lunedì 17 settembre 2012

silenzi


La morte, sabato scorso, di  Roberto Roversi, è stato solo l'ultimo di una serie di lutti, che hanno colpito il mondo della poesia italiana nel giro di pochi mesi: a marzo di quest'anno ci hanno lasciato, a qualche giorno l'uno dall'altro, Elio Pagliarani e Tonino Guerra, ad agosto Luciano Erba. L'anno scorso aveva visto la scomparsa di Andrea Zanzotto, ad ottobre, e di Giovanni Giudici, a maggio, che aveva seguito, a un anno quasi esatto, quella di Edoardo Sanguineti (maggio 2010).
Volendo andare ancora più indietro, nell'ultimo decennio se ne sono andati Alda Merini (2009), Mario Luzi (2005), Giovanni Raboni (2004), Elio Fiore (2002), Attilio Bertolucci (2000), e può darsi benissimo che mi stia dimenticando qualche nome.
A pensarci bene, sembra inevitabile: si tratta di poeti pressoché coetanei, distribuiti lungo un paio di generazioni nate più o meno fra il secondo e il terzo decennio del Novecento (i più anziani erano Bertolucci e Luzi, del 1911 e 1914, i più giovani Raboni e Fiore, 1932 e 1935). Quasi tutti sono morti in età avanzata, a ottanta o novant'anni, dopo una vita lunga e operosa.
Sembra inevitabile, naturale. Eppure, pensare a queste voci di poeti ormai consegnate alla carta (o al supporto che la seguirà), di cui non si potrà più sentire il suono vivo, mette un bel po' di tristezza.
Ma il vero problema, forse, è un altro: con loro muore un'idea di poesia, un'idea di letteratura, e in fin dei conti un certo modo di intendere il lavoro intellettuale. Zanzotto, Sanguineti, Roversi, Pagliarani, sono stati - al di là dei giudizi e dell'apprezzamento che si può avere per la loro poesia - forse l'ultima generazione a credere nella possibilità di esercitare un ruolo nella cultura. A credere - diciamo meglio - che la poesia potesse farsi sentire con la sua propria voce, agire con i propri mezzi specifici.
Non mi pare che oggi manchino le grandi voci. Manca, piuttosto, uno spazio in cui possano farsi ascoltare, uno spazio in cui la poesia sia accolta in quanto tale. Oggi, più che mai, i poeti gridano nel deserto. Oppure, più opportunamente, praticano l'arte saggia del silenzio.

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