat King Cole), EDT 2010 (290 pp., €18)
Gunther Schuller afferma di aver ascoltato, per scrivere “The Swing Era”, qualcosa come trentamila dischi: e non c'è ragione di non credergli.
Questo sesto volume completa, dopo ben quattordici anni, la traduzione di “Early Jazz” (1968/1986) e “The Swing Era” (1991), interamente ed esemplarmente curata e tradotta da Marcello Piras.
Stavolta la materia non è, in potenza, delle più interessanti. Il volume copre infatti tre argomenti non interrelati: le orchestre bianche non comprese nei precedenti volumi (Charlie Barnet, Glen Miller, Gene Krupa, Woody Herman, ecc.), le orchestre “regionali” (ossia quelle che giravano nei piccoli circuiti di provincia) e alcuni piccoli complessi non trattati in precedenza (in particolare quello di Nat King Cole).
Eppure anche qui Schuller riesce a far valere le sue doti: conoscenza enciclopedica del jazz (e non solo: è una delle poche figure capaci di muoversi altrettanto a suo agio nella musica classica come in quella afroamericana), acribia critica e capacità argomentative indiscutibili.
Esemplari, in tal senso, la puntigliosa documentazione sulle orchestre regionali, spesso sconosciute anche ai più esperti critici, o le analisi molto equilibrate di orchestre in genere liquidate frettolosamente, come quella di Casa Loma o quella di Glenn Miller, o ancora il giudizio articolato e minuzioso su Artie Shaw.
Sia chiaro: “equilibrato”, “puntiglioso”, “articolato” eccetera non significano necessariamente “giusto” o “definitivo”. Tanto per fare un esempio, quando Schuller disquisisce sulle orchestre che a suo parere preconizzarono la Third Stream, è logico che sta parlando pro domo sua, dato che lui stesso fu, negli anni Cinquanta, uno dei principali fautori di tale movimento. E spesso alcuni giudizi – uno per tutti: quello duro e liquidatorio, al limite dello sprezzante, sul sestetto di John Kirby – lasciano alquanto perplessi.
Ma, in fin dei conti, è sempre un piacere essere in disaccordo con Schuller.
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