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mercoledì 24 agosto 2011

l'estate sta finendo



Qualche giorno fa hanno annunciato una guerra mondiale
Ma loro non lo sanno, quelli che prendono pigramente il sole
Il sole brucia fino al nocciolo del pianeta
E ancora non basta, loro ne vogliono di più

Non pare ci sia nulla tra le orecchie di quelli che prendono pigramente il sole
Troppo annoiati per interrogarsi sulla stagnazione
Il sole brucia fino al nocciolo del pianeta
E ancora non basta, loro ne vogliono di più

Le religioni cadono, i bambini cercavano conchiglie,
Tutto bene,
Ma per favore abbassereste il rumore?
Perché svegliate quelli che prendono pigramente il sole

mercoledì 22 settembre 2010

l'estate è finita



A ripensarci bene, non è che sia passato tutto questo tempo. Era la fine degli anni Settanta, forse i primi anni Ottanta.
Si partiva in macchina (ricordo in particolare la Renault 5 color sabbia, praticamente un grosso uovo con le ruote, ma ce ne sono state altre, prima e dopo). Mattina presto, per essere al mare all'ora migliore. Senza cinture né seggiolini né airbag, ovvio. Ne siamo usciti tutti vivi, comunque.
Il tragitto, ad ogni modo, non era lungo: venti, trenta chilometri, una mezz'oretta sulla vecchia statale. Otto di mattina, l'aria sul Tavoliere cominciava già a tremolare per la calura. Stazioni fisse: la masseria con le bufale che si bagnavano nel fango (al ritorno ci si compravano le mozzarelle); San Nazario, vecchia chiesetta in mezzo alla campagna, famosa per le pozze d'acqua dolce immerse tra i canneti e brulicanti di girini; e infine il Lago di Lesina, la lunga e stretta lingua di sabbia che separa la laguna dal mare, con il paese vecchio da una parte e quello turistico dall'altra, le case bianche in lontananza.
Le spiagge: Torre Fortore, Torre Mileto, a volte Lido del Sole o Capoiale. Quasi su ognuna, c'era un'antica torre di guardia, chiusa, mezzo corrosa dal sale. La macchina parcheggiata direttamente sul margine della spiaggia (niente parcheggi asfaltati, anzi, niente parcheggi e basta).
Spiaggia libera (quelle a pagamento erano pochissime), l'ombrellone piantato da mio padre scavando in profondità nella sabbia sempre più fresca e umida. Quando era bassa marea, a pochi metri dalla riva emergeva la secca, meta privilegiata dei giochi.
Scorpacciate di canolicchi e telline, rigorosamente appena pescati, crudi e ancora vivi, senza temere inquinamento e malattie. Scendevi in mare, facevi quattro o cinque metri e tiravi su una manciata di sabbia, e dovevi essere proprio sfortunato se non ti rimaneva in mano qualcosa. In genere telline, se andava bene anche una vongola, o un cardium con la conchiglia striata e convessa, con dentro il mollusco color porpora.
I ricci li riportava mio padre dagli scogli: si aprivano e si succhiava l'interno, di color rosso vivo come un piccolo cuore pulsante. Idem per le patelle, staccate con il coltello, salatissime, dure come gomma sotto i denti.
Il bagno fin quando i polpastrelli si arricciavano. Meglio se c'erano le onde, meglio ancora i cavalloni nei quali ci si tuffava trattenendo il fiato, riemergendone pieni di sabbia e alghe. Ogni tanto un po' di catrame sotto le piante dei piedi, che andava smacchiato con olio e ovatta.
Complicate opere di ingegneria sabbiosa. Altro che castelli: bacini, dighe, canali di derivazione e di svuotamento, interi sistemi idrici, e poi altissime guglie fatte con la sabbia bagnata colata giù dal pugno. Tutto effimero, perciò ancora più bello.
Il ritorno era verso mezzogiorno, quando la spiaggia cominciava ad arroventarsi. La macchina, un forno (niente aria condizionata: siamo sopravvissuti anche a questo), la sabbia nelle ciabatte e nel costume.
Per strada, si attraversava spesso il fumo nero, acre e denso delle stoppie accese. Il fuoco bruciava, quasi sempre incustodito, a pochi metri dalla strada.
Lungo la statale, camion che vendevano angurie e meloni. Angurie enormi, da dieci o dodici chili, che mio padre sceglieva tamburellandoci sopra. E certe piccole pere verdi, durissime e dolcissime.
E poi i granchi: mio padre ne riportava a casa secchiate (si nascondevano nella sabbia, lasciando emergere solo gli occhi e le chele: inutile), li metteva nel lavabo e pescava da quella massa brulicante e ticchettante, e a forbiciate tagliava via tutte le zampe e le chele. Le articolazioni delle chele, minuziose come minuscoli meccanismi.
Non morivano subito: per un po' continuavano a macinare bollicine dalla bocca. Erano morti quando l'addome, prima ripiegato strettamente sotto il carapace, si rilasciava assumendo l'aspetto di una piccola coda.
Poi ci si faceva il sugo.

martedì 23 giugno 2009

la reggia di caserta - raccontino estivo

Visto che cominciamo a essere in tempo di vacanze... Un raccontino di qualche anno fa, ripescato da chissà dove, leggermente editato.



Come non ho visto la Reggia di Caserta

La conoscete la Reggia di Caserta? Ma sì, tutti la conoscono. Ci vengono i turisti dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna, dal Giappone perfino. Anch'io una volta ci volevo andare.
Perché sapete, ero in vacanza tra Campania e Lazio, in un piccolo campeggio proprio sulla foce del Garigliano, uno di quelli che piacciono a me, spartani, semplici, poco affollati, silenziosi, puliti (troppo puliti, persino: una implacabile signora albanese faceva la guardia ai cessi, non facevi in tempo a uscire che quella si fiondava sulla tazza per eliminare ogni residuo della tua evacuazione).
Il bar apriva quando e se il proprietario ne aveva voglia, l'animazione si limitava a qualche spettacolino per bambini e adolescenti: niente tunzi-tunzi fin nel cuore della notte, niente schiamazzi o finti carnevali di Rio. La spiaggia era piccola ma, per gli standard del posto, dignitosa. Nel senso che (quasi) tutta la spazzatura rimaneva relegata tra i pini e la macchia mediterranea. Noi la usavamo come segnaletica: entravamo in spiaggia tra la carcassa del divano beige e lo scafo sfondato del pedalò, poco dopo la bombola del gas che, completamente rosa dalla ruggine e dal sale, spuntava da sotto una duna come un minaccioso residuato bellico.

Ma dicevo di Caserta. Decidiamo di andarci un martedì (si sa, in genere il lunedì i monumenti chiudono).
Sulla cartina non pareva lontano, prendevi una stradina interna fino a Capua, poi qualche chilometro di autostrada ed ecco Caserta. Già, ma… Caserta Nord o Caserta Sud? Dio mio, pensiamo, qui hanno solo la reggia, la segnaleranno. Niente. Scegliamo Caserta Sud. Chiediamo lumi al casellante che ci risponde con un sorrisino (sa tutto, la carogna): "Era meglio uscire a Caserta Nord". E noi come cavolo facevamo a saperlo? Pazienza, seguiamo per Caserta; la strada attraversa quartieri di tristi capannoni e desolate periferie industriali. Senza dircelo, tutti pensiamo a “Gomorra”.
La reggia ci si para davanti per miracolo, in fondo a un lungo viale rettilineo. Che culo, pensiamo, beccata al primo tentativo. Macché: in fondo al viale c'è una inesorabile barriera di legno e cellophane che sbarra l'accesso. Giriamo a destra, l'unica alternativa possibile. E qui comincia l'odissea.

Magicamente, ogni cartello scompare. Si va a destra o a sinistra? Proviamo a destra, così a naso. Finiamo in un cul-de-sac, probabilmente il retro di una stazione ferroviaria, in mezzo a binari morti. Torniamo indietro, prendiamo a sinistra. Quasi invisibile nel mezzo di un infernale incrocio senza diritti di precedenza, un minuscolo cartello indica “Reggia” puntando esattamente al centro fra due strade. Prendiamo, ovviamente, quella sbagliata.
Dopo aver vagato per altri dieci minuti, un altro cartello indica un vicolo. Svoltiamo e scopriamo di trovarci contromano. Un vigile si avvicina, gli spieghiamo l'accaduto. "Sì, hanno appena cambiato il senso di marcia, ancora non hanno aggiornato il cartello. Girate lì in fondo". Giriamo dove indicato e, finita la manovra, il vigile è sparito insieme alle nostre speranze di ottenere un'indicazione. Dopo un altro quarto d'ora, un altro cartello. Lo seguiamo, e ci troviamo nel bel mezzo di un incrocio chiuso al traffico, con tanto lavori in corso. Dall'altro lato della strada, una agente della polizia municipale si sporge dal finestrino agitando la mano nel classico gesto di domanda. Capisce la situazione e ci indica a gesti la via di uscita.
Raggiungiamo la reggia grazie alle indicazioni di un passante impietosito. Infiliamo per grazia divina l'entrata del parcheggio, quindi usciamo rincuorati.

L'immenso piazzale è un labirinto di palizzate e teli di plastica. Lavori di rifacimento, spiega un cartellone. Sbirciamo in uno strappo della plastica e scorgiamo una distesa di erbacce alte quanto un uomo, selvagge, incolte. Un tizio cerca di venderci orologi falsi, bigiotteria di cattivo gusto e sfere di cristallo con Caserta sotto la neve.
Arriviamo davanti alla reggia, dove è riunito un capannello di turisti smarriti. Un usciere sta spiegando che la reggia è chiusa, perché chiude il martedì. Non il lunedì, come tutti i musei e i monumenti di questo mondo. "È così da giugno. Prima chiudeva il lunedì, poi hanno cambiato orario".
L'usciere ci fa intendere che sta facendo un grosso sacrificio nel rispondere, lui è qui solo per fare la guardia. Illustro la situazione a un gruppo di turisti polacchi. Stentano a crederci: siamo sotto Ferragosto, piena stagione turistica, e l'intero monumento è chiuso, per tutta la giornata. "E noi sennò quando puliamo?", spiega una signora con secchio e scopa.
Il parco della reggia balena in fondo al cortile, splendido, verdissimo, irraggiungibile.
Ovviamente dobbiamo pagare la sosta, un euro per venti minuti. All'uscita del parcheggio (non all'entrata) un piccolissimo cartello ci informa che la reggia chiude il martedì (grazie, lo sappiamo già) e che non sono previsti rimborsi (non avevamo dubbi).

Riprendiamo l'autostrada, torniamo al campeggio. È così che non ho visto la reggia di Caserta.