giovedì 29 gennaio 2009

recensioni in pillole 5: "L'arte imperfetta"


Ted Gioia, "L'arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea", Excelsior 1881, 2007

Meglio tardi che mai.
"The Imperfect Art" fu pubblicato in America nel 1988 e contribuì a fare del ventinovenne Ted Gioia, all'epoca consulente aziendale, una delle firme più richieste della critica e della musicologia jazzistica. Questa traduzione è del 2007: ci sono voluti vent'anni, ma ne valeva la pena.
Il primo pregio del libro è lo stile, che è poi quello tipico di molta saggistica anglosassone: diretto, privo di tecnicismi, spesso anche spiritoso (persino troppo spiritoso, per le nostre orecchie abituate all'italica ampollosità). Gioia riesce ad affrontare temi seri e pesanti in maniera ironica e leggera, e per quanto mi riguarda non è certo un male.
Il secondo pregio è il contenuto del libro: sette agili saggi che affrontano il jazz in maniera sempre obliqua e sorprendente. Bastano alcuni titoli, a mo' di esempio: "Louis Armstrong e la musica d'arredamento", "Il jazz e il mito primitivista", "Cosa c'entra il jazz con l'estetica?", "Noia e jazz".
Nonostante la varietà dei temi e l'abbondanza di aneddoti e di osservazioni argute, il nocciolo teorico che Gioia propone è ben solido: come situare il jazz all'interno della cultura (musicale, ma anche più ampiamente filosofica) del mondo contemporaneo?
Le domande che scaturiscono sono spesso provocatorie: perché, in un secolo che ha visto una crescente spersonalizzazione e tecnicizzazione dell'arte, il jazz insiste nel celebrare l'individualità? come mai i primi critici esaltavano tanto la "spontaneità" del jazz? è possibile, legittimo paragonare la melodia improvvisata da un jazzista in una frazione di secondo con quella su cui un compositore classico ha sudato per giorni, mesi, anni? come giudicare una musica in cui la relazione tra artista e pubblico ha un peso uguale, se non maggiore, rispetto alla compiutezza formale? è lecito per un critico dire che si è annoiato?
Le risposte sono altrettanto, se non più provocatorie, e lascio al lettore il piacere di scoprirle. (Certo, dopo vent'anni molte osservazioni non sono più così nuove, ma accontentiamoci).
In cauda venenum: la traduzione. Certe sciatterie stilistiche potrebbero anche passare, ma quando si legge del batterista Jenny Clarke, o di Lester Young che suona "Show Shine Boy", o si vede beat tradotto con "battuta" (anziché con "movimento") e changes con "cambi" (e non con "accordi" o "giro armonico"), un saltino sulla sedia è quasi inevitabile.

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