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sabato 2 ottobre 2010

powerhouse - part 6


“Manda un telegramma”, urla all'improvviso Powerhouse nella pioggia, in mezzo alla trada. “Manda una risposta. Com'era quel nome?”.
Cominciano ad essere stanchi.
“Uranus Knockwood”.
“Dovresti saperlo”.
“Ah sì? Ditemi come si scrive”.
Glielo dicono in tutti i modi possibili. Questo li mette di un umore meraviglioso.
“Ecco la risposta. Ce l'ho proprio qui. 'Di che diavolo stai parlando? Non me ne importa un bel niente: Ti ho beccato!'. Firmato: Powerhouse”.
“Questo gli arriverà, Powerhouse?”. Valentine parla con tono materno.
“Sì, sì!”.
Seguendolo in perfetto silenzio, a distanza, lungo la strada buia, come come vecchi fantasmi scuri impregnati di pioggia, i neri hanno paura che muoiano dalle risate.
Powerhouse getta indietro la sua grande testa nella pioggia battente, e un desiderio speranzoso sembra esplodere come un vapore dalle narici dilatate sulla faccia, e diffondere una nebbiolina sui suoi occhi.
“Gli arriverà e lo trapasserà da parte a parte”.
“Proprio così, Powerhouse, proprio così. Devi farglielo sapere”.
Powerhouse emette un sospiro.
“Ma non torni laggiù a fare un'interurbana a Gipsy, come hai fatto ieri sera in quell'altro posto? Ho visto un telefono... Solo per vedere se è a casa?”.
C'è una misura di silenzio. Questo è un batterista pazzo che un giorno o l'altro si farà rompere il collo.
“No”, ringhia Powerhouse. “No! Quante migliaia di volte stanotte dovrò dire No?”.
Tiene alto il braccio nella pioggia.
“Certo che se una sera lascerai uscire tutta la tua voce, poco ci mancherà che arriverai laggiù fino a lei”, dice Little Brother, allarmato.
Se ne vanno lungo la strada, scuotendosi via la pioggia di dosso come uccelli.

Tornati alla sala da ballo, suonano “San” (99). I jitterburg ricominciano, come mulini a vento piantati per terra, e fra le loro orbite – un cerchio, un altro, un lungo affondo e uno zigzag – danza la coppia anziana con antica eleganza, indisturbata e cerimoniosa.
Quando Powerhouse è rientrato dall'intervallo, senz'altro pieno di birra, hanno detto, ha fatto accordare la band alla sua maniera. Non ha schiacciato i tasti del pianoforte per dare il la: ha solo aperto la bocca e ha lanciato delle grida in falsetto – in la, in re, e così via – e loro si sono intonati a lui. Poi si è sistemato al pianoforte, come se lo vedesse per la prima volta in vita sua, e ne ha testato la forza, l'ha colpito giù nei bassi, ha suonato un'ottava con il gomito, ha alzato il coperchio, ci ha guardato dento, e ci si è calato sopra con tutta la sua potenza. Si è seduto e l'ha suonato per qualche minuto con una forza spaventosa e l'ha ridotto in suo potere – un basso profondo e ruvido come una rete da pesca – poi ha prodotto qualcosa di baluginante e di fragile, e ha sorriso. E chi potrebbe mai ricordarsi anche solo una delle cose che dice? Sono commenti ispirati, che gli escono dalla bocca come fumo.
Gli hanno chiesto “Somebody Loves Me”, e lui ha già fatto dodici o quattordici chorus, mettendoli in fila nessuno sa come, e ci sarà da stupirsi se arriverà mai alla fine. Di tanto in tanto lancia un richiamo e grida, “ 'Qualcuno mi ama! Qualcuno mi ama! Mi chiedo chi!' ”.
“Forse...”. Usa tutta la mano destra per un trillo.
“Forse...”. Tira indietro le dita distese, e dà un'occhiata al punto in cui è arrivato. Un grande, impersonale e insieme furioso ghigno gli trasfigura la faccia madida.
“... Forse sei tu!”.

(FINE)

venerdì 1 ottobre 2010

powerhouse - part 5


Ora tutti i neri che stavano a guardare si accalcano docilmente, sulla porta, con gli occhi accesi, tanti quanti ce n'entrano. Uno è un ragazzino con un sombrero di paglia, tutto rivestito di pittura color alluminio.
Powerhouse, Valentine, Scott e Little Brother bevono birra, e le loro palpebre si toccano come tendaggi. Li circondano il muro e la pioggia e la cameriera bella e umile che li serve e gli altri neri che li scrutano.
“Ascoltate!”, mormora Powerhouse, guardando la bottiglia di ketchup e stendendo lentamente le mani da uomo di spettacolo sull'umida, stropicciata tovaglia a scacchi rossi. “Ascoltate come stanno le cose. Mia moglie comincia a sentire la mia mancanza. Gipsy. Va alla finestra. Guarda fuori e vede voi-sapete-cosa. La strada. Insegne che dicono Albergo. La gente che cammina. Qualcuno guarda in alto. Un vecchio. Lei guarda in basso, fuori dalla finestra. Beh?... Sssss! Sploch! Che cosa fa? Salta e si sparge le cervella tutto in giro”.
Apre gli occhi.
“È così”, concorda Valentine. “Hai ricevuto un telegramma”.
“Certo che sente la tua mancanza”, aggiunge Little Brother.
“No, è la notte”. Con che dolcezza glielo dice! “Certo, è la notte. Lei dice, Che cosa sento? Passi che arrivano dall'atrio? È lui? I passi si allontanano. Non sono io. Io sono ad Alligator, Mississippi, lei è fuori di sé. Trema tutta. Ascolta finché le orecchie e tutto il resto le diventano come un vecchio corno da grammofono ma non riesce a sentire niente. Dice, hm hm, bene, e salta dalla finestra. È infuriata con me! È fuori di sé! Non si lascia niente dietro!.
“Sì! Ha!”.
“Cervello e budella dappertutto, o Signore, o Signore”.
Ma tutti i neri che lo guardano gongolano di piacere, e per il loro maggior piacere dice teneramente, “Li sentite? Ratti!”.
“Dev'essere andata proprio così, capo”.
“Solo che, no, Powerhouse, non è vero. Sarebbe troppo brutto”.
“Davvero? So persino chi l'ha trovata”, grida Powerhouse. “ Quel buono a nulla vigliacco di un viscido cantantucolo, quel viscido che mi viene dietro, che mi spunta dietro come l'erbaccia, che mi segue qualunque cosa faccia e si mette a cazzeggiare dove poco prima c'ero io. Si gioca i miei numeri, canta le mie canzoni, gira intorno al mio agente come un moscone; quando esco io entra lui. Ma ora l'ho beccato! Lo tengo d'occhio!”.
“Sai chi è?”
“Beh, è quel solito Uranus Knockwood!”.
“Sì! Ha!”.
“Sì, e ora arriva e trova Gipsy. Eccolo lì, che gira quell'angolo, e Gipsy che piroetta giù, oh-oh, guarda un po'! Ssss! Sploch! Guarda, è proprio lì con la sua solita camicina da notte, e le budella e il cervello tutti sparsi intorno!”.
Un sospiro riempie la stanza.
“Basta parlare del suo cervello. Basta parlare delle sue budella”.
“Sì! Ha! Parli del suo cervello e delle sue budella... vecchio Uranus Knockwood”, dice Powerhouse, “guardi giù e dici Gesù! Guarda un po' su che cosa sono andato a mettere i piedi!”.
Tutti scoppiano in una cagnara di risate. La faccia di Powerhouse sembra una grossa caldaia arroventata.
“Beh, lui la prende e la porta via!”, dice.
“Sì! Ha!”.
“Se la riporta dietro l'angolo...”.
“Oh, Powerhouse!”.
“Lo conoscete”.
“Uranus Knockwood!”.
“Sììììì!”
“Si porta via le nostre mogli quando noi siamo via”.
“Lui entra quando noi usciamo!”.
“Uh-huh!”.
“Lui esce quando noi entriamo!”.
“Sììììì!”.
“Lui se ne sta dietro la porta!”.
“Il vecchio Uranus Knockwood”.
“Lo conoscete”.
“Uno di taglia media”.
“Porta un cappello”.
“È lui”.
Tutti nella stanza gemono di piacere. Il ragazzino con il bel cappello argentato apre un involto e divide un dolcetto tra i suoi seguaci.
E dal cerchio col fiato sospeso qualcuno si fa avanti come uno schiavo, trascinando un nero grosso e tardo con gli occhi sbarrati, e dice, “Questo qui è Sugar-Stick Thompson, che si è tuffato fino in fondo al July Creek e ha tirato su tutti quei bianchi annegati caduti giù da una barca. L'estate scorsa, ne ha tirati su quattordici”.
“Salve”, dice Powerhouse, girandosi a guardarli tutti con la sua grossa faccia sfrontata, fin quasi a toglier loro il respiro.
Sugar-Stick, il loro strumento, non può parlare; può solo guardare gli altri, dietro di sé.
“Non sa nemmeno nuotare. Ci è riuscito trattenendo il fiato”, dice il tizio con l'eroe.
Powerhouse lo guarda.
“Io sono il suo fratellastro”, aggiunge il tizio.
Si rifanno indietro.
“Gipsy dice”, Powerhouse ricomincia a borbottare dolcemente, guardandoli, “ 'A che serve? Salterò così lontano – così lontano.....' Ssss...!”.
“No, capo, non lo rifare”, dice Little Brother.
“È orribile”, dice la cameriera. “Odio quel Mr. Knockwood. È tutto vero?”.
“Vuoi vedere il telegramma che ho ricevuto da lui?”. La mano di Powerhouse va verso la grande tasca.
“Aspetta, aspetta capo”. Tutti lo guardano.
“Dev'essere proprio la verità”, dice la cameriera, succhiandosi il labbro inferiore, gli occhi lucenti che si girano tristemente, in cerca delle finestre.
“No, piccola, non è vero”. Le sopracciglia gli si sollevano, e comincia a sussurrare verso di lei con la sua grande bocca a forno. La sua mano rimane in tasca. “La verità è qualcosa di peggio, non l'ho ancora detto. È qualcosa che non mi è ancora venuto in mente, ma non dico che non mi verrà in mente prima o poi. E quando lo farà, vuoi proprio che te lo dica?”. Di colpo tira su col naso, i suoi occhi si aprono e si girano verso l'alto, quasi troppo velocemente. Ha un sorriso sognante.
“No, capo, no, Powerhouse!”.
“Oh!”, urla la cameriera.
“Forza usciamo di qui!”, ruggisce Powerhouse, tirando la mano fuori dalla tasca e dando una pacca sul retro del suo vestito rosso.
L'anello di spettatori si rompe e si disperde.
“Guardate! L'intervallo è finito”, dice Powerhouse.
Arrotola il denaro sotto un bicchiere, e dopo che escono, Valentine si sporge all'indietro e lascia cadere un nichelino nel juke-box dietro di loro, che si illumina e comincia a suonare “The Goona Goo”. La piuma sta ancora dondolando.

(... continua)

giovedì 30 settembre 2010

powerhouse - part 4


Powerhouse, Valentine, Scoot e Little Brother escono nella pioggia battente.
“Beh, stanno vuotando i bidoni”, dice Powerhouse con voce addolcita. Per strada tiene le mani in fuori e rovescia i palmi bianchi, come fossero colini.
Un centinaio di neri scuri, stracciati, silenziosi e deliziati sono venuti loro intorno da sotto la tettoia della sala da ballo, li seguono dovunque vadano.
“Badate che Little Brother non si restringa”, dice Powerhouse. “Già adesso sei grande appena quanto basta per non farti risucchiare dal clarinetto. Ti si è seccata la gola, Little Brother, là nel deserto?”. Infila le mani in tasca e e tira fuori una busta di mentine. “Ora tienile in bocca: non masticarle. Non mi porto in giro la roba in quantità illimitata”.
“Andiamo in quel locale a farci una birra”, dice Scott, che cammina avanti agli altri.
“Birra? Birra? Tu lo sai che cos'è la birra? Che cosa dicono che sia la birra? Che cos'è la birra? Da dove vengo?”.
“Laggiù, dove dice World Café: va bene?”. Ora sono a Negrotown.
Valentine sgattaiola avanti e tiene aperta una porta a schermo incavata come una conchiglia, brutto spettacolo con questo tempaccio, ed entrano, anneriti dalla pioggia, lasciandosi dietro impronte sul pavimento. Dentro, odori asciutti e riparati fanno schermo intorno a una tavola coperta da una tovaglia a scacchi rossi, al centro della quale le mosche si aggrappano a una bottiglia di ketchup a forma di obelisco. I muri di mezzanotte sono anch'essi a scacchi, coperti da cartelli ammonitori che dicono “Decliniamo ogni responsabilità”, e da calendari affumicati pieni di figure nere. C'è un juke-box dall'aria disastrata e proprio lì accanto, sul muro, un apparecchio dal lungo collo etichettato come “Telefono d'ufficio, smettere di parlare”. Sopra, da ogni parte, ci sono numeri di telefono cerchiati. C'è una piuma di pavone sgualcita, che penzola legata con un filo a una vecchia, esile, rosata lampadina scoperta, e che gira lentamente su se stessa, al minimo respiro.
Una cameriera osserva.
“Vieni qui, statua vivente, e prendi tutte le grosse ordinazioni di birra che stiamo per fare”.
“Non vi ho mai visto prima, da nessuna parte”. La cameriera si muove e viene avanti, e lentamente mostra foglioline e tralci dorati sui denti. Tira su le spalle e il seno. “Come faccio a sapere chi siete? Rapinatori? Venite fuori dal nero della notte, proprio a mezzanotte, e vi sedete grandi e grossi al mio tavolo”.
“Siamo babau”, dice Powerhouse, con gli occhi che si aprono pigramente come in una grotta.
La ragazza strilla delicatamente di piacere. Santo Cielo, come le piace farsi spaventare da questi discorsi.
“Dove la trovi abbastanza birra da riempirci il tavolo?”.
Corre in cucina, gambe in spalla, a passi felpati.
“Eccovi un milione in spiccioli”, dice Powerhouse, tirando fuori le mani dalle tasche e spargendo monetine tutto intorno, tutte tranne l'ultima, che fa svanire come un mago.
Valentine e Scoot portano i soldi al juke-box, dall'aspetto malandato come una slot-machine, e leggono tutti i nomi dei dischi ad alta voce.
“ 'Tuxedo Junction' di chi?”, chiede Powerhouse.
“Lo sai di chi”.
“Juke-box, ti chiedo per cortesia di suonare 'Empty Bed Blues' e di lasciar cantare Bessie Smith”.
Silenzio: lo tengono per una misura circa.
“Riportatemi qui tutti quegli spiccioli”, dice Powerhouse. “Guardate là! Chi sa dirmi il nome di questo posto?”.
“Ballo per bianchi, giorno infrasettimanale, pioggia, Alligator, Mississippi, tanto lontani da casa”.
“Uh-huh”.
Suonano “Sent for You Yesterday and Here You Come Today”.
La cameriera, poggiando il vassoio di birra su un tavolo di neri, si avvicina tesa e apprensiva come una chioccia. “Dicono in cucina, lì dietro, da dove guardano fuori con gli occhi incollati a piccoli buchi , che lei è Mr. Powerhouse”...
“Ci vedono bene stasera, è proprio lui”, dice Little Brother.
“È proprio lei?”.
“Lui in carne ed ossa”, dice Scoot.
“Vuoi toccarlo?”, chiede Valentine. “Mica morde”.
“È qui di passaggio?”.
“Ora hai proprio capito tutto”.
Aspetta come una goccia, rigirandosi le mani.
“Bocconcino, non ce la porti la birra?”.
Gliela porta, e va dietro il registratore di cassa e sorride, voltandosi da varie angolazioni. Il piccolo filetto d'oro nella sua bocca scintilla.
Una volta dice: “Qui passa il fiume Mississippi”.

(... continua)

mercoledì 29 settembre 2010

powerhouse - part 3


A notte fonda suonano l'unico valzer che mai acconsentirebbero a suonare: su richiesta, “Pagan Love Song”. La testa di Powerhouse ciondola e sprofonda come una zavorra tra le spalle ondeggianti. Geme, e le dita gli si trascinano pesantemente sui tasti, indugia sulle note, resta indietro. È una canzone triste.
“Sapete che cosa mi è successo?”, dice Powerhouse.
Valentine fa un mugugno di risposta, sognando sul contrabbasso.
“Ho ricevuto un telegramma, dice che mia moglie è morta”, dice Powerhouse, vagabondando con le dita.
“Uh-huh?”.
La bocca si raccoglie e forma una barbara O mentre le dita salgono su, senza volerlo, per tre ottave.
“Gipsy? Ma com'è successo, non le hai fatto un'interurbana notturna, appena ieri sera?”
“Dice il telegramma... ecco le parole: Tua moglie è morta”. Sovrappone il 4/4 al 3/4.
“Nient'altro che quattro parole?”. Questo è il batterista, un ragazzo malvisto di nome Scoot, scettico e mezzo matto.
Powerhouse scuote le sue enormi guance. “Ma che diavolo stava cercando di fare? Che cosa aveva in mente?”
“Se hai ricevuto un telegramma, con che nome è firmato?”, sputa fuori Scoot con quelle spazzole.
Little Brother, il clarinettista, che non può parlare, li fissa sporgendosi all'indietro.
“Uranus Knockwood è la firma”. Powerhouse alza gli occhi aperti. “Mai sentito parlare di lui?”. Una bolla gli si gonfia sulle labbra come un piatto sul tavolo di portata.
Valentine dà dei lenti colpi con il palmo, grattando le corde con le sue lunghe unghie azzurre. È innamorato del valzer. Powerhouse lo interrompe.
“Non lo conosco. Non so chi è”. Valentine scuote la testa con gli occhi chiusi.
“Dillo di nuovo”.
“Uranus Knockwood”.
“Non è Lenox Avenue”.
“Non è Broadway”.
“Non l'ho mai visto stampato, nemmeno per una corsa di cavalli”.
“Diavolo, è su una stella, ragazzi, vero?”. Schianto sui timpani.
“Che diavolo aveva in mente?” Powerhouse rabbrividisce. “Ditemi, ditemi, ditemi”. Fa delle terzine, e comincia un nuovo chorus. Leva in alto tre dita.
“Hai detto che hai ricevuto un telegramma”. Questo è Valentine, paziente e assonnato, che ricomincia.
Powerhouse è circostanziato. “Già, il tempo di andar fuori, di andare dabbasso per un lungo co-rri-do-io fino al posto in cui ci hanno sistemati: tornavo per il co-rri-do-io: arriva di corsa e mi porge un telegramma: Tua moglie è morta”.
“Gipsy?” Il batterista come un ragno sui suoi tamburi.
“Aaaaaaaaa!” grida Powerhouse, scaglia entrambe le braccia poderose per tre interi movimenti per flettere i muscoli, poi lavora un impasto di note basse. Gli occhi gli brillano. Certe volte suona il pianoforte come una batteria: perché no?
“Gipsy? Quella gran ballerina?”.
“Perché non l'hai saputo direttamente dal tuo agente? Perché non è arrivato dal quartier generale? Che diavolo fai, ricevi telegrammi nel corridoio, firmati nessuno?”.
Ridono tutti. Fine di quel chorus.
“Che ore sono?” chiede Powerhouse. “Che razza di posto è questo? Dove sono il mio orologio e la mia catena?”.
“Ce l'hai appeso”, si lamenta Valentine. “È ancora lì”.
È lì che spenzola sul grosso stomaco di Powerhouse, laggiù dove lui non potrà mai vederlo.
“Sono sicuro di aver sentito un orologio che batteva le dodici un po' di tempo fa. Dev'essere mezzanotte”.
“Facciamo l'intervallo”, dichiara Powerhouse, sollevando il dito dove tiene l'anello con il sigillo.
Porta a termine il chorus. Dal profondo della tasca degli enormi pantaloni fatti su misura del suo smoking, tira fuori un grosso asciugamano di un albergo del Nord e ci butta dentro la fronte.
“Oh, si è andata ad ammazzare!”, dice nascondendo la faccia. “Oh, è andata a saltar giù da quella finestra”. Si alza in piedi, si volta un po', tenendo l'asciugamano sulla testa.
“Ah, ah!”.
“Lo sceicco, lo sceicco!”.
“Non l'avrebbe mai fatto”. Little Broter mette giù il clarinetto come un vaso prezioso, e parla. Sembra ancora una regina indiana, implacabile, divina, e piena di serpenti. “Non devi aspettarti che la gente faccia quel che dice in un'interurbana”.
“Andiamo!” ruggisce Powerhouse. È già alla porta sul retro, l'ha spalancata, e con la faccia furiosa e concentrata annusa la terribile notte.

(... continua)

martedì 28 settembre 2010

powerhouse - part 2


Powerhouse fa tutto il possibile con i segnali. Tutti, ridendo come per nascondere una debolezza, prima o poi gli porgono una richiesta scritta. Powerhouse le legge tutte, esaminandole con una faccia misteriosa; quella è la faccia che sembra una maschera: quelle di tutti; c'è un momento in cui prende una decisione. Poi una luce gli scivola sotto le palpebre, e dice, “92!” o una qualche combinazione di cifre: mai un nome. Prima di un numero la band è su di giri, tutta chiasso e spintoni, come bambini in un'aula scolastica, e lui è il maestro che fa fare silenzio. Le mani sui tasti, dice con severità: “Tutti pronti? Tutti pronti a fare sul serio?” – attesa – poi, SBAM. Silenzio. SBAM, per la seconda volta. Questo è assoluto. Poi una serie di colpi ritmici contro il pavimento per comunicare il tempo. Poi, O Signore! dicono gli occhi dilatati da dietro il confine delle trombe. Si parte, e tutti giù nella prima nota come una cascata.
Questa nota segna la fine di ogni disciplina conosciuta. Powerhouse sembra abbandonarli tutti – lui stesso sembra perso – giù nella canzone, urlando come preso in un gorgo – non li dirige – li precipita soltanto. Ma lui lo sa, credetemi. Grida, ma deve saperlo con esattezza. “Mercy!... What I say!... Yeah!”. E poi giù, in ascolto – “Dov'è quello scuotitamburi?” – è in cerca del batterista, e una volta partito lascia che tutto sgorghi con enorme, brutale godimento. Sui brani dolci ha quell'occhiatina per ciascuno di noi! Ci guarda tutti dritti in faccia dall'alto, con benevolenza, e ci sussurra il testo della canzone. E se tu potessi sentirlo in questo momento, su “Marie, the Dawn is Breaking”! Va su per la tastiera con un po' di dita, in una beffarda sequenza di terzine, va sempre più su, sempre più su, e poi guarda oltre il limite del pianoforte, come oltre un crinale. Ma non è esibizionismo: è la canzone che glielo fa fare.
Gli piace anche il modo in cui tutti suonano: tutti quelli vicino a lui. La sezione più lontana della band è tutta compunta, portano gli occhiali, tutti: loro non contano. Solo quelli che suonano attorno a Powerhouse sono importanti. Ha un contrabbassista di Vicksburg, nero come la pece, che si chiama Valentine, che suona con gli occhi chiusi, parlando tra sé e sé, molto giovane: Powerhouse deve incoraggiarlo di continuo. “Vai, vai, ora fermo, e adesso tira fuori tutto!”. Quando lo sentivi far così sui dischi, lo sapevi che lo stava chiedendo sul serio?
Chiama Valentine a fare un assolo.
“Che cosa suoni?”. Powerhouse lo guarda con gentilezza da dietro il pianoforte; apre la bocca e mostra la lingua, in ascolto.
Valentine guarda in basso, si appoggia al suo strumento, e senza muovere le labbra dice, “Honeysuckle Rose”.
Ha un clarinettista di nome Little Brother, e adora ascoltare qualunque cosa faccia. Sorride e dice, “Bello!”. Little Brother fa un passo avanti quando suona e se ne sta proprio lì davanti, con il bianco degli occhi simile a pesci che nuotano. Una volta, dopo che aveva suonato una nota bassa, Powerhouse ha borbottato un complimento malizioso: “Se n'è andato fino in cantina per prenderla!”.
Dopo molto tempo, mostra le dita per dire alla band per quanti giri ancora andare avanti: di solito cinque. Tiene tutto sotto controllo con i segnali.
È una cattiva serata, lì in sala. È un ballo per bianchi, e non balla nessuno, tranne qualche jitterburg qua e là e due coppie anziane. Tutti si limitano a starsene intorno alla band e a guardare Powerhouse. A volte si lanciano sguardi in tralice l'un l'altro, come a dire, Ovvio, sai com'è con loro – con i Neri – con i capiorchestra – suonerebbero sempre alla stessa maniera, dando tutto ciò che hanno, anche se ci fosse una sola persona tra il pubblico... Quando qualcuno, chiunque sia, dà tutto ciò che ha, la gente prova vergogna per lui.

(... continua)

lunedì 27 settembre 2010

powerhouse - part 1



http://www.youtube.com/watch?v=v7YAU8CTInw


Eudora Welty (1909-2001) è quasi sconosciuta in Italia, ma in America gode di una certa fama. I suoi racconti sono ambientati principalmente nel Sud degli Stati Uniti; un Sud rurale, vagamente faulkneriano, spesso opprimente nella sua ipocrita grettezza.
Ma Eudora Welty scrisse anche un racconto che è un unicum nella sua produzione. Si intitola "Powerhouse" e uscì nella sua prima raccolta, A Curtain of Green (1941).
Pare sia stato scritto di getto, dopo aver assistito a un'esibizione del grande Fats Waller; c'è chi l'ha definito "il più bel racconto a tema jazzistico mai scritto". Di certo, questa donnina del Mississippi riuscì a cogliere certi aspetti della musica afroamericana con un'acutezza unica. In particolare, colse alla perfezione l'effetto perturbante e insieme ipnotico che la vitalità dionisiaca del jazz esercitava sul pubblico bianco di quegli anni.
Il protagonista, Powerhouse, è un pianista jazz, in tournée con la sua band in un paesino del Mississippi; il personaggio è esplicitamente modellato su Waller, fisicamente e caratterialmente. La trama è piuttosto semplice: Powerhouse suona e racconta una storia. Una storia macabra, triste, truculenta. Poco importa che sia vera o no: l'importante è che lui la racconta, la varia, ci improvvisa, con l'agilità di un'acrobata.
Una perfetta metafora per quel gioco rischioso e affascinante che è l'improvvisazione.

Non credo che "Powerhouse" sia mai stato tradotto in italiano (come quasi tutta l'opera della Welty, del resto).
Io mi ci sono
imbattuto l'anno scorso, mentre raccoglievo materiale per una conferenza su jazz e letteratura. Mi è piaciuto talmente tanto che ho deciso di tradurlo io, e di farlo eseguire a un attore, con accompagnamento musicale.
Ve lo propongo: in più parti, perché è lunghetto. Questa è la prima.

* * *

Powerhouse sta suonando!
È qui in tour, direttamente da New York – “Powerhouse e il suo pianoforte” – “Powerhouse e i suoi Tasmanians” – pensa quanti nomi si è dato! Non ce n'è un altro al mondo come lui. Impossibile dire che cos'è. “Un nero”?... sembra più un asiatico, una scimmia, un ebreo, un babilonese, un peruviano, un fanatico, un diavolo. Ha occhi grigio chiaro, palpebre pesanti, forse ruvide come quelle di una lucertola, ma occhi grandi e ardenti quando li tiene aperti. Ha piedi africani della taglia più grossa, che battono, tutti e due insieme, su entrambi i lati dei pedali. Non è nero carbone – color beveraggio – sembra un predicatore finché tiene la bocca chiusa, ma poi la apre: vasta e oscena. E la sua bocca non sta mai ferma: come quella di una scimmia quando è in cerca di qualcosa. Improvvisa, arriva su una melodia leggera e infantile – smack – la ama con la bocca.
È mai possibile che sia proprio lui, questo! Quando ce l'hai lì, a suonare per te, è così che ti senti. Lo sai, le persone su un palco – le persone di una razza più scura – è così facile che siano meravigliose, spaventose.
Questo è un ballo per bianchi. Powerhouse non è un esibizionista come i ragazzi di Harlem, non è ubriaco, non è matto – è in trance; è un uomo di gioia, un fanatico. Tanto suona, quanto ascolta, con un orrendo, potente rapimento che gli traspare sulla faccia. Quando suona, calpesta pianoforte e sgabello e li schianta. È sempre in movimento – ci può essere qualcosa di più osceno? Eccolo lì, con la sua gran testa, il grosso stomaco, e piccole gambe rotonde a pistone, e lunghe forti grosse dita dalle falangi gialle, che a riposo sono quasi della misura di banane. Ovviamente sai come suona – l'hai sentito sui dischi – ma aspetta di vederlo. È sempre in movimento, come se pattinasse tutto attorno alla pista, o se spingesse una barca a forza di remi. Tutti gli si affollano attorno, qui nella sala senza ombre, foderata d'acciaio, con i poster rosati di Nelson Eddy e il certificato del cavallo telepate, manoscritto e ingrandito cinquecento volte. Poi, con tutta tranquillità, posa il dito su un tasto con la sicurezza e la serenità di una sibilla che tocca il libro.
Powerhouse è così mostruoso che spedisce tutti nell'oblio. Lo sai, quando arriva in città un qualche gruppo, o un qualche spettacolo, la gente esce a dare un'occhiata, si affaccia per capire di che si tratta. Che cos'è? Ascolta. Ricorda com'è andata con gli acrobati. Guardali con attenzione, ascolta fino alla minima parola, specialmente quel che si dicono l'un l'altro, in un'altra lingua: non lasciarteli scappare; è l'unica occasione per l'allucinazione, l'ultima occasione. Non possono restare. Domani a quest'ora saranno altrove.

(... continua)