sabato 31 gennaio 2009
amarcord culinario sanseverese
I torcinelli alla brace;
i cecatelli col ragù di carne mista;
le orecchiette messe a seccare sui taglieri davanti alle porte dei sottani;
la "zuppetta" di pane raffermo, brodo e scamorza fusa (a Natale);
lo spezzatino d’agnello con i cardi lessati (a Pasqua);
i pupurati (alla festa dei Morti);
le catalogne e le cicorie mangiate a casa della mia nonna buonanima;
le pizzefritte;
la panzetta ripiena di uovo e uvetta;
le nevole con il mosto cotto;
le melanzane (i mulagnène) sott’olio;
i fiori di zucca in padella;
la lingua di bue lessa;
le cassatine ripiene di ricotta e ricoperte di glassa;
il filetto di carne di cavallo;
i lintorci;
il sanguinaccio (che non fanno più perché il sangue di maiale non si può più vendere);
la pastiera napoletana;
l’olio che fanno dalle mie parti e che invecchiando diventa piccante da bruciare la lingua;
le pricoche (i pr'coche);
i lampascioni (i lambasciune);
le ciambrachelle (i ciambrachelle) con la menta;
le zampe di rana;
gli involtini che laggiù si chiamano “braciole”;
il timballo;
le pannocchie di mais lessate che si vendevano al mercato, in enormi pignatte fumanti;
le "mandorle interrate" (i mèn'le 'nt'rrète);
a sav'zòch, ottima sott'olio.
GLOSSARIO
torcinelli = involtini piccanti ripieni di interiora tritate e tenuti fermi da budella attorcigliate;
cecatelli = pasta corta fatta a mano;
ragù di carne mista = nella fattispecie, vitello maiale salsicce e quando è stagione anche agnello;
pupurati = grosse ciambelle di color marrone scuro, che una volta venivano fatte con il mosto cotto, oggi con il cacao;
catalogne = verdura simile alla cicoria;
pizzefritte = altrimenti dette calzoni o panzerotti, solo che da me si fanno in padella, non al forno;
panzetta = la parte di carne subito sopra le costole, aperta a tasca e riempita con uovo, prezzemolo e uva passa, poi ricucita (fa parte delle carni miste usate per il ragù);
nevole = dolci composti da strisce di pasta modellate a spirale, con una forma simile a cespi di lattuga, cosparsi di miele o di mosto cotto;
lintorci = pasta fatta a mano, simile agli spaghetti alla chitarra (ma più grossi, e a sezione quadrata), viene ottenuta passando sulla pasta stesa uno speciale matterello di bronzo scanalato;
sanguinaccio = crema dolce a base di sangue di maiale;
pricoche = varietà di pesche (in italiano: percoche?, o sbaglio?);
lampascioni = bulbi selvatici simili alle cipolle, dal sapore amarissimo, mangiati lessi o in insalata;
ciambrachelle = chiocciole;
mandorle interrate = dolcetti fatti con un mucchiettino di mandorle sepolte sotto una colata di cioccolato;
braciole = involtini composti da una fettina di vitello ripiena di un impasto del quale ignoro la composizione; mia madre le chiudeva con micidiali stuzzicadenti che rischiavano sempre di infilzarti il palato o le gengive;
a sav'zòch = Salicornia Fruticosa, erba palustre spontanea.
l'opera e il sonno
Dedicato a chiunque condivida uno dei miei desideri più segreti: imparare a non dormire.
Molto sottrae il sonno alla vita.
L’opera sospinta al margine del giorno
Scivola lenta nel silenzio.
La mente sottratta a se stessa
Si ricopre di palpebre.
E il sonno si allarga nel sonno
Come un secondo corpo intollerabile.
Rima palpebralis
Molto sottrae il sonno alla vita.
L’opera sospinta al margine del giorno
Scivola lenta nel silenzio.
La mente sottratta a se stessa
Si ricopre di palpebre.
E il sonno si allarga nel sonno
Come un secondo corpo intollerabile.
Valerio Magrelli
(da "Ora serrata retinae", 1980)
venerdì 30 gennaio 2009
memorandum lessicale
giovedì 29 gennaio 2009
recensioni in pillole 5: "L'arte imperfetta"
Ted Gioia, "L'arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea", Excelsior 1881, 2007
Meglio tardi che mai.
"The Imperfect Art" fu pubblicato in America nel 1988 e contribuì a fare del ventinovenne Ted Gioia, all'epoca consulente aziendale, una delle firme più richieste della critica e della musicologia jazzistica. Questa traduzione è del 2007: ci sono voluti vent'anni, ma ne valeva la pena.
Il primo pregio del libro è lo stile, che è poi quello tipico di molta saggistica anglosassone: diretto, privo di tecnicismi, spesso anche spiritoso (persino troppo spiritoso, per le nostre orecchie abituate all'italica ampollosità). Gioia riesce ad affrontare temi seri e pesanti in maniera ironica e leggera, e per quanto mi riguarda non è certo un male.
Il secondo pregio è il contenuto del libro: sette agili saggi che affrontano il jazz in maniera sempre obliqua e sorprendente. Bastano alcuni titoli, a mo' di esempio: "Louis Armstrong e la musica d'arredamento", "Il jazz e il mito primitivista", "Cosa c'entra il jazz con l'estetica?", "Noia e jazz".
Nonostante la varietà dei temi e l'abbondanza di aneddoti e di osservazioni argute, il nocciolo teorico che Gioia propone è ben solido: come situare il jazz all'interno della cultura (musicale, ma anche più ampiamente filosofica) del mondo contemporaneo?
Le domande che scaturiscono sono spesso provocatorie: perché, in un secolo che ha visto una crescente spersonalizzazione e tecnicizzazione dell'arte, il jazz insiste nel celebrare l'individualità? come mai i primi critici esaltavano tanto la "spontaneità" del jazz? è possibile, legittimo paragonare la melodia improvvisata da un jazzista in una frazione di secondo con quella su cui un compositore classico ha sudato per giorni, mesi, anni? come giudicare una musica in cui la relazione tra artista e pubblico ha un peso uguale, se non maggiore, rispetto alla compiutezza formale? è lecito per un critico dire che si è annoiato?
Le risposte sono altrettanto, se non più provocatorie, e lascio al lettore il piacere di scoprirle. (Certo, dopo vent'anni molte osservazioni non sono più così nuove, ma accontentiamoci).
In cauda venenum: la traduzione. Certe sciatterie stilistiche potrebbero anche passare, ma quando si legge del batterista Jenny Clarke, o di Lester Young che suona "Show Shine Boy", o si vede beat tradotto con "battuta" (anziché con "movimento") e changes con "cambi" (e non con "accordi" o "giro armonico"), un saltino sulla sedia è quasi inevitabile.
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mercoledì 28 gennaio 2009
che noia!
"La maggior parte [dei teorici dell'arte] ha preferito affrontare i pregi e i difetti di un'opera come se fossero intrinseci all'opera stessa, anziché derivare da una relazione tra il prodotto artistico e il suo spettatore. L'uomo comune nei confronti dell'arte assume l'approccio esattamente opposto, e quindi il suo vocabolario estetico trabocca di termini che esprimono relazioni, parole come "divertente", "interessante" e "irritante", che si concentrano sulle sue reazioni all'opera in questione. Gli estetologi professionisti adottano invece un vocabolario ben diverso: parlano di "forma", "simmetria", "bellezza", "sublime" e così via, in un modo che spesso non ha alcun rapporto diretto con ilpubblico dell'opera. Per i filosofi, come per molti artisti, l'esistenza di un pubblico indipendente, intelligente e dotato di facoltà critiche é un peso. Queste associazioni così pedestri, sembrano dire, servono soltanto a macchiare la bellezza incontaminata dell'arte. La loro riverenza per l'opera la trasforma un un oggetto a sé, come la reliquia di un santo, che non deve essere compresa in termini umani.
L'incapacità - o la mancanza di volontà - da parte della maggioranza dei critici moderni di parlare della noia rivela probabilmente un'insicurezza profonda. Un'ammissione di noia da parte di un critico offre sempre il fianco alla possibile risposta che la colpa sia sua e non dell'opera d'arte: se il critico fosse più consapevole, sensibile, intelligente, avrebbe visto l'opera in tutto il suo splendore e la sua bellezza.
[...]
Ma l' "opera in sé", come la cosa in sé di Kant, è una nozione metafisica che non aggiunge nulla alla nostra comprensione dell'opera in questione. Non è forse vero che le opere d'arte sono importanti per l'impatto che hanno su di noi? E non esistono forse opere interessanti e coinvolgenti e altre insopportabilmente noiose? Sappiamo tutti che queste cose sono vere, eppure - per quanto strano a dirsi - questi semplici fatti informano raramente i nostri giudizi estetici.
Da un riconoscimento di simili fondamentali valori estetici il jazz potrebbe guadagnarci più di altre arti. La sua evoluzione da arte popolare ad arte colta in termini generali è stata verosimilmente un processo positivo, ma ha anche portato con sé dei problemi innegabili. Nelle arti popolari il rapporto del pubblico con l'artista è di solito privo di ambiguità: il pubblico si aspetta di essere coinvolto nell'opera d'arte e le opere che non riescono a farlo non sopravvivono (anche solo per il fatto che si ritrovano ben presto senza un pubblico). Questo genere di relazione è ben lungi dall'essere perfetta - patisce senza dubbio i capricci della moda popolare e i limiti (in termini di sofisticatezza e comprensione) del pubblico di massa - ma è a suo modo un rapporto onesto. [...]
Roland Barthes ha scritto parole magnifiche sui "piaceri del testo" e il suo richiamo a un erotismo del giudizio estetico è stato un tema ricorrente in molta recente letteratura critica. Ma perché fermarsi al piacere? Il perseguimento del piacere può esistere solo accanto all'onnipresente possibilità della noia e della frustrazione erotica. [...] Non trascuriamo i piaceri del testo, ma non dimentichiamo nemmeno i piaceri che provengono dal non finire un testo, dall'abbandonare un museo o un jazz club, dal non rinnovare l'abbonamento a una sala di concerti. Questi atti innescati dalla noia possono avere validità estetica quanto la maggior parte delle serissime meditazioni sui più elevati ideali della simmetria e della bellezza formale."
L'incapacità - o la mancanza di volontà - da parte della maggioranza dei critici moderni di parlare della noia rivela probabilmente un'insicurezza profonda. Un'ammissione di noia da parte di un critico offre sempre il fianco alla possibile risposta che la colpa sia sua e non dell'opera d'arte: se il critico fosse più consapevole, sensibile, intelligente, avrebbe visto l'opera in tutto il suo splendore e la sua bellezza.
[...]
Ma l' "opera in sé", come la cosa in sé di Kant, è una nozione metafisica che non aggiunge nulla alla nostra comprensione dell'opera in questione. Non è forse vero che le opere d'arte sono importanti per l'impatto che hanno su di noi? E non esistono forse opere interessanti e coinvolgenti e altre insopportabilmente noiose? Sappiamo tutti che queste cose sono vere, eppure - per quanto strano a dirsi - questi semplici fatti informano raramente i nostri giudizi estetici.
Da un riconoscimento di simili fondamentali valori estetici il jazz potrebbe guadagnarci più di altre arti. La sua evoluzione da arte popolare ad arte colta in termini generali è stata verosimilmente un processo positivo, ma ha anche portato con sé dei problemi innegabili. Nelle arti popolari il rapporto del pubblico con l'artista è di solito privo di ambiguità: il pubblico si aspetta di essere coinvolto nell'opera d'arte e le opere che non riescono a farlo non sopravvivono (anche solo per il fatto che si ritrovano ben presto senza un pubblico). Questo genere di relazione è ben lungi dall'essere perfetta - patisce senza dubbio i capricci della moda popolare e i limiti (in termini di sofisticatezza e comprensione) del pubblico di massa - ma è a suo modo un rapporto onesto. [...]
Roland Barthes ha scritto parole magnifiche sui "piaceri del testo" e il suo richiamo a un erotismo del giudizio estetico è stato un tema ricorrente in molta recente letteratura critica. Ma perché fermarsi al piacere? Il perseguimento del piacere può esistere solo accanto all'onnipresente possibilità della noia e della frustrazione erotica. [...] Non trascuriamo i piaceri del testo, ma non dimentichiamo nemmeno i piaceri che provengono dal non finire un testo, dall'abbandonare un museo o un jazz club, dal non rinnovare l'abbonamento a una sala di concerti. Questi atti innescati dalla noia possono avere validità estetica quanto la maggior parte delle serissime meditazioni sui più elevati ideali della simmetria e della bellezza formale."
da: Ted Gioia, "L'arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea"
(Excelsior 1881, 2007, pp. 167-170)
(Excelsior 1881, 2007, pp. 167-170)
martedì 27 gennaio 2009
action playing
"Un giorno d'estate del 1947 il pittore Jackson Pollock fece una cosa estremamente coraggiosa. Stese una tela sul pavimento del fienile che usava come studio, mise da parte pennello e tavolozza e iniziò a versare della vernice da imbianchino sulla tela. Girava per il fienile versando vernice da ogni lato. Di tanto in tanto si fermava, incerto su come continuare, e appendeva la tela nel fienile per qualche giorno in attesa dell'ispirazione per terminarla. Questo allontanamento radicale dalle tecniche accettate avrebbe finito per diventare una tecnica diffusa, ma all'epoca Pollock non era affatto sicuro delal qualità di ciò che aveva fatto. A preoccuparlo non era però la validità dei suoi nuovi quadri: quello era un problema secondario. C'era un'altra questione, più fondamentale, a turbarlo. Lee Krasner, moglie di Pollock e artista a sua volta, ricorda: "Jackson mi prendeva per un braccio, mi scuoteva e mi chiedeva: 'Ma questa è pittura? Non dico se è bello o brutto... ma è pittura?' ".
Con il senno di poi possiamo dire che il dilemma di Pollock non nasceva dalla materialità delle opere. A ossessionarlo era piuttosto un problema recondito. La questione che veniva posta dal suo lavoro, una questione forse altrettanto rilevante ai giorni nostri, riguardava l'importanza relativa dell'atto artistico rispetto all'opera prodotta. L'essenza dell'espressionismo astratto di Polock sta nell'enfasi posta sul primo termine a spese del secondo. I suoi lavori celebravano l'atto del dipingere, la sensazione viscerale di gettare i colori sulla tela. La visione che si aveva dell'attività che le aveva prodotte. Per apprezzarle non erano necessari né una sensibilità critica né del buongusto, almeno non all'inizio, ma qualcosa di più fondamentale: un'idea di cosa fosse l'arte.
L'espressionismo astratto e il jazz degli anni Cinquanta avevano un pubblico di riferimento comune, e da questo punto di vista non è difficile comprenderne il motivo. Gli hipster che visitavano le gallerie e frequentavano i jazz club erano - che se ne rendessero conto o no - i testimoni di qualcosa di simile in quei due ambienti apparentemente diversi. Era una somiglianza non di materiali o di stile, ma di filosofia. La peculiarità del jazz, come la rivoluzione di Pollock del 1947, dipendeva non tanto dalla sua esistenza come diverso tipo d'arte, quanto dal fatto che incarnava un atteggiamento del tutto differente nei confronti dell'arte medesima. Richiedeva un corpus nuovo di postulati estetici rispetto a una scultura di Bernini o a un quartetto d'archi di Mozart. La domanda sollevata dal jazz e dall'espressionismo astratto era la stessa: come si giudica un'arte che attribuisce più importanza alla performance che all'arte? La pittura non è tipicamente considerata un'arte della performance, ma l'approccio rivoluzionario di Pollock poteva essere compreso solo in questo contesto: le sue opere cercavano di catturare l'energia e la vitalità presenti nel momento della loro creazione. Da questo punto di vista erano estremamente simili al jazz, e benché il jazz non sia mai stato controverso quanto il lavoro di Pollock, anch'esso si deve giustificare rispetto alla critica che sostiene che il suo prodotto finale non è autosufficiente, non è separato alle forze che lo hanno creato, come accadrebbe invece per le grandi opere d'arte.
Per il jazz le implicazioni di una critica siffatta sono piuttosto profonde. [...] Se vediamo l'arte non come una classe di oggetti perfezionati ma come l'ambito più avanzato dell'espressione creativa umana, allora il jazz è quasi unico nella sua capacità di convogliare quell'esperienza non adulterata da intermediari che in altre discipline separano l'artista dall'arte."
Con il senno di poi possiamo dire che il dilemma di Pollock non nasceva dalla materialità delle opere. A ossessionarlo era piuttosto un problema recondito. La questione che veniva posta dal suo lavoro, una questione forse altrettanto rilevante ai giorni nostri, riguardava l'importanza relativa dell'atto artistico rispetto all'opera prodotta. L'essenza dell'espressionismo astratto di Polock sta nell'enfasi posta sul primo termine a spese del secondo. I suoi lavori celebravano l'atto del dipingere, la sensazione viscerale di gettare i colori sulla tela. La visione che si aveva dell'attività che le aveva prodotte. Per apprezzarle non erano necessari né una sensibilità critica né del buongusto, almeno non all'inizio, ma qualcosa di più fondamentale: un'idea di cosa fosse l'arte.
L'espressionismo astratto e il jazz degli anni Cinquanta avevano un pubblico di riferimento comune, e da questo punto di vista non è difficile comprenderne il motivo. Gli hipster che visitavano le gallerie e frequentavano i jazz club erano - che se ne rendessero conto o no - i testimoni di qualcosa di simile in quei due ambienti apparentemente diversi. Era una somiglianza non di materiali o di stile, ma di filosofia. La peculiarità del jazz, come la rivoluzione di Pollock del 1947, dipendeva non tanto dalla sua esistenza come diverso tipo d'arte, quanto dal fatto che incarnava un atteggiamento del tutto differente nei confronti dell'arte medesima. Richiedeva un corpus nuovo di postulati estetici rispetto a una scultura di Bernini o a un quartetto d'archi di Mozart. La domanda sollevata dal jazz e dall'espressionismo astratto era la stessa: come si giudica un'arte che attribuisce più importanza alla performance che all'arte? La pittura non è tipicamente considerata un'arte della performance, ma l'approccio rivoluzionario di Pollock poteva essere compreso solo in questo contesto: le sue opere cercavano di catturare l'energia e la vitalità presenti nel momento della loro creazione. Da questo punto di vista erano estremamente simili al jazz, e benché il jazz non sia mai stato controverso quanto il lavoro di Pollock, anch'esso si deve giustificare rispetto alla critica che sostiene che il suo prodotto finale non è autosufficiente, non è separato alle forze che lo hanno creato, come accadrebbe invece per le grandi opere d'arte.
Per il jazz le implicazioni di una critica siffatta sono piuttosto profonde. [...] Se vediamo l'arte non come una classe di oggetti perfezionati ma come l'ambito più avanzato dell'espressione creativa umana, allora il jazz è quasi unico nella sua capacità di convogliare quell'esperienza non adulterata da intermediari che in altre discipline separano l'artista dall'arte."
da: Ted Gioia, "L'arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea"
(Excelsior 1881, 2007, pp. 140-142)
(Excelsior 1881, 2007, pp. 140-142)
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poésie d'ameublement
venerdì 23 gennaio 2009
recensioni in pillole 4: "Ho freddo"
Gianfranco Manfredi, “Ho freddo”, Gargoyle, 2008
Un cadavere dissepolto e squartato, i cui organi semiputrefatti vengono estratti e bruciati. È bella forte, la scena che apre “Ho freddo”, il romanzo nel quale Gianfranco Manfredi ha riletto il mito dei vampiri.
Ma andiamo per ordine.
Nell'ultimo scorcio del Settecento, la vita di Cumberland, pacifica comunità del New England, è movimentata dall'arrivo di due aristocratici francesi, Valcour e Aline de Valmont, fratelli gemelli, colti e raffinati, entrambi dediti alla scienza (lui medico, lei biologa).
Ai due si aggiunge il pastore battista Jan Voos, venuto a guidare la comunità di fedeli locali. Giovane, impetuoso, dal fisico colossale e dalla forza erculea, Jan non tarderà a stringere una complicata amicizia con Valcour e un'ancor più complicata attrazione amorosa con Aline.
Ma la quiete del New England è scossa da una serie di morti misteriose: ragazze che si spengono, consumate da febbri incurabili, e che sembrano risorgere dalla tomba per reclamare le vite dei propri parenti. La paura si diffonde nel villaggio, emergono antiche superstizioni (le streghe di Salem, cupe leggende indiane) che spingono a sanguinarie profanazioni di cadaveri.
Qual è il legame tra la “consuzione” che uccide le giovani e la “peste vampirica”? Perché Valcour e Aline sembrano prenderla tanto a cuore? Quale oscuro passato cela l'inquieto reverendo Voos?
Potrebbe sembrare un horror qualsiasi, con l'unica originalità dell'ambientazione americana. Ma non è così, perché Manfredi costruisce “Ho freddo” come un'opera a più livelli: romanzo nero, con tutto il corollario di morbosità, ma anche saggio storico minuziosamente documentato, ma anche riflessione sull'epoca dei Lumi al tramonto e opera metaletteraria (aleggiano i fantasmi di Poe, Lovercraft, Hawthorne e della letteratura libertina settecentesca).
Il finale è tra i più spiazzanti che mi sia capitato di leggere: più che aperto, sospeso sull'abisso. Manfredi lascia monchi molti dei fili narrativi: la vera natura dei vampiri, il legame con l'oscura vicenda della famiglia Hermann e con le misteriose apparizioni dell'isola di Block, gli eventi (follia o maleficio soprannaturale?) che hanno portato alla morte i genitori di Aline e Valcour.
In fondo, il vero filo conduttore del romanzo si rivela essere la paura, l'odio, l'oscurità che alberga in fondo al cuore umano e che né la Ragione illuministica di Valcour e Aline, né la fede religiosa di Jan riescono a dissipare.
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giovedì 22 gennaio 2009
new york: corollari poetici
INTROITO
Si entra in una città sconosciuta
come in un vestito nuovo
ci si avvolge di un guscio lucente
si immagina di parlare con il noi
nell’aria senza sfregi
si possono percorrere con lo sguardo distanze
inverosimili.
La mente è netta
i pensieri senza scorie.
* * *
Y.M.C.A.
Con tutte quelle persone
il gioco era scivolare sulle vite nel passaggio
dalla terra al grattacielo
assecondare gli spigoli
era affondare in Greenpoint come in una cruna
aspettare l’eco dei rumori
sgominare la matassa cercare l’unica
voce umana.
Un’altra sosta era la curva del corridoio
(the hallway) dove si attraversava l’odore di olio bruciato
anche lì si trattava di cercare l’angolo giusto
che ti avrebbe rivelato la fenditura.
Questo, piuttosto che le liste di appuntamenti (schedule)
o l’euforia della luce piena a Washington Square
(lì molti si sono gettati
dall’ultimo piano fin nel vuoto lucido
e ora tutto è transennato
i vetri puliti i libri a portata di mano
ma ci sono momenti che la carne vive
sotto i tavoli ad esempio
o nel movimento di compressione necessario
a raggiungere gli scaffali più bassi).
Come amavo l’umiltà delle schiene nude
i piedi in fila le maree degli odori.
* * *
EAST HOUSTON STREET
Downtown è già abbastanza triste
senza bisogno di trombe sordinate.
Un mare di piombo sigilla le linee prospettiche.
Rasoterra si smarrisce l’organizzazione formale
e le rette perpendicolari cedono il posto ai detriti.
E allora meglio
la vernice gonfia l’odore stremato del ferro caldo e della gomma
lo stridore paziente delle cremagliere
i tunnel non conducono alle Madri
solo a pozze di pioggia isole di canto
si ha sempre la sensazione di essere più giovani
di quanto si dovrebbe.
* * *
LUNGO BROADWAY
New York, tutto sommato, è stata
una topografia della di solitudine.
Vorrei insistere sui luoghi di passaggio
sulle ragazze portoricane che aspettano
con la ringhiera stampata dietro le cosce.
Un giorno probabilmente qualcuno è stato qui
a guardare con la camicia aperta sul petto
la faccia corrosa dal sole
quando l’odore era ancora quello della corda tesa
e del catrame caldo.
Ma è passato molto tempo: chi sospira viene subito nascosto
solo la spazzatura si esibisce
la fermentazione trionfante
la fame futura.
Non riesco a credere ai colori autunnali di Central Park
né ai suoi scoiattoli.
Eppure ci dovrebbe essere ancora qualcuno ad aspettare
per scremare il latte bollito tirare ago e filo
tra i denti asciugare il lavello
prima o poi i grattacieli saranno secchi come vecchie ossa
e ci saranno voci snelle corpi trapassati dalla morte
che torneranno ad occupare l’orizzonte
asseconderanno i colori
consumando lenti fuochi nelle gole trasparenti.
martedì 20 gennaio 2009
solo i cani?
Portarsi a casa un cane con il pedigree non significa automaticamente avere un amico a 4 zampe intelligente. E' questo il principale risultato di una ricerca condotta su 13mila esemplari dall'Università di Stoccolma e riferita dal giornale Telegraph.
Per il fatto che vengono ormai allevati soprattutto per scopi che si potrebbero definire "ornamentali", i cani di razza stanno diventando sempre più stupidi.
Per l'autore dello studio, l'etologo Kenth Svartberg: "Le moderne pratiche d'allevamento influenzano il comportamento e le capacità mentali delle razze con pedigree, non solo l'aspetto fisico".
Un tempo, i nostri amici pelosi venivano selezionati per caratteristiche come l'intelligenza o il fiuto; ora invece lo scopo è sovente quello di creare degli "accessori", come i chihuahua "da borsa" di Paris Hilton e Britney Spears.
Per il fatto che vengono ormai allevati soprattutto per scopi che si potrebbero definire "ornamentali", i cani di razza stanno diventando sempre più stupidi.
Per l'autore dello studio, l'etologo Kenth Svartberg: "Le moderne pratiche d'allevamento influenzano il comportamento e le capacità mentali delle razze con pedigree, non solo l'aspetto fisico".
Un tempo, i nostri amici pelosi venivano selezionati per caratteristiche come l'intelligenza o il fiuto; ora invece lo scopo è sovente quello di creare degli "accessori", come i chihuahua "da borsa" di Paris Hilton e Britney Spears.
Secondo Svartberg, i geni responsabili della bellezza nei canidi spesso si associano alla personalità noiosa e introspettiva.
NdB (Nota del Blogger): chi ritiene offensivo parlare di stupidità per i "cani da borsetta", e non per le proprietarie della borsetta medesima, sappia che ha tutta la mia solidarietà.
NdB (Nota del Blogger): chi ritiene offensivo parlare di stupidità per i "cani da borsetta", e non per le proprietarie della borsetta medesima, sappia che ha tutta la mia solidarietà.
sabato 17 gennaio 2009
la città dei topi
A volte mi chiedo se sia possibile conoscere, non dico una città, ma una strada, un isolato, persino la propria casa o la camera dove si è vissuto per anni e anni.
I luoghi riservano sempre qualche sorpresa. Angoli del mio paese, che credevo di conoscere a memoria, si aprono in scorci inaspettati, persino il panorama dalla finestra della mansarda si offre a volte in una luce nuova, sfuggita a quelle ore di contemplazione oziosa, ipnotica che ci si può permettere solo nell'infanzia e nella prima adolescenza.
La sensazione si fa soverchiante nel caso delle grandi città. Roma, ad esempio, dove persino le pietre corrose dai secoli danno l'impressione di essere altrove: gli infiniti occhi che le hanno intraviste, le mani che le hanno sfiorate, i corpi che le hanno urtate sembrano aver creato una concrezione invisibile ma percepibile, simile al velo di polvere solidificata che maschera il vero colore di un oggetto, ormai sepolto, irrimediabile.
Oppure New York.
Le prime due settimane a New York le passai camminando, su e giù per le strade rettilinee di Midtown, o per quelle più aggrovigliate del Financial District che dopo le cinque del pomeriggio si trasformavano in buie tombe silenziose di cemento verticale, e poi dentro i musei percorsi da stormi di scolari che passavano allegri da un diorama all'altro, o in giro per Central Park con i suoi colori già pronti per la pellicola e i suoi scoiattoli dalle code smisurate, o per le strade di Brooklyn dove lingue volti e colori della pelle cambiavano nel giro di due o tre blocks e dove ogni tanto si apriva una prospettiva di magazzini dismessi, che sfociava un luccicante fondale di grattacieli, minuscoli oltre l'East River vasto come un oceano. Oppure su e giù per la metropolitana, il cui funzionamento continuò a sfuggirmi, tenace, fino all'ultimo giorno, facendomi ritrovare non so più quante volte in un punto della città che non sapevo più tracciare, in ritardo per l'appuntamento, in una gimcana micidiale di caldo e di freddo (le due manie nazionali degli americani: l'aria condizionata d'estate e il riscaldamento d'inverno, entrambi ferocemente a manetta).
Con il buio, rientravo nello YMCA dove alloggiavo, a Greenpoint, il quartiere polacco di Brooklyn, dopo la cena in un ristorantino che serviva a prezzi modici cibo in porzioni statunitensi (ossia: formato ippopotamo). Il personale consisteva in un cuoco sudamericano ciarliero e pettegolo, una lentigginosa cameriera sedicenne con la bandiera irlandese e una croce celtica tatuate sul braccio e una signora rinsecchita che, come si usa negli States, veniva a riempirmi il bicchiere d'acqua non appena lo vuotavo.
L'ostello aveva un'aria fatiscente ma la camera era linda, un cubicolo confortevole di pochi metri quadrati dove passai la notte più brutta della mia vita, con la febbre a trentanove e tutto l'organismo in rivolta contro il plumbeo cibo americano (per due giorni mangiai solo tè e biscotti, il terzo entrai in una pasticceria e divorai con voluttà orgasmica due fette di torta alla frutta, e passò tutto).
A letto, mi cullava la musica di carburatori e sirene della polizia che è il rumore di fondo di New York, mentre mi passavano davanti agli occhi tutte le immagini della giornata: la finestrella del bagno che dava su un'ondulazione di tetti catramati e, in fondo in fondo, lo sfavillio bronzeo del Chrysler Building; l'uomo dalle braccia ricoperte di pustole scarlatte, accanto al quale nessuno osava sedersi; il giovane ebreo con la barba lunga, lo zuccotto e il caffetano nero che leggeva un libro intitolato “How to Make Your Spouse Happy”; i prati verdissimi e sconfinati del campus della Columbia University; la donna che a Times Square esponeva fotografie di feti smembrati per protestare contro l'aborto; il profilo struggente della ragazza portoricana che sistemava i libri negli scaffali alla City University; i dodici vertiginosi piani della Bobst Library, simili a un immenso alveare, con i libri tutti a vista in libera consultazione e i ballatoi affacciati sull'altissimo pozzo di luce centrale (chiusi da vetrate, perché pare fosse diventata abitudine dei suicidi servirsene); l'odore di ferro caldo, gomma, polvere e catrame bruciato che domina certi tratti di Broadway e si mescola con i fumi grassi e unti delle bancarelle di cibo a poco prezzo; gli uomini d'affari in giacca e cravatta che mangiavano all'aperto, appollaiati sulle immense scalinate della New York Library; la folla anonima, compatta, che ti proteggeva e non ti faceva mai sentire straniero; i lussuosi condomini dell'Upper East Side, con il tappeto rosso e la tettoia, il portiere in livrea e la hall ricoperta di specchi e ottone; la stazione della metropolitana di Westchester Square, nel Bronx, decorata con mosaici di Romare Bearden, dove un negro colossale aveva saltato il tornello urlando “fuck your mother” al controllore; Wynton Marsalis acciambellato come un gattone su una poltrona nella sala stampa del nuovo Jazz at Lincoln Center appena inaugurato, con la sua smisurata finestra che occupava un'intera parete e strapiombava sui grattacieli di Columbus Circle; un furgone che si apriva e rivelava uno studio legale su quattro ruote; i gabinetti con le porte che non arrivavano a terra, dalle quali spuntavano file di scarpe multicolori; il tizio identico a Eddie Murphy che riceveva all'ingresso del Jazz Standard, abbigliato come un pimp anni '40 con una marsina viola e un Borsalino dalla lunga piuma verde; gli attivisti del Falun Gong impegnati a mimare le torture cui erano sottoposti in Cina; la ragazza che, al tavolo del fast-food, aveva estratto di tasca un fazzoletto, se lo era appoggiato alla bocca ed era scoppiata a piangere in perfetto silenzio, poi lo aveva messo via e aveva ripreso a mangiare; uno spettacolo di marionette contro Bush a Union Square; i commessi che urlavano “next please” non appena il cliente aveva finito di pagare; una panchina con sopra tre gocce di sangue fresco e un preservativo ancora imbustato; la bancarella di libri a Washington Square dove avevo comprato “The Emperor Jones” e l'autobiografia di Armstrong; gli scarafaggi piccoli, sottili, color marrone chiaro, che spuntavano da interstizi invisibili; una scritta sul muro che diceva “it is not an illusion that you can change the world, it is an illusion that you can predict the result”; la città dalla cima dell'Empire State Building, con la crosta appuntita dei grattacieli di Manhattan che all'orizzonte sfumavano nelle case basse del Queen e del Bronx e poi, oltre il fiume Hudson, in una foschia violacea; le oche laccate appese a testa in giù nelle macellerie di Chinatown, con nome e prezzo della merce scritti solo in ideogrammi; il ponte di Brooklyn che si stendeva verso il buio, con gli ultimi raggi del sole a tagliare, quasi orizzontali, i cavi di acciaio, e le macchine che sfrecciavano pochi metri sotto di me.
Ogni tanto mi ricordavo che ero lì per conto dell'università, che avrei dovuto contattare professori, telefonare a centri di ricerca, reperire famiglie italoamericane da intervistare per la mia tesi di dottorato. Ma durava poco: tornavo subito a pensare ai percorsi della giornata, ai frammenti di città raccattati come briciole di Pollicino, e li immaginavo tutti lì in fila, a disegnare la traccia impalpabile del mio passaggio.
Ma se New York apparteneva a qualcuno, apparteneva ai topi.
Erano ovunque, nei condotti delle fogne, nei parchi, tra i cumuli di spazzatura abbandonati sui marciapiedi (a New York non esistono bidoni dell'immondizia), in mezzo ai binari del subway (ratti enormi, neri, pantegane dal pelo ispido e dalla coda simile a una tozza cordicella), oppure li trovavi per strada, dove qualcuno li aveva gettati ancora vivi, invischiati in una trappola appiccicosa, oppure li sentivi squittire al di là di un tramezzo di legno.
L'incontro più ravvicinato lo ebbi negli ultimi giorni della mia permanenza.
Era venuto a trovarmi un gruppo di amici e avevamo prenotato in un alberghetto a poco prezzo nell'Upper West Side, in una traversa fra Central Park West e Amsterdam Avenue. L'albergo (il classico edificio di mattoni rosso cupo, con la facciata zigzagata dalle scale antincendio) si era rivelato peggiore di ogni aspettativa: lo gestivano uno scaltro ragazzo pakistano e una signora incredibilmente obesa, da noi subito ribattezzata “The Blob”, aiutati da un factotum messicano dall'aria losca, che rispondeva al nome di Louie e dormiva in un afoso scantinato puzzolente pieno di lattine di birra, nel quale teneva la radio accesa ventiquattr'ore al giorno.
Appena arrivati, trovammo alla reception due ragazzi francesi imbufaliti, che sventolavano davanti al naso di Blob il cadavere di un sorcetto trovato in camera. La donna emise allora per la prima volta il grido “Louieeee”, che rintronò per i corridoi ed evocò il messicano dal suo scantinato. Quel grido sarebbe diventato il battito di pendola che ritmava le nostre giornate.
In camera, le lenzuola non erano state cambiate e serbavano peli e macchie lasciate dagli inquilini precedenti. Dalle crepe degli infissi potevo vedere la strada (fui costretto a tapparle con carta igienica e nastro adesivo, perché era un inizio di novembre gelido e ventoso) e una notte il mio compagno di camera si svegliò con il termosifone che gli soffiava in piena faccia un getto di vapore rovente. (Chiamammo il messicano, che da quel momento iniziò a odiarci).
Sulla stagnola dei Ritz, lasciati sul comodino la sera prima, avevo trovato piccole incisioni verticali e parallele, che si ripetevano uguali su due o tre biscotti. I denti di un topo avevano scavato quei minuscoli solchi, in silenzio, con metodo e pazienza.
La notte dopo sentii uno scalpiccio, accesi la luce e lo vidi. Era un topino di medie dimensioni, grigio; stava in piedi sulla mia borsa stropicciandosi le zampette anteriori, del tutto simili a mani. Fu una frazione di secondo, poi l'animale schizzò via, si infilò nel ripostiglio e sparì in un buco del muro.
Lo tappammo con giornali bagnati, e il topo non si ripresentò più.
I luoghi riservano sempre qualche sorpresa. Angoli del mio paese, che credevo di conoscere a memoria, si aprono in scorci inaspettati, persino il panorama dalla finestra della mansarda si offre a volte in una luce nuova, sfuggita a quelle ore di contemplazione oziosa, ipnotica che ci si può permettere solo nell'infanzia e nella prima adolescenza.
La sensazione si fa soverchiante nel caso delle grandi città. Roma, ad esempio, dove persino le pietre corrose dai secoli danno l'impressione di essere altrove: gli infiniti occhi che le hanno intraviste, le mani che le hanno sfiorate, i corpi che le hanno urtate sembrano aver creato una concrezione invisibile ma percepibile, simile al velo di polvere solidificata che maschera il vero colore di un oggetto, ormai sepolto, irrimediabile.
Oppure New York.
Le prime due settimane a New York le passai camminando, su e giù per le strade rettilinee di Midtown, o per quelle più aggrovigliate del Financial District che dopo le cinque del pomeriggio si trasformavano in buie tombe silenziose di cemento verticale, e poi dentro i musei percorsi da stormi di scolari che passavano allegri da un diorama all'altro, o in giro per Central Park con i suoi colori già pronti per la pellicola e i suoi scoiattoli dalle code smisurate, o per le strade di Brooklyn dove lingue volti e colori della pelle cambiavano nel giro di due o tre blocks e dove ogni tanto si apriva una prospettiva di magazzini dismessi, che sfociava un luccicante fondale di grattacieli, minuscoli oltre l'East River vasto come un oceano. Oppure su e giù per la metropolitana, il cui funzionamento continuò a sfuggirmi, tenace, fino all'ultimo giorno, facendomi ritrovare non so più quante volte in un punto della città che non sapevo più tracciare, in ritardo per l'appuntamento, in una gimcana micidiale di caldo e di freddo (le due manie nazionali degli americani: l'aria condizionata d'estate e il riscaldamento d'inverno, entrambi ferocemente a manetta).
Con il buio, rientravo nello YMCA dove alloggiavo, a Greenpoint, il quartiere polacco di Brooklyn, dopo la cena in un ristorantino che serviva a prezzi modici cibo in porzioni statunitensi (ossia: formato ippopotamo). Il personale consisteva in un cuoco sudamericano ciarliero e pettegolo, una lentigginosa cameriera sedicenne con la bandiera irlandese e una croce celtica tatuate sul braccio e una signora rinsecchita che, come si usa negli States, veniva a riempirmi il bicchiere d'acqua non appena lo vuotavo.
L'ostello aveva un'aria fatiscente ma la camera era linda, un cubicolo confortevole di pochi metri quadrati dove passai la notte più brutta della mia vita, con la febbre a trentanove e tutto l'organismo in rivolta contro il plumbeo cibo americano (per due giorni mangiai solo tè e biscotti, il terzo entrai in una pasticceria e divorai con voluttà orgasmica due fette di torta alla frutta, e passò tutto).
A letto, mi cullava la musica di carburatori e sirene della polizia che è il rumore di fondo di New York, mentre mi passavano davanti agli occhi tutte le immagini della giornata: la finestrella del bagno che dava su un'ondulazione di tetti catramati e, in fondo in fondo, lo sfavillio bronzeo del Chrysler Building; l'uomo dalle braccia ricoperte di pustole scarlatte, accanto al quale nessuno osava sedersi; il giovane ebreo con la barba lunga, lo zuccotto e il caffetano nero che leggeva un libro intitolato “How to Make Your Spouse Happy”; i prati verdissimi e sconfinati del campus della Columbia University; la donna che a Times Square esponeva fotografie di feti smembrati per protestare contro l'aborto; il profilo struggente della ragazza portoricana che sistemava i libri negli scaffali alla City University; i dodici vertiginosi piani della Bobst Library, simili a un immenso alveare, con i libri tutti a vista in libera consultazione e i ballatoi affacciati sull'altissimo pozzo di luce centrale (chiusi da vetrate, perché pare fosse diventata abitudine dei suicidi servirsene); l'odore di ferro caldo, gomma, polvere e catrame bruciato che domina certi tratti di Broadway e si mescola con i fumi grassi e unti delle bancarelle di cibo a poco prezzo; gli uomini d'affari in giacca e cravatta che mangiavano all'aperto, appollaiati sulle immense scalinate della New York Library; la folla anonima, compatta, che ti proteggeva e non ti faceva mai sentire straniero; i lussuosi condomini dell'Upper East Side, con il tappeto rosso e la tettoia, il portiere in livrea e la hall ricoperta di specchi e ottone; la stazione della metropolitana di Westchester Square, nel Bronx, decorata con mosaici di Romare Bearden, dove un negro colossale aveva saltato il tornello urlando “fuck your mother” al controllore; Wynton Marsalis acciambellato come un gattone su una poltrona nella sala stampa del nuovo Jazz at Lincoln Center appena inaugurato, con la sua smisurata finestra che occupava un'intera parete e strapiombava sui grattacieli di Columbus Circle; un furgone che si apriva e rivelava uno studio legale su quattro ruote; i gabinetti con le porte che non arrivavano a terra, dalle quali spuntavano file di scarpe multicolori; il tizio identico a Eddie Murphy che riceveva all'ingresso del Jazz Standard, abbigliato come un pimp anni '40 con una marsina viola e un Borsalino dalla lunga piuma verde; gli attivisti del Falun Gong impegnati a mimare le torture cui erano sottoposti in Cina; la ragazza che, al tavolo del fast-food, aveva estratto di tasca un fazzoletto, se lo era appoggiato alla bocca ed era scoppiata a piangere in perfetto silenzio, poi lo aveva messo via e aveva ripreso a mangiare; uno spettacolo di marionette contro Bush a Union Square; i commessi che urlavano “next please” non appena il cliente aveva finito di pagare; una panchina con sopra tre gocce di sangue fresco e un preservativo ancora imbustato; la bancarella di libri a Washington Square dove avevo comprato “The Emperor Jones” e l'autobiografia di Armstrong; gli scarafaggi piccoli, sottili, color marrone chiaro, che spuntavano da interstizi invisibili; una scritta sul muro che diceva “it is not an illusion that you can change the world, it is an illusion that you can predict the result”; la città dalla cima dell'Empire State Building, con la crosta appuntita dei grattacieli di Manhattan che all'orizzonte sfumavano nelle case basse del Queen e del Bronx e poi, oltre il fiume Hudson, in una foschia violacea; le oche laccate appese a testa in giù nelle macellerie di Chinatown, con nome e prezzo della merce scritti solo in ideogrammi; il ponte di Brooklyn che si stendeva verso il buio, con gli ultimi raggi del sole a tagliare, quasi orizzontali, i cavi di acciaio, e le macchine che sfrecciavano pochi metri sotto di me.
Ogni tanto mi ricordavo che ero lì per conto dell'università, che avrei dovuto contattare professori, telefonare a centri di ricerca, reperire famiglie italoamericane da intervistare per la mia tesi di dottorato. Ma durava poco: tornavo subito a pensare ai percorsi della giornata, ai frammenti di città raccattati come briciole di Pollicino, e li immaginavo tutti lì in fila, a disegnare la traccia impalpabile del mio passaggio.
Ma se New York apparteneva a qualcuno, apparteneva ai topi.
Erano ovunque, nei condotti delle fogne, nei parchi, tra i cumuli di spazzatura abbandonati sui marciapiedi (a New York non esistono bidoni dell'immondizia), in mezzo ai binari del subway (ratti enormi, neri, pantegane dal pelo ispido e dalla coda simile a una tozza cordicella), oppure li trovavi per strada, dove qualcuno li aveva gettati ancora vivi, invischiati in una trappola appiccicosa, oppure li sentivi squittire al di là di un tramezzo di legno.
L'incontro più ravvicinato lo ebbi negli ultimi giorni della mia permanenza.
Era venuto a trovarmi un gruppo di amici e avevamo prenotato in un alberghetto a poco prezzo nell'Upper West Side, in una traversa fra Central Park West e Amsterdam Avenue. L'albergo (il classico edificio di mattoni rosso cupo, con la facciata zigzagata dalle scale antincendio) si era rivelato peggiore di ogni aspettativa: lo gestivano uno scaltro ragazzo pakistano e una signora incredibilmente obesa, da noi subito ribattezzata “The Blob”, aiutati da un factotum messicano dall'aria losca, che rispondeva al nome di Louie e dormiva in un afoso scantinato puzzolente pieno di lattine di birra, nel quale teneva la radio accesa ventiquattr'ore al giorno.
Appena arrivati, trovammo alla reception due ragazzi francesi imbufaliti, che sventolavano davanti al naso di Blob il cadavere di un sorcetto trovato in camera. La donna emise allora per la prima volta il grido “Louieeee”, che rintronò per i corridoi ed evocò il messicano dal suo scantinato. Quel grido sarebbe diventato il battito di pendola che ritmava le nostre giornate.
In camera, le lenzuola non erano state cambiate e serbavano peli e macchie lasciate dagli inquilini precedenti. Dalle crepe degli infissi potevo vedere la strada (fui costretto a tapparle con carta igienica e nastro adesivo, perché era un inizio di novembre gelido e ventoso) e una notte il mio compagno di camera si svegliò con il termosifone che gli soffiava in piena faccia un getto di vapore rovente. (Chiamammo il messicano, che da quel momento iniziò a odiarci).
Sulla stagnola dei Ritz, lasciati sul comodino la sera prima, avevo trovato piccole incisioni verticali e parallele, che si ripetevano uguali su due o tre biscotti. I denti di un topo avevano scavato quei minuscoli solchi, in silenzio, con metodo e pazienza.
La notte dopo sentii uno scalpiccio, accesi la luce e lo vidi. Era un topino di medie dimensioni, grigio; stava in piedi sulla mia borsa stropicciandosi le zampette anteriori, del tutto simili a mani. Fu una frazione di secondo, poi l'animale schizzò via, si infilò nel ripostiglio e sparì in un buco del muro.
Lo tappammo con giornali bagnati, e il topo non si ripresentò più.
venerdì 16 gennaio 2009
la nostra civiltà è al punto di non ritorno
"Mussolini scrisse anche poesie: / i poeti, che brutte creature, / ogni volta che parlano, è una truffa".
(F. De Gregori, "Le storie di ieri")
Cliccare per credere.
epitaffio
giovedì 15 gennaio 2009
promesse (2)
E ora torniamo a occuparci di jazz. E di letteratura, arte, fumetto, eccetera eccetera.
Giurin giurello.
Giurin giurello.
promesse
Lo so, lo so.
In uno dei miei primi post, avevo promesso di non occuparmi di politica.
E avevo già violato la promessa, qui.
Ma, come ho già detto, certe volte si tratta di sopravvivenza. Di dignità.
In uno dei miei primi post, avevo promesso di non occuparmi di politica.
E avevo già violato la promessa, qui.
Ma, come ho già detto, certe volte si tratta di sopravvivenza. Di dignità.
a voi che cosa fa venire in mente?
mercoledì 14 gennaio 2009
shministim: obiezione di coscienza in israele
Alcuni studenti israeliani sono stati incarcerati per essersi rifiutati di partecipare alle azioni militari contro i civili di Gaza.
C'è una raccolta di firme a loro favore: questo è il link.
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recensioni in pillole 3: "La mia vita disegnata male"
Gipi (Gianni Pacinotti), “La mia vita disegnata male”, Fusi Orari/Coconino Press, 2008
“...ero ancora (quasi) un adolescente. La forma di vita più inutile e malvagia che si possa immaginare, se si esclude un gremlin bagnato”.
Lo sappiamo tutti che l'adolescenza è uno schifo. E sappiamo tutti che poi quello schifo ci sembra un paradiso. E la terza cosa che sappiamo tutti è che chi cerca di raccontare quello schifo nove volte su dieci produce uno schifo anche peggiore.
Questa, secondo me, è la ragione principale per cui Gipi è un genio.
Perché in questo “romanzo disegnato” riesce a raccontare un'adolescenza (e che adolescenza: droghe, autolesionismo, ribellioni senza causa, periferie, amici fatti dondolare sui falò e poi lasciati cadere dentro senza un perché, tentativi di suicidio finiti in lanci di bouquet, dieci giorni in galera), mescolandola con deliri, sedute psicoanalitiche, sogni, traumi infantili, orsi che dicono “cazzo”, tentati sturpi, problemi di erezione, visite mediche, storie di pirati, producendo alla fine un'opera di pura poesia.
E se dico “poesia”, la parola non esclude affatto la comicità. Anzi, LMVDM è un libro in cui si ride spesso, e di gusto, anzi, si ride proprio dove il racconto sembrerebbe più tragico (del resto, lo dice lui stesso: “delle tragedie si dovrebbe ridere sempre”).
Gipi si racconta senza il minimo pudore, con toscana, puntuta brutalità.
Disegna “male”, probabilmente, eppure conosco fior di disegnatori che darebbero un braccio per “disegnare male” così, con quel tratto aggrovigliato, nervoso, che a volte diventa leggero come una brezza a volte sembra voler incidere il foglio fino a lacerarlo. I suoi panorami di periferia sono tra le cose più struggenti che mi sia mai capitato di vedere, e i suoi acquerelli sono semplicemente magistrali. I suoi volti, poi, e i suoi corpi: pigri, pieni di spunzoni e di parti molli.
Per inciso, il suo “Appunti per una storia di guerra”, uscito per Rizzoli un paio d'anni fa, è uno dei più bei romanzi italiani di questo decennio che sta per finire.
A proposito, Gipi sta diventando famoso. Negli Stati Uniti l'hanno osannato come “uno dei più grandi autori europei di graphic novels”. È andato persino in TV, e con la sua spigolosa simpatia pisana ha fatto un figurone. Ma non si prostituirà mai al successo, è troppo dolorosamente onesto.
L'ho già detto che è un genio?
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martedì 13 gennaio 2009
il jazz e l'evoluzione lineare
Da un'intervista a Joshua Redman di qualche anno fa:
I've never believed in treating music as a linear evolution. You can tell that story of jazz up to a point. You can say, "the beboppers advanced harmonically and rhythmically on the music of the swing era. After that modality started to break down some of those innovations..." You can string together a historical evolution of jazz up to a point. But past the point of what people like to call "free jazz," where jazz musicians did away with predetermined harmonic and rhythmic structures, after that point where do you go? You can't necessarily make a case for whatever comes after that as being a linear advance. Once you've broken down all the barriers, what more can you break down? But that's not to say that innovation can't continue. It's just that you can't see that innovation in the same linear terms. You may have to see it in more post-modern terms. And I don't want to go too far into explaining that. In a certain sense, you can say that the boundaries have been charted, but there's so much space in between that can be developed. We can take elements of so many things that have been hinted at and synthesize them to create an original voice and do something innovative. I don't see jazz in linear terms, which I think a lot of critics and writers have done. If you do see jazz in those terms, you're forced to make the case that nothing new has happened in jazz since the late sixties. But if you see jazz as an expanding sphere, then you can make a case for jazz continuing to be innovative. In my opinion, if you look at rock and roll in linear terms, then you can't talk about rock and roll being innovative past the early seventies. But, I think that there are a lot of innovative bands out there, even though they're borrowing from things that happened twenty years ago".
lunedì 12 gennaio 2009
domenica 11 gennaio 2009
ancora sulla guerra
Achille agli Inferi
Ammazzare è un lavoro da bestie. Lo so bene
io. Chi mi acceca in un gesto perfetto
non sa lo schifo del sangue, lo schianto delle costole,
l’affondo delle viscere.
Ero io che macellavo.
Uno ne ricordo ancora, l’inguine giovane e liscio
non l’ho ucciso bene
la morte trascorreva sul suo corpo come una carezza oscena.
A casa di mio padre
ho lasciato apposta una cicatrice sull’olivo più vecchio
ho sepolto un ciondolo sotto il muro dell’orto.
In questa pianura senza stagioni
a volte i ricordi mi assalgono come cagne infoiate.
la guerra e gli occhi
Ho già pubblicato in un post una foto di Vittorio Arrigoni. Bambini palestinesi morti, composti nei loro sudari, senza più tracce di violenza (c'è solo un po' di sangue sull'estrema destra, quasi fuori campo).
Sul suo blog ce ne sono molte altre. Bambini feriti in braccio a padri in corsa. Bambini urlanti sotto rivoli di sangue. Cadaveri di bambini bianchi di polvere, o con il viso ridotto a una poltiglia nera. Volti di bambini che emergono da sacchi di cellophane. Un bambino dagli occhi aperti e malinconici, con due fori di pallottola sul petto, e dietro di lui un muro di facce impietrite.
Sono foto che si trovano anche in giro su internet, ad esempio qui, o qui.
Io non voglio riprodurle.
In ognuno di quei bambini rivedo mia figlia, e il solo pensiero mi provoca spasmi sulla nuca, conati di vomito. Non riesco a ragionare, il mio corpo prende il sopravvento e tenta di fuggire.
Eppure bisogna pensare, e le domande sarebbero tante.
Ad esempio: quanto è morale riprodurre fotografie del genere, sia pure per il più nobile degli scopi? E' lecito fare di quei corpi il manifesto sul quale scrivere le proprie convinzioni politiche? E il dolore, il dolore delle famiglie, renderlo pubblico, metterlo in circolazione? Non posso fare a meno di figurarmi quelle immagini che viaggiano sulla rete, accanto a miliardi di altri dati, quotazioni azionarie, previsioni del tempo, barzellette, fiche spalancate, file musicali, virus informatici.
Penso che basta un frammento vagante di metallo a scompaginare un volto e a ridurlo a un ammasso di elementi istologici. Quello che prima era un fascio di energia viva ora è materia.
E' strano per uno che non crede, ma l'unica parola che mi viene in mente è "sacrilegio".
E penso anche che questa è la guerra, in ultima analisi: una perdita di pudore. Ciò che c'è di più privato, il nostro corpo, diventa pubblico.
Cos'è più giusto, guardare (e profanare), oppure girare gli occhi?
vecchia poesia
SOTTO NEW YORK
si dice, c’è la città dei topi.
Io avevo trovato un ingresso
sulla 76esima West, nel muro del ripostiglio.
Dell’ospite ho visto le mani
(una volta) e l’orma dei denti sul biscotto.
Era uno dal sangue veloce
io dormivo radente alle sirene
lui limava la notte attorno alle lenzuola.
Finì che gli otturai la tana
non c’era dialogo possibile
tra la sua fame e la mia.
sabato 10 gennaio 2009
guerra infinita e pacifismi a senso unico
Su quello che sta succedendo a Gaza ne ho lette tante, in questi giorni, ma questo breve editoriale di Vincenzo Sparagna (sì, proprio lui, il direttore del mitico "Frigidaire", quello di Pazienza, Scozzari, Tamburini, Liberatore...) mi sembra una delle più interessanti (questa è la fonte).
Guerra infinita… non se ne può più
di Vincenzo Sparagna
Nella tormentata Palestina la guerra non finisce mai. Il criminale lancio dei missili contro le città israeliane da parte di Hamas, la reazione “sproporzionata” di Israele: tutto sembra scritto in un copione ciclico e perverso che non prevede vie d’uscita.
Il problema dei problemi è che per gli israeliani si tratta in ultima istanza di conservare in vita lo stato d’Israele. Mentre i palestinesi sono divisi tra due strategie, assolutamente divergenti.
La prima, perseguita dall’attuale Autorità Nazionale Palestinese, è ottenere la formazione di due stati indipendenti, uno palestinese (sui territori della attuale Cisgiordania-ex Giordania e della striscia di Gaza-ex Egitto) e uno ebraico, Israele, entro i confini del 1967. La seconda, quella di Hamas a sud e degli Hezbollah sciiti a nord, ritiene invece irrinunciabile la distruzione dello Stato di Israele e la creazione di una Palestina unica, magari governata dalla legge islamica.
Per questa seconda posizione qualunque accordo è solo una tregua in una guerra inestinguibile che si concluderà solo con la distruzione di Israele.
Da ciò la tragedia che continua a consumarsi. Hamas non può rinunciare alla guerra, esiste per questo. Israele non può farsi bombardare senza reagire.
I missili di Hamas, va detto, sono sempre diretti esplicitamente contro la popolazione civile israeliana. I bombardamenti israeliani sono invece in teoria solo contro le “postazioni di Hamas”, ma inevitabilmente colpiscono e uccidono anche i civili che gli stanno intorno. E così i morti innocenti si moltiplicano senza fine…
La cosa più assurda è che sia in Israele, dove nell’imminenza delle elezioni tutti i partiti (da destra a sinistra) sono favorevoli all’offensiva contro Hamas, sia tra le file di Hamas, che punta ad un’estensione panaraba del conflitto, la guerra è ben vista.
Ma più assurdo ancora, anzi sinistramente grottesco, è l’atteggiamento di gran parte della sinistra italiana extraparlamentare o ex parlamentare, schierata ciecamente “dalla parte dei palestinesi”.
Per costoro le colpe sono di Israele, che non vuole trattare con Hamas… Non importa che Hamas non abbia alcuna intenzione di trattare con Israele, di cui non riconosce l’esistenza, come i suoi sostenitori ed armaioli, la Siria, l’Iran e altri paesi arabi.
Come trattare con chi non vuol trattare “per principio”? A questa banale domanda nessuno risponde. Certo gridare “pace subito” è sempre giusto. Ma che senso ha dirlo a una parte sola, Israele, mentre l’altra parte, Hamas, lancia missili e proclami di guerra totale? Meglio sarebbe invitare arabi e palestinesi ad accettare una volta per tutte l’esistenza di Israele e chiedere di fermare il lancio di missili e gli attentati suicidi contro i civili ebrei. Che è anche l’unica via per battere la destra oltranzista israeliana, che, con Hamas, gli Hezbollah, la Siria e l’Iran in guerra, ha buon gioco a sostenere che l’unico linguaggio che questi jihadisti capiscono è il rombo dei cannoni.
Ma ancor meglio sarebbe, per chi volesse essere davvero di sinistra, preoccuparsi – in un autentico spirito internazionalista e proletario come si diceva una volta - della solitudine politica delle popolazioni palestinesi, mantenute volutamente da decenni in condizioni di spaventosa marginalità dalle elite miliardarie che governano tanti paesi arabi (Egitto, Giordania, Siria, Iran ecc.), e dirette da gruppi o fanatici (Hamas) o corrotti (Al-Fatah), che ingoiano gli aiuti internazionali per acquistare armi e o semplicemente per rapine private (qualcuno ricorda i molti miliardi di dollari rubati da Arafat e lasciati in eredità privata alla moglie dopo la morte?).
Ma va di moda la kefiah, e, in sotterranea, c’è pur sempre l’antisemitismo che avvelena ogni giudizio… Qualcuno addirittura pensa che i “nazi-musulmani” di Hamas siano “compagni”.
Perciò si agitano le bandiere palestinesi e si bruciano quelle israeliane…si fa il tifo… come a una partita di calcio. Naturalmente dalla tribuna, senza rischiare niente, perché qui i missili non arrivano e i morti si vedono, almeno per ora…, solo in televisione.
venerdì 9 gennaio 2009
1973 in jazz (per Antonio)
Grande annata per il rock, il 1973, scrive giustamente Antonio.
E allora mi sono chiesto che cosa stava succedendo nel frattempo nel jazz.
Intanto, c'era un bel po' di movimento in Europa, e in particolare in casa ECM. In quell'anno Jan Garbarek e Bobo Stenson pubblicavano “Witchi-Tai-To”, una delle pietre miliari del jazz europeo, Dave Holland faceva uscire lo splendido “Conference of the Birds” (disco da isola deserta, non fosse altro che per l'opportunità irripetibile di ascoltare, fianco a fianco, due maestri come Sam Rivers e Anthony Braxton) e di Keith Jarrett vedeva la luce “Solo concerts: Bremen/Lausanne”, uno dei suoi capolavori in piano solo, molto più del battutissimo “Koln Concert” di due anni dopo.
Sulla scena free, la Globe Unity Orchestra, fondata e diretta da Alexander von Schlippenbach, apriva nuove strade per l'improvvisazione radicale con “Live in Wuppertal” (FMP) e Giorgio Gaslini coniugava jazz e impegno civile con “Fabbrica occupata” (P.A.).
In Gran Bretagna, intanto, un manipolo di jazzisti sudafricani in esilio dall'apartheid univa le forze con i migliori musicisti inglesi (Chris McGregor's Brotherhood of Breath, “Travelling Somewhere”, Cuneiform).
In Italia, c'era chi soffriva malinconie negre (Perigeo, “Abbiamo tutti un blues da piangere”, RCA ) e chi cominciava sotto un segno provocatorio un cammino breve ma folgorante (Area, “Arbeit Macht Frei”, Cramps).
Dall'altra parte dell'oceano, l'Art Ensemble of Chicago intonava canti di battaglia con “Fanfare for the Warriors” (Koch), Sun Ra ribadiva che il suo posto non era su questo pianeta (“Space Is The Place”, Blue Thumb), Herbie Hancock dirigeva la bussola in un punto imprecisato tra l'Africa e il jazz con “Sextant” (Columbia) e subito dopo andava a caccia di trofei con le armi funk elettrificate degli “Headhunters” (Columbia). John McLaughlin faceva levare in un volo fiammeggiante la sua Mahavishnu Orchestra (“Birds of Fire”, Columbia), i Return To Forever di Chick Corea abbandonavano le soavi tinte brasiliane dei dischi precedenti per innalzare un fragoroso inno cosmico (“Hymn of the Seventh Galaxy”, Polydor), Gato Barbieri immergeva il jazz in un brodo primordiale panamericano (“Chapter One: Latin America”, Impulse!).
C'era voglia di sperimentare, ricerca costante del nuovo, assoluta indifferenza verso tutte le barriere tra generi e stili. Averne oggi, di musicisti così.
Sul jazz anni '70 sono in arrivo aggiornamenti. Stay tuned.
mercoledì 7 gennaio 2009
tutto quel che i poeti possono fare
Lontano lontano si fanno la guerra.
Il sangue degli altri si sparge per terra.
Io questa mattina mi sono ferito
a un gambo di rosa, pungendomi un dito.
Succhiando quel dito, pensavo alla guerra.
Oh povera gente, che triste è la terra!
Non posso giovare, non posso parlare,
non posso partire per cielo e per mare.
E se anche potessi, o genti indifese,
ho l'arabo nullo! Ho scarso l'inglese!
Potrei sotto il capo dei corpi riversi
posare un mio fitto volume di versi?
Non credo. Cessiamo la mesta ironia.
Mettiamo una maglia, che il sole va via.
(Franco Fortini)
La poesia è in "Composita solvantur" (Einaudi 1994), l'estremo testamento poetico di Fortini. All'epoca c'era la Guerra del Golfo (la prima). Oggi ci sono i bambini morti a Gaza. Le road maps, i trattati, gli appelli alla pace continuano ad accumularsi. La disperazione, l'orrore sono gli stessi, l'impotenza pure.
Pensavo di parlare di jazz, ma scusate, proprio non ce la faccio.
Pensavo di parlare di jazz, ma scusate, proprio non ce la faccio.
lunedì 5 gennaio 2009
non si fa filosofia con la pancia vuota
India, poveri bruciano libri per difendersi dal gelo, 55 morti
PATNA, India (Reuters) - Almeno 55 persone sono morte negli ultimi quattro giorni nel nord e nell'est dell'India a causa dell'ondata di freddo che si è abbattuta nella regione.
Lo hanno riferito oggi alcuni funzionari.
Nello stato settentrionale dell'Uttar Pradesh, 24 persone hanno perso la vita a causa del gelo nelle aree rurali, come riferito dai funzionari di Lucknow, capitale dello stato, mentre le autorità dell'adiacente stato di Bihar hanno detto di aver ricevuto notizia di 31 decessi negli ultimi quattro giorni.
Secondo quanto ha riferito la polizia, un gruppo di insegnanti ha utilizzato, per accendere un falò, i libri destinati ai bambini poveri del misero stato di Gaya.
"(Gli insegnanti) hanno bruciato circa 500 libri impacchettati in due sacchi per mantenersi al caldo", ha detto Hansnath Singh, un alto funzionario di polizia.
La nebbia densa in gran parte dell'India ha già compromesso il servizio aereo e ferroviario, e le persone senza fissa dimora vengono viste riunirsi intorno ai falò dopo il crepuscolo, nella capitale New Delhi e in altre grandi città.
domenica 4 gennaio 2009
dalla camera accanto: photoshoperò #9
Vedi amico
anche ora che è quasi sera
e senza cena
impasto l’ora a venire
che mi pare d’annegare
in un mare di debiti e miseria
non sono più povero
di tutto l’oro del mondo
solo perchè so per certo
il suo ritorno
e dalla striscia gialla
che impedisce il salto
di superare incognito
ed il suo dolore.
Francesco Forlani
(da Nazione Indiana)
riprendere a scrivere, dopo tanto
sabato 3 gennaio 2009
recensioni in pillole 2: "I ragazzi di Anansi"
Neil Gaiman, I ragazzi di Anansi (Mondadori, 2005, 9 €) (edizione originale: Anansi Boys, 2003).
Charlie Nancy, detto "Ciccio Charlie", è la persona più qualunque del mondo: timido, imbranato, patologicamente insicuro. Più di ogni altra cosa, Charlie teme l'imbarazzo, e per questo è scappato dalla natia Florida e si è trovato un grigio lavoro da contabile a Londra. Perché in Florida vive suo padre, la persona più imbarazzante che possa esistere: scioperato, impenitente dongiovanni, bugiardo, terribile burlone. Proprio lui ha appioppato al figlio il nomignolo di "Ciccio" che da allora in poi lo perseguita.
All'inizio del romanzo, Charlie apprende che il padre è morto (in maniera imbarazzante: mentre si esibiva in un karaoke, gli è venuto un infarto ed è cascato dritto nella scollatura di una prosperosa turista che aveva appena rimorchiato).
Ma soprattutto apprende due altre cose: la prima è che il padre non era un essere umano, ma l'incarnazione di un dio. Nella fattispecie, di Anansi, il dio-ragno della tradizione africana, il dio fanfarone, dissacratore, contaballe, padrone di tutte le storie e di tutte le menzogne.
La seconda - e peggiore - rivelazione è che Charlie ha un fratello di nome Spider. "Peggiore", perché Spider si rivela la fotocopia peggiorata del padre; piomba in casa di Charlie e gli sconvolge la vita: lo fa ubriacare, gli mette contro il cinico capoufficio che per vendetta lo accusa di frode fiscale, si porta a letto la sua ragazza e praticamente lo sfratta.
Incapace di scacciare il malefico fratello, Charlie cerca l'aiuto di una cricca di vecchiette esperte di voodoo, che lo spediscono a fare un patto con l'enigmatica Donna-Uccello. Ma il rimedio sarà peggiore del male, e su tutta la vicenda si stende, sempre più minacciosa, un'ombra felina.
La soluzione arriverà grazie a una fidanzata in crisi, a una tremenda suocera, a una bella poliziotta, a una donna fantasma e a un'isola tropicale.
Neil Gaiman è lo sceneggiatore di Sandman, uno dei fumetti più geniali degli ultimi vent'anni. Il tema della commistione tra mito e vita quotidiana c'era in Sandman e c'era anche nel precedente (e fortunatissimo) romanzo di Gaiman, "American Gods".
“I ragazzi di Anansi” è una delle letture più originali degli ultimi tempi: un mix riuscitissimo di ironia, comicità, fantasia e horror. Era da tempo che non mi divertivo tanto con un libro. E sia chiaro che la parola "divertirsi" ha una forte connessione con la parola "intelligenza".
rita e il fucile
Fra Rita e i miei occhi
si leva un fucile.
Quelli che conoscono Rita,
s'inchinano e pregano
i suoi occhi di miele divino.
Ho baciato Rita bambina,
lei si è stretta a me, lo ricordo…
I suoi capelli mi coprivano il braccio.
Ricordo Rita
come l'uccello ricorda la sua fontana.
Oh, Rita!
Un milione di immagini
un milione di uccelli
un milione di appuntamenti
sono stati assassinati da un fucile.
Il nome di Rita, festa per le mie labbra.
Il corpo di Rita, nozze per il mio sangue.
Per due anni, mi sono perduto in lei.
Per due anni lei si è distesa sul mio braccio,
uniti nel fuoco delle nostre labbra,
siamo resuscitati per due volte.
Oh, Rita!
Chi avrebbe potuto sciogliere i nostri sguardi,
prima che si levasse un fucile?
Oh, notte di silenzio!
C'era una volta…
Una luna è calata all'alba…
Lontano, in occhi di miele
e la città ha cancellato Rita e le canzoni…
Fra Rita e i miei occhi,
si leva un fucile.
Mahmoud Darwish (1941-2008)
bello! bello... bello?
venerdì 2 gennaio 2009
recensioni in pillole 1: "Il generale Della Rovere"
Comincio qui una serie di post in cui recensirò quello che via via leggo.
Mi sono dato un limite massimo: 2500 battute. Vedremo se riuscirò a rispettarlo.
Indro Montanelli, Il generale Della Rovere (1959)
Vivere da cialtrone, morire da eroe. Così si potrebbe riassumere la vita di Giovanni Bertone, come la racconta Montanelli in questo libro.
Avventuriero, giocatore d'azzardo, abituato a vivere di piccole truffe, Bertone viene ingaggiato dai tedeschi per impersonare Fortebraccio Della Rovere, alto graduato dell'esercito badogliano arrestato mentre cercava di prendere contatti con la Resistenza. In realtà il vero Della Rovere è stato ucciso, ma il comando tedesco spera che il falso generale saprà conquistarsi la fiducia dei compagni di prigionia, per poi fare da delatore.
E Bertone ci riesce, fin troppo bene: il personaggio di Della Rovere finisce per prendere il sopravvento su di lui. L'ammirazione tributatagli dai compagni e il loro coraggio nel sopportare la prigionia e le torture fanno breccia nella scorza cinica del truffatore, che alla fine, sconvolto dal suicidio di un prigioniero che si taglia le vene pur di non parlare, decide di affrontare la sua sorte fino in fondo. Finirà fucilato e saprà affrontare la morte con dignità.
Montanelli aveva conosciuto il falso generale Della Rovere nel 1944, durante la sua prigionia a San Vittore, ma decide di darne un resoconto romanzato, tradendo in molti punti la verità storica (ad esempio, il vero nome era Bertoni e pare che non fosse affatto idolatrato dai compagni, che anzi lo smascherarono presto come spia).
La misura del racconto lungo – un centinaio di pagine – è affrontata con esemplare equilibrio. Lo stile è asciutto, la narrazione si concentra sulla crisi di coscienza di Bertone, i personaggi secondari sono tratteggiati con tocchi rapidi ed efficaci, evitando le cadute nel macchiettismo.
Montanelli non lo dice mai, ma la storia di Bertone finisce per risultare emblematica della sorte di tanti italiani che furono capaci di non piegare la testa davanti alla barbarie nazifascista, di riscattare con una morte eroica un ventennio di acquiescenza.
Dalla stessa vicenda fu tratto il film omonimo di Rossellini (1959), con Vittorio De Sica protagonista. Montanelli partecipò alla sceneggiatura insieme a Rossellini e a Sergio Amidei, anche se poi si dissociò dal film che giudicò troppo viziato politicamente. Libro e film furono oggetto di numerose polemiche per le presunte distorsioni della realtà.
Montanelli dichiarò che "il libro è una storia, non una pagina di Storia".
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Un articolo mio sul Giornale della Musica di questo mese: "Donne e deliri, purché (non) sia vero".
Parlo delle autobiografie di jazzisti, di come i musicisti hanno raccontato la propria vita e si sono confrontati con il proprio mito.
Purtroppo sull'edizione online l'articolo non c'è, quindi chi sentisse il morboso desiderio di conoscere i miei pensieri sull'argomento dovrà rassegnarsi a sacrificare quattro euri.
Come bonus, c'è anche qualche recensione di recenti uscite discografiche.
dire l'indicibile
In-fanzia (età del non parlare)
Spaventata le sta succedendo
d'avanzare giorno per giorno indietro nel tempo
adulta sta toccando il traguardo
di un letto a forma di culla
dal basso vi guarda le ombre
giganti passate muovete le labbra le bocche
lei non comprende la lingua
spaventata vi guarda che andate di là
piange vi vuole lì accanto
toccarvi mettervi in bocca
incantata vi guarda dal basso le ombre le bocche
vuole scoprire decifrare la lingua
vi chinate le date un gioco di gomma
andate di là lei non riesce a parlare
nel silenzio la sentite fare piccoli versi
tentare
Vivian Lamarque
giovedì 1 gennaio 2009
fotogrammi del 2008
Mia figlia che comincia a camminare, sorridere, ridere, parlare, giocare.
Il crollo delle borse, il sollievo per non aver acceso mutui quando ho comprato casa.
Il disastroso ingresso di un hacker nella mia casella e-mail e nel mio account di eBay.
Il diesel allo stesso prezzo della benzina.
Berlusconi di nuovo al potere.
Bombe a Istambul, terroristi suicidi in India, bombardamenti sui civili a Gaza, guerra in Congo, guerra in Georgia, epidemia di colera in Zimbabwe, monaci tibetani uccisi da soldati cinesi, studenti greci massacrati da poliziotti greci, un politico italiano che incita a pestare gli studenti, terremoto in Cina, ciclone in Birmania; altri massacri di minore entità qua e là per il pianeta.
Una mattinata a casa di Ramberto Ciammarughi, ad Assisi, a parlare di musica, letteratura, cinema, filosofia.
Una collega di mia moglie che commenta il terremoto in Cina affermando allegra che “almeno ci han tolto dalle palle un po' di quei cinesi di merda”.
Il suicidio della Sinistra italiana.
A passeggio per Amsterdam, prendo un vicolo e sbuco nel bel mezzo del quartiere a luci rosse: una piazza circolare, con al centro una chiesa e tutto intorno le vetrine con le prostitute. Fanno guizzare la lingua tra le labbra fosforescenti, agitano i culi nei tanga, strofinano l'inguine contro il vetro. Ce n'è una sui trent'anni, slanciata, con i capelli biondi e la pelle da slava. Siede su uno sgabello alto, con le gambe accavallate e le mani giunte in grembo, indossa una vestaglia di pizzo, biancheria candida, zatteroni e degli occhialini da professoressa. Per un attimo, mi guarda seria, come una segretaria che accoglie un cliente di riguardo.
Il primo nero alla Casa Bianca.
Elena al mare che si guarda le mani sporche di sabbia e ride.
Il graduale e parziale spegnimento della mia furia anticlericale.
La rottura dell'ultimo legame con la generazione precedente a quella dei miei genitori; e anche degli ultimi lacci che mi legavano alla Puglia.
Parlare a un convegno di linguistica, a Malta, con 38 di febbre, il pavimento che balla sotto i piedi e un alveare pieno di vespe incazzate proprio dietro la fronte.
Bilancio delle poesie scritte: tre. Due a gennaio, una a maggio.
In piscina con mia figlia di sei mesi. Massaggiarla con olio profumato dopo il bagnetto.Vederla calmarsi, sorridere, poi addormentarsi.
Il Francis Scott Key Bridge a Georgetown, Washington D.C., alle sette del mattino, con il sole che sorgeva sul Potomac.
Appresa in ritardo, la morte di Claudio Capone. Chi era Claudio Capone? La voce di Quark: questa, per intenderci. Talmente “voce” che quando l'ho visto di persona sembrava doppiato da se stesso. Quasi un amico, anche se non l'avevo mai conosciuto.
Anno estroiettivo.
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