martedì 27 gennaio 2009

action playing


"Un giorno d'estate del 1947 il pittore Jackson Pollock fece una cosa estremamente coraggiosa. Stese una tela sul pavimento del fienile che usava come studio, mise da parte pennello e tavolozza e iniziò a versare della vernice da imbianchino sulla tela. Girava per il fienile versando vernice da ogni lato. Di tanto in tanto si fermava, incerto su come continuare, e appendeva la tela nel fienile per qualche giorno in attesa dell'ispirazione per terminarla. Questo allontanamento radicale dalle tecniche accettate avrebbe finito per diventare una tecnica diffusa, ma all'epoca Pollock non era affatto sicuro delal qualità di ciò che aveva fatto. A preoccuparlo non era però la validità dei suoi nuovi quadri: quello era un problema secondario. C'era un'altra questione, più fondamentale, a turbarlo. Lee Krasner, moglie di Pollock e artista a sua volta, ricorda: "Jackson mi prendeva per un braccio, mi scuoteva e mi chiedeva: 'Ma questa è pittura? Non dico se è bello o brutto... ma è pittura?' ".
Con il senno di poi possiamo dire che il dilemma di Pollock non nasceva dalla materialità delle opere. A ossessionarlo era piuttosto un problema recondito. La questione che veniva posta dal suo lavoro, una questione forse altrettanto rilevante ai giorni nostri, riguardava l'importanza relativa dell'atto artistico rispetto all'opera prodotta. L'essenza dell'espressionismo astratto di Polock sta nell'enfasi posta sul primo termine a spese del secondo. I suoi lavori celebravano l'atto del dipingere, la sensazione viscerale di gettare i colori sulla tela. La visione che si aveva dell'attività che le aveva prodotte. Per apprezzarle non erano necessari né una sensibilità critica né del buongusto, almeno non all'inizio, ma qualcosa di più fondamentale: un'idea di cosa fosse l'arte.
L'espressionismo astratto e il jazz degli anni Cinquanta avevano un pubblico di riferimento comune, e da questo punto di vista non è difficile comprenderne il motivo. Gli hipster che visitavano le gallerie e frequentavano i jazz club erano - che se ne rendessero conto o no - i testimoni di qualcosa di simile in quei due ambienti apparentemente diversi. Era una somiglianza non di materiali o di stile, ma di filosofia. La peculiarità del jazz, come la rivoluzione di Pollock del 1947, dipendeva non tanto dalla sua esistenza come diverso tipo d'arte, quanto dal fatto che incarnava un atteggiamento del tutto differente nei confronti dell'arte medesima. Richiedeva un corpus nuovo di postulati estetici rispetto a una scultura di Bernini o a un quartetto d'archi di Mozart. La domanda sollevata dal jazz e dall'espressionismo astratto era la stessa: come si giudica un'arte che attribuisce più importanza alla performance che all'arte? La pittura non è tipicamente considerata un'arte della performance, ma l'approccio rivoluzionario di Pollock poteva essere compreso solo in questo contesto: le sue opere cercavano di catturare l'energia e la vitalità presenti nel momento della loro creazione. Da questo punto di vista erano estremamente simili al jazz, e benché il jazz non sia mai stato controverso quanto il lavoro di Pollock, anch'esso si deve giustificare rispetto alla critica che sostiene che il suo prodotto finale non è autosufficiente, non è separato alle forze che lo hanno creato, come accadrebbe invece per le grandi opere d'arte.
Per il jazz le implicazioni di una critica siffatta sono piuttosto profonde. [...] Se vediamo l'arte non come una classe di oggetti perfezionati ma come l'ambito più avanzato dell'espressione creativa umana, allora il jazz è quasi unico nella sua capacità di convogliare quell'esperienza non adulterata da intermediari che in altre discipline separano l'artista dall'arte."
da: Ted Gioia, "L'arte imperfetta. Il jazz e la cultura contemporanea"
(Excelsior 1881, 2007, pp. 140-142)

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