di 
Andrea Inglese
Il quadro si presenta stranamente affollato, le figure sembrano 
molte, addirittura troppe, tanto che si fa presto a dimenticarle, tutte 
quante è impossibile tenerle a mente, e pur enumerandole, con 
l’implacabile cadenza matematica, che isola e definisce, anche in tal 
caso qualcuna sfugge al conto, si sottrae alla somma finale: quante 
persone ci sono, in definitiva, raccolte sulla spiaggia, e sparse 
nell’intero paesaggio? Gli agglomerati di persone in primo piano, veri e
 propri capannelli, non permettono un conteggio sereno, spuntano sulla 
sinistra dei copricapo, bisogna spiare gambe, piedi e calzari, e sulla 
destra l’intrusione discreta, parziale, di un viso.
Se
 escludiamo la coppia di protagonisti, gli spettatori del dramma – che 
in realtà voltano ad esso le spalle – potrebbero essere ventidue, ma 
allargando la visuale a colline, promontori, villaggi ancora ben 
distinguibili, possiamo aggiungere ventidue ulteriori figure (umane, 
antropomorfe), ma senza dubbio ne tralascio alcune, le più remote, 
nascoste nelle pieghe della rocca di sinistra, intorno o appena sotto le
 due grandi fattorie, mentre è difficile discernere i viventi dalle 
statue, nel gruppo di figure che popolano, sulla destra, il villaggio e i
 suoi dintorni, soprattutto se, come accade a me, si osserva il dipinto 
in un’unica riproduzione, grande quanto una mezza pagina A 4. Non vorrei
 occuparmi troppo di questa folla, che si comporta in modo imprevedibile
 e disomogeneo, che non sembra appartenere ad un’unica famiglia, e che 
comunque, più che come clan o comunità, agisce come moltitudine, animata
 da divergenti passioni e interessi: alcuni, stremati dal dolore, non 
riescono a mantenersi eretti, piegano le ginocchia, si torcono a terra, e
 neppure offrono il volto allo spettatore tanto dev’essere sfigurato e 
avvilito; altri invece, con schietta impudicizia, ballano e suonano, 
come ignorando qualsiasi calamità, o proprio per sormontare la minaccia e
 il ricatto dei lutti a venire, lanciando un esuberante motivo di gioia 
attraverso le note di bizzarri strumenti a corda e a fiato, che qualche 
musicologo è in grado di riconoscere come emblemi pittorici di arnesi 
realmente esistiti, e non capricci di un individuo svagato e talentuoso 
nel tratto e nel colore. Basterebbe in realtà dedicarsi a queste figure,
 riunite in bande opposte sulla spiaggia, i sofferenti e i gaudenti, gli
 stremati e i festeggianti, i malcapitati e gli allegri errabondi, 
basterebbe lasciarsi trascinare da questa faida emotiva, che alterna 
come una nenia ipnotica tristizia e gioia, lacrime e risa, spasmi 
nervosi e passi di danza, basterebbe questo ritmo umano, elementare, per
 calmare la mente che vuole invece intessere storie, biografie, episodi,
 ruoli. Ma alle spalle del variopinto gruppo dei ventidue, tre decisive 
figure campeggiano, anzi quattro, dal momento che una di esse appare 
duplicata: si tratta di una donna seminuda, di un mostro ingombrante e 
di un guerriero agile e intraprendente. La donna, come in molti sogni 
erotici, è legata per le braccia, e offre il suo corpo nudo dai fianchi 
al petto: una veste bianca, o un prosaico lenzuolo, la avvolge 
accuratamente, coprendole avambracci e gambe. Il suo sesso appare e 
scompare, è un suggerimento: la stoffa che le cinge i fianchi si piega 
verso il basso, all’altezza del pube, in modo tale che il pensiero, 
vorace, vi insista cieco. Ma è la posa, di completo abbandono, con la 
testa reclinata sulla spalla destra, gli occhi semichiusi (chi può 
dirlo?), i seni spinti in fuori, il busto lievemente piegato verso 
terra, è questa condizione di schiava sessuale, ormai arresa alla 
giostra di sevizie che l’aguzzino le prepara, è questa spossatezza, che 
la rende in qualche modo intollerabile allo sguardo, non davvero mai a 
lungo contemplata dallo spettatore, che preferisce spostare l’attenzione
 al mostro, il quale campeggia terribile e sconfitto, rovesciato di tre 
quarti, al centro del quadro. E su di esso, quasi in punta di piedi, con
 discrezione, l’esecutore al lavoro, il giovane killer armato di 
sciabola: Perseo.
Di tutte le figure, pur essendo la meno 
accomodante, quella del mostro è di certo la più fedele: essa si fa 
guardare in continuazione, raccoglie su di sé l’ostinata curiosità dei 
vivi, l’indiscrezione degli spettatori, la malagrazia di coloro che 
altrove, oltre loro stessi, cercano un approdo: un disgraziato episodio 
da rimirare, appena compassionevoli, con la risaputa sete di rivalsa. Il
 mostro è lì, perfettamente calato nel suo ruolo di obbrobrio, stolido e
 pericoloso, eppure in qualche modo dimesso: volge al suo carnefice la 
giugulare, sprofonda su un fianco, si candida ad essere sempre, 
consensualmente, ammazzato. Il mostro ha delle strane e fulve barbe, che
 tutte vibrano sulla parte posteriore del profilo, mentre dalle narici 
schizza filamenti d’acqua e guarda, con presumibile tristezza, 
Andromeda: sa che non la vedrà più, che mai l’ha posseduta, che non ha 
avuto tempo, a causa dei suoi fitti impegni di rapitore, di concedersi 
un attimo di pace con lei. Perseo è discreto e grazioso: uccide con una 
disarmante eleganza, tutto piegando il braccio verso di sé, come un 
tennista che prepara un rovescio, così che la sciabola rimanga per un 
attimo sospesa dietro la sua nuca, prima di calare, secca, sulla gola 
del drago acquatico.
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