Qualche tempo fa, mentre perdevo tempo su FaceBook, mi è caduto l'occhio sulla lista dei miei "amici" e ho visto che erano 101.
Ora, è inutile dire che io non ho 101 amici, e che probabilmente nemmeno conosco 101 persone. Insomma, si sa che FB funziona così. Ti mette in rete. Come i tonni nella tonnara.
Però mi è risorto il furor mathematicus che ogni tanto mi prende e che probabilmente è una lontana eredità dei miei cinque anni di liceo scientifico. Mi sono messo a fare suddivisioni, tabelle e statistiche.
Questi sono i risultati:
52 di quei contatti hanno a che fare con il lavoro.
39 riguardano la mia attività di giornalista musicale: per la precisione, 7 sono istituzioni di vario tipo (festival, uffici stampa, rassegne); 25 sono operatori del settore (agenti, promoter, fotografi, musicisti) che non ho mai visto in vita mia; 7 sono persone che conosco sul serio.
9 sono colleghi della rivista musicale per cui scrivo.
4 sono ricercatori che ho conosciuto tramite l'Università.
7 sono contatti acquisiti attraverso questo blog,
o per ragioni legate alla letteratura (poeti, editori, ecc.).
16 sono vecchi amici e compagni di scuola degli anni pugliesi,
perlopiù gente che non vedo da almeno un decennio.
10 sono persone conosciute a Perugia,
o comunque negli ultimi 10-15 anni, dopo aver lasciato la terra natìa.
8 sono miei ex-alunni del Liceo
(tutti della stessa classe).
6 sono parenti o affini.
2 sono persone conosciute solo per via telematica,
attraverso un forum di discussione.
Dopodiché, il furor si è calmato. Contemplare la realtà ridotta in numeri mi mette sempre un gran senso di quiete.
mercoledì 30 giugno 2010
martedì 29 giugno 2010
la risata che ci ha seppellito
da: Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa, Einaudi 2009, pp. 23-25
Poi arrivava la fine della giornata, le sere di quel 1984, e insieme con la sera scendeva su di noi un velo, un bagliore azzuro, a metterci d'accordo, a fare giustizia...
... da gennaio a dicembre scendeva su mia madre, scendeva su mio padre, sui direttori di banca, sui grossisti ormai lontani dai loro capannoni, scendeva questo bagliore che i tecnici sapevano essere la combinazione dei tre colori primari - il rosso, il verde, il blu, mischiati tra loro sullo schermo in tutti i possibili colori. Non si chiamava ancora televisione commerciale. Era, semplicemente, "la Cosa Nuova".
E quello che a me sembrava una presa diretta da una dimensione paralela era stato invece registrato quarantott'ore prima a Roma, finito di montare il giorno stesso, precisamente negli stabilimenti della Dear, una lunga giustapposizione di studi televisivi e camerini e corridoi a collegare un braccio all'altro della struttura verso la quale sugli autobus, sui taxi, sulle automobili private arrivavano settimanalmente le ballerine e i comici e le loro spalle e questo cocker triste di proprietà di un caro amico del comico più anziano che avremmo ricordato per i monologhi di fine puntata; e insieme a loro l'autore e il regista della trasmissione, gli unici a non passare dalla sala trucco. Ma prima della sala trucco, prima dei camerini e dei travestimenti - le ballerine, che poi non erano vere e proprie ballerine bensì ragazze di bella presenza con una disperata vocazione all'anominato, si travestivano da ragazze fast food mentre i comici, i due più noti perlomeno, il capocomico di mezza età e un trentenne di Biella la cui faccia era una vittoriosa antitesi delle facce degli attori d'avanspettacolo (Ezio Greggio, un monumento al niente), questi due comici indossavano enormi giacche colorate dai baveri taglienti -, prima dei camerini e della sala trucco, delle lucine accese sulle telecamere, capitava che le ballerine parlottassero tra loro, e i comici si consultavano con l'autore della trasmissione, poi l'autore col regista, poi arrivava un vassoio coi bicchierini di plastica sbaffati di caffè, e ancora chiacchiere e consultazioni prima di andare in onda... E la vera novità stava nel fatto che, a differenza di ciò che succedeva negli spettacoli televisivi del passato, i quarantacinque minuti della trasmissione vera e propria non erano la bella copia, il salire quei due o tre gradini che separavano il rodaggio precedente dal risultato finale, ma una discesa, uno scientifico abbassarsi sotto le quote dell'intelligenza, della grazia, dell'arguzia, dello spessore presenti in ogni essere umano coinvolto in quella trasmissione. Per questo il programma funzionò così bene, per questo fu una rivoluzione. Drive In... Il primo tentativo serio di portare in Italia ciò che oltreoceano stava accadendo già da qualche tempo - ovvero cambi di scena fulminanti, sketch veloci il doppio, il triplo rispetto a quelli del passato e presentati soprattutto come se fossero spot pubblicitari. E il suo autore, Antonio Ricci, uno che durante il Maggio francese aveva avuto diciott'anni, e aveva naturalmente manifestato e ciclostilato e cineforumizzato e solidarizzato con il lancio delle uova alle prime della Scala... il suo programma degli anni Ottanta non fu il tradimento della sua vita precedente, semmai al contrario la sua realizzazione più profonda - così come ci si era avvolti nel vento caldo della contestazione, adesso si tendevano le vele per sfruttare il vento gelido, che di quel vento caldo era stato il mandante, il vero soffio d'alimento.
... da gennaio a dicembre scendeva su mia madre, scendeva su mio padre, sui direttori di banca, sui grossisti ormai lontani dai loro capannoni, scendeva questo bagliore che i tecnici sapevano essere la combinazione dei tre colori primari - il rosso, il verde, il blu, mischiati tra loro sullo schermo in tutti i possibili colori. Non si chiamava ancora televisione commerciale. Era, semplicemente, "la Cosa Nuova".
E quello che a me sembrava una presa diretta da una dimensione paralela era stato invece registrato quarantott'ore prima a Roma, finito di montare il giorno stesso, precisamente negli stabilimenti della Dear, una lunga giustapposizione di studi televisivi e camerini e corridoi a collegare un braccio all'altro della struttura verso la quale sugli autobus, sui taxi, sulle automobili private arrivavano settimanalmente le ballerine e i comici e le loro spalle e questo cocker triste di proprietà di un caro amico del comico più anziano che avremmo ricordato per i monologhi di fine puntata; e insieme a loro l'autore e il regista della trasmissione, gli unici a non passare dalla sala trucco. Ma prima della sala trucco, prima dei camerini e dei travestimenti - le ballerine, che poi non erano vere e proprie ballerine bensì ragazze di bella presenza con una disperata vocazione all'anominato, si travestivano da ragazze fast food mentre i comici, i due più noti perlomeno, il capocomico di mezza età e un trentenne di Biella la cui faccia era una vittoriosa antitesi delle facce degli attori d'avanspettacolo (Ezio Greggio, un monumento al niente), questi due comici indossavano enormi giacche colorate dai baveri taglienti -, prima dei camerini e della sala trucco, delle lucine accese sulle telecamere, capitava che le ballerine parlottassero tra loro, e i comici si consultavano con l'autore della trasmissione, poi l'autore col regista, poi arrivava un vassoio coi bicchierini di plastica sbaffati di caffè, e ancora chiacchiere e consultazioni prima di andare in onda... E la vera novità stava nel fatto che, a differenza di ciò che succedeva negli spettacoli televisivi del passato, i quarantacinque minuti della trasmissione vera e propria non erano la bella copia, il salire quei due o tre gradini che separavano il rodaggio precedente dal risultato finale, ma una discesa, uno scientifico abbassarsi sotto le quote dell'intelligenza, della grazia, dell'arguzia, dello spessore presenti in ogni essere umano coinvolto in quella trasmissione. Per questo il programma funzionò così bene, per questo fu una rivoluzione. Drive In... Il primo tentativo serio di portare in Italia ciò che oltreoceano stava accadendo già da qualche tempo - ovvero cambi di scena fulminanti, sketch veloci il doppio, il triplo rispetto a quelli del passato e presentati soprattutto come se fossero spot pubblicitari. E il suo autore, Antonio Ricci, uno che durante il Maggio francese aveva avuto diciott'anni, e aveva naturalmente manifestato e ciclostilato e cineforumizzato e solidarizzato con il lancio delle uova alle prime della Scala... il suo programma degli anni Ottanta non fu il tradimento della sua vita precedente, semmai al contrario la sua realizzazione più profonda - così come ci si era avvolti nel vento caldo della contestazione, adesso si tendevano le vele per sfruttare il vento gelido, che di quel vento caldo era stato il mandante, il vero soffio d'alimento.
lunedì 28 giugno 2010
la musica che gira intorno
Nella scuola dove insegnavo, i ragazzi avevano messo su – del tutto spontaneamente – un laboratorio di musica.
Lo aveva allestito Michele, quindici anni, stazza da Oliver Hardy, che era riuscito, da solo, a creare dal nulla un’intera sala prove con consolle, laptop, amplificatori, tastiere, spie ecc. ecc., il tutto di livello quasi professionale.
Si vedevano il pomeriggio e facevano un po’ di cover di successi pop, musica leggera, e ogni tanto un po’ di sano blues e di rock anni ’70-’80.
Il preside, geniale come tutti i presidi, ne aveva affidato la direzione alla collega di musica. La quale un giorno mi prese a quattr’occhi e mi disse (testuali parole): “Quest’esperienza ha valore puramente aggregativo. La musica che fanno non vale niente. Che vengano ai concerti degli Amici della Musica, piuttosto, a sentire Beethoven e Mozart”.
Non so se quella collega si sia mai chiesta perché ai concerti degli Amici della Musica non le ci andava nessuno, e se abbia mai messo in connessione il fatto con quella sua frase idiota.
Lo aveva allestito Michele, quindici anni, stazza da Oliver Hardy, che era riuscito, da solo, a creare dal nulla un’intera sala prove con consolle, laptop, amplificatori, tastiere, spie ecc. ecc., il tutto di livello quasi professionale.
Si vedevano il pomeriggio e facevano un po’ di cover di successi pop, musica leggera, e ogni tanto un po’ di sano blues e di rock anni ’70-’80.
Il preside, geniale come tutti i presidi, ne aveva affidato la direzione alla collega di musica. La quale un giorno mi prese a quattr’occhi e mi disse (testuali parole): “Quest’esperienza ha valore puramente aggregativo. La musica che fanno non vale niente. Che vengano ai concerti degli Amici della Musica, piuttosto, a sentire Beethoven e Mozart”.
Non so se quella collega si sia mai chiesta perché ai concerti degli Amici della Musica non le ci andava nessuno, e se abbia mai messo in connessione il fatto con quella sua frase idiota.
domenica 27 giugno 2010
recensioni in pillole 57 - "Riportando tutto a casa"
Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa, Einaudi 2009 (288 pp., 20 €)
Nicola Lagioia è mio quasi-conterraneo (barese) e quasi-coetaneo (due anni più vecchio). Il libro è ambientato nella Bari della sua adolescenza. Non posso, quindi, fare a meno di considerarlo un libro generazionale, un libro che contiene molto di me.
È il 1985, l'Italia è invasa dai miti reaganiani del benessere, dall'euforia dei soldi facili, dallo sbrilluccichio delle prime tv commerciali. Il protagonista-narratore ha quindici anni; suo padre è un parvenu, un commerciante che proviene da “una stirpe di senzaniente”, ma ora ha fatto i soldi e nutre ambizioni di rivalsa sociale.
Al liceo, il ragazzo lega con due amici: Giuseppe, che cerca nello sperpero l'espiazione dei soldi paterni, e Vincenzo, bello, elegante, fortunato con le donne, ma chiuso in una sua ombrosa incomunicabilità.
L'autore li segue nei loro vagabondaggi per una Bari divisa tra il cinico sfarzo delle zone residenziali e lo squallore putrescente del quartiere Japigia (“il più grande mercato di eroina a cielo aperto dell'Europa Meridionale”).
“Riportando tutto a casa” coglie quello strazio, quella disperazione violenta, grumosa, senza possibili vie d'uscita, che si può provare solo a quindici anni. E lo fa senza alcun cedimento elegiaco o sentimentale. I rapporti fra i ragazzi sono un nodo gordiano di amore, odio, amicizia, nichilismo, masochismo, disperazione, adorazione e tradimento.
Ma, raccontando la loro discesa dal lindo e asettico inferno del benessere borghese a un inferno molto più profondo e oscuro, il libro racconta anche lo spaventoso vuoto nascosto sotto i lustrini degli anni Ottanta: il “decennio assassinato a pochi istanti dalla nascita”, del quale Lagioia colleziona con puntiglio segni e memorie (canzoni, spettacoli televisivi, spot pubblicitari, marche di vestiti, avvenimenti di politica italiana e internazionale, lacerti di vita quotidiana); il decennio in cui ha avuto inizio molto di ciò che ancor oggi abbiamo intorno.
Peccato che il romanzo perda qualche colpo proprio nelle ultime pagine, dove la sottotraccia sociologico-criminale si complica un po' troppo e i personaggi finiscono per perdere di spessore.
Bel libro, comunque.
Nicola Lagioia è mio quasi-conterraneo (barese) e quasi-coetaneo (due anni più vecchio). Il libro è ambientato nella Bari della sua adolescenza. Non posso, quindi, fare a meno di considerarlo un libro generazionale, un libro che contiene molto di me.
È il 1985, l'Italia è invasa dai miti reaganiani del benessere, dall'euforia dei soldi facili, dallo sbrilluccichio delle prime tv commerciali. Il protagonista-narratore ha quindici anni; suo padre è un parvenu, un commerciante che proviene da “una stirpe di senzaniente”, ma ora ha fatto i soldi e nutre ambizioni di rivalsa sociale.
Al liceo, il ragazzo lega con due amici: Giuseppe, che cerca nello sperpero l'espiazione dei soldi paterni, e Vincenzo, bello, elegante, fortunato con le donne, ma chiuso in una sua ombrosa incomunicabilità.
L'autore li segue nei loro vagabondaggi per una Bari divisa tra il cinico sfarzo delle zone residenziali e lo squallore putrescente del quartiere Japigia (“il più grande mercato di eroina a cielo aperto dell'Europa Meridionale”).
“Riportando tutto a casa” coglie quello strazio, quella disperazione violenta, grumosa, senza possibili vie d'uscita, che si può provare solo a quindici anni. E lo fa senza alcun cedimento elegiaco o sentimentale. I rapporti fra i ragazzi sono un nodo gordiano di amore, odio, amicizia, nichilismo, masochismo, disperazione, adorazione e tradimento.
Ma, raccontando la loro discesa dal lindo e asettico inferno del benessere borghese a un inferno molto più profondo e oscuro, il libro racconta anche lo spaventoso vuoto nascosto sotto i lustrini degli anni Ottanta: il “decennio assassinato a pochi istanti dalla nascita”, del quale Lagioia colleziona con puntiglio segni e memorie (canzoni, spettacoli televisivi, spot pubblicitari, marche di vestiti, avvenimenti di politica italiana e internazionale, lacerti di vita quotidiana); il decennio in cui ha avuto inizio molto di ciò che ancor oggi abbiamo intorno.
Peccato che il romanzo perda qualche colpo proprio nelle ultime pagine, dove la sottotraccia sociologico-criminale si complica un po' troppo e i personaggi finiscono per perdere di spessore.
Bel libro, comunque.
http://www.youtube.com/watch?v=TIqnCwLgdcE
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sabato 26 giugno 2010
amor vincit omnia
La faccia è quella, scafata e strafottente, del ragazzo di vita.
Le ali sembrano tarlate, tirate su dalla monnezza di qualche tassodermista e appiccicate sulla schiena con lo spago.
A gambe larghe, inverecondo, con il sesso in piena luce.
Pensi: così impuro, vero, creaturale.
Dritto dritto da una bettola di Trastevere.
Però poi guardi meglio, ti accorgi che l'inguine è proprio nella sezione aurea del dipinto. Che è alla convergenza chiastica di tutte le linee portanti (frecce, cosce, ali, lenzuola, strumenti musicali).
Che quella posa è michelangiolesca e simboleggia la vittoria.
Che il torso è un meraviglioso, lucidissimo studio anatomico.
Che il quadro cela, sullo sfondo, un'amorevole natura morta.
Pensi: che magnifico disegnatore, che sapienza, che artificio (ars artifex artificium artificialis).
Post scriptum: pare che il modello sia Cecco Boneri, ragazzo di bottega e (forse) amante del Merisi, che poi divenne pittore in proprio, noto come “Cecco del Caravaggio”, uno dei più energici e originali tra i caravaggisti italiani.
venerdì 25 giugno 2010
scherzi dell'etimologia
da Answers
Faggot (slang)
Faggot, often shortened to fag, is a pejorative term and common homophobic slur against lesbian, gay, bisexual, and transgender (LGBT) people, and is English slang.
[...]
In some countries faggot has additional meanings (all dated or rare in the US): a bundle of sticks, a culinary term for herbs or seasoning added to a meal [...].
The word meaning "bundle of sticks" is ultimately derived, via Old French and Italian, from Latin fascis (also the origin of the word fascism).
[...]
In some countries faggot has additional meanings (all dated or rare in the US): a bundle of sticks, a culinary term for herbs or seasoning added to a meal [...].
The word meaning "bundle of sticks" is ultimately derived, via Old French and Italian, from Latin fascis (also the origin of the word fascism).
* * *
"Faggot", spesso abbreviato in "fag", è un termine dispregiativo e un diffuso insulto omofobico rivolto a persone lesbiche, gay, bisessuali o transessuali (LGBT); è slang inglese.
[...]
In alcuni paesi, "faggot" ha alcuni significati aggiuntivi (tutti antiquati o rari negli Stati Uniti): un fascio di rami, o un termine culinario per erbe o aromi aggiunti a un piatto [...].
Il significato di "faggot" come "fascio di rami" deriva alla lontana, attraverso l'antico francese e l'italiano, dal latino "fascis" (che è anche l'origine della parola "fascismo").
[...]
In alcuni paesi, "faggot" ha alcuni significati aggiuntivi (tutti antiquati o rari negli Stati Uniti): un fascio di rami, o un termine culinario per erbe o aromi aggiunti a un piatto [...].
Il significato di "faggot" come "fascio di rami" deriva alla lontana, attraverso l'antico francese e l'italiano, dal latino "fascis" (che è anche l'origine della parola "fascismo").
giovedì 24 giugno 2010
the ghost pianist
Ovvero: quante note un essere umano può arrivare prendere tutte in una volta?
La versione originale del pezzo si può ascoltare qui.
La versione originale del pezzo si può ascoltare qui.
http://www.youtube.com/watch?v=PX_G3NvHvSY
mercoledì 23 giugno 2010
promemoria
Semplice, limpido, efficace, come solo lui sapeva essere.
Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio, la guerra.
Gianni Rodari
martedì 22 giugno 2010
jazz news
Dalla EDT, due uscite importanti per gli appassionati di jazz.
E' stato appena pubblicato il secondo volume (che in realtà è un volume doppio) di "Il jazz in Italia" di Adriano Mazzoletti. Un'opera monumentale, quasi 1700 pagine che ripercorrono le vicende del jazz italiano dagli anni '40 agli anni '60.
Il primo volume, uscito nel 2004, era uno studio assolutamente pionieristico, che esplorava - per la prima volta in maniera sistematica - la preistoria del jazz italiano, dai primi del '900 agli anni della Seconda Guerra Mondiale, rivelando un panorama di una ricchezza del tutto inaspettata e mettendo a disposizione di appassionati e studiosi una messe inesauribile di notizie e dati, prima difficilmente accessibili.
Questo secondo volume copre un periodo più noto, ma - almeno per quel che ne so io - mai indagato con tale sistematicità. Oltretutto, Mazzoletti è uno dei decani del giornalismo jazz italiano, attivo da quasi mezzo secolo, e ha vissuto da protagonista gli avvenimenti che racconta.
Un'opera che rimarrà senza dubbio come il testo di riferimento per chiunque voglia occuparsi del jazz nostrano.
Peccato per il prezzo, non proprio accessibile (ma sul sito della EDT si può ottenere con un congruo sconto).
Segnalo anche che Mazzoletti dirige la Riviera Jazz, casa discografica che da anni si dedica alla riedizione di dischi rarissimi e ormai introvabili dei musicisti di casa nostra.
Per luglio è prevista l'uscita del sesto volume de "Il jazz. L'era dello swing" di Gunther Schuller.
Si tratta dell'ultimo tomo della traduzione italiana di "Early Jazz" (1968 / 1986) e "The Swing Era" (1991), due vere e proprie pietre miliari della storiografia jazz.
Se alcune delle posizioni di Schuller sono state superate dagli studi successivi, rimane però ineguagliata la sua capacità di analisi e la sua competenza capillare della materia. Pagine di lettura non semplicissima, che richiedono una certa padronanza della teoria musicale, ma che ripagano in pieno lo sforzo.
Questo sesto volume, dedicato alle big band bianche e ai piccoli complessi del periodo swing, arriva dopo ben quattordici anni dall'uscita del primo. La ragione del grosso iato temporale sta soprattutto negli innumerevoli impegni del curatore e traduttore, Marcello Piras: che però, e il Dio del Jazz gliene renderà merito, è riuscito a darci una traduzione di esemplare accuratezza, davvero rara nel panorama italiano caratterizzato da curatele e versioni spesso di livello a dir poco dilettantistico.
L'unico che non sarà contento di tutto 'sto bendidio è il mio portafoglio, che subirà presto un sostanzioso salasso. Ma per il jazz, questo ed altro.
Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia. Dallo swing agli anni Sessanta, EDT, 2010 (1680 pp., € 54).
Gunther Sculler, Il jazz. L'era dello swing. Le orchestre bianche e i complessi, EDT, 2010 (in uscita a luglio) (288 pp., € 18).
E' stato appena pubblicato il secondo volume (che in realtà è un volume doppio) di "Il jazz in Italia" di Adriano Mazzoletti. Un'opera monumentale, quasi 1700 pagine che ripercorrono le vicende del jazz italiano dagli anni '40 agli anni '60.
Il primo volume, uscito nel 2004, era uno studio assolutamente pionieristico, che esplorava - per la prima volta in maniera sistematica - la preistoria del jazz italiano, dai primi del '900 agli anni della Seconda Guerra Mondiale, rivelando un panorama di una ricchezza del tutto inaspettata e mettendo a disposizione di appassionati e studiosi una messe inesauribile di notizie e dati, prima difficilmente accessibili.
Questo secondo volume copre un periodo più noto, ma - almeno per quel che ne so io - mai indagato con tale sistematicità. Oltretutto, Mazzoletti è uno dei decani del giornalismo jazz italiano, attivo da quasi mezzo secolo, e ha vissuto da protagonista gli avvenimenti che racconta.
Un'opera che rimarrà senza dubbio come il testo di riferimento per chiunque voglia occuparsi del jazz nostrano.
Peccato per il prezzo, non proprio accessibile (ma sul sito della EDT si può ottenere con un congruo sconto).
Segnalo anche che Mazzoletti dirige la Riviera Jazz, casa discografica che da anni si dedica alla riedizione di dischi rarissimi e ormai introvabili dei musicisti di casa nostra.
Per luglio è prevista l'uscita del sesto volume de "Il jazz. L'era dello swing" di Gunther Schuller.
Si tratta dell'ultimo tomo della traduzione italiana di "Early Jazz" (1968 / 1986) e "The Swing Era" (1991), due vere e proprie pietre miliari della storiografia jazz.
Se alcune delle posizioni di Schuller sono state superate dagli studi successivi, rimane però ineguagliata la sua capacità di analisi e la sua competenza capillare della materia. Pagine di lettura non semplicissima, che richiedono una certa padronanza della teoria musicale, ma che ripagano in pieno lo sforzo.
Questo sesto volume, dedicato alle big band bianche e ai piccoli complessi del periodo swing, arriva dopo ben quattordici anni dall'uscita del primo. La ragione del grosso iato temporale sta soprattutto negli innumerevoli impegni del curatore e traduttore, Marcello Piras: che però, e il Dio del Jazz gliene renderà merito, è riuscito a darci una traduzione di esemplare accuratezza, davvero rara nel panorama italiano caratterizzato da curatele e versioni spesso di livello a dir poco dilettantistico.
L'unico che non sarà contento di tutto 'sto bendidio è il mio portafoglio, che subirà presto un sostanzioso salasso. Ma per il jazz, questo ed altro.
Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia. Dallo swing agli anni Sessanta, EDT, 2010 (1680 pp., € 54).
Gunther Sculler, Il jazz. L'era dello swing. Le orchestre bianche e i complessi, EDT, 2010 (in uscita a luglio) (288 pp., € 18).
lunedì 21 giugno 2010
frane
Si potrebbe dire che è una cosa da nulla: un festival jazz che ha chiuso.
Capirai: ce ne sono tanti di festival jazz, pure troppi. In fondo, chi lo ascolta il jazz?
E invece no: il Ceglie Open Jazz Festival era una realtà viva, creativa, che in dieci anni era riuscita a lavorare sul territorio, portando in un paesino della Valle d'Itria musica, cultura e - perché no? - introiti.
Ora il festival chiude (forse), o comunque si interrompe. Non perché sia fallito, né perché fosse brutto, ma semplicemente perché è cambiata la giunta comunale.
Cose italiane, si potrebbe dire. E invece no: le grandi frane cominciano con un sassolino che smotta. Di situazioni così, di operatori culturali che lottano contro l'ottusità di chi dovrebbe governarci, ce ne sono fin troppi. Ed è proprio qui che bisogna resistere.
Su Jazz from Italy c'è un articolo più che esauriente, completo di una breve intervista a Pierpaolo Faggiano, creatore del festival.
Ingrandendo l'immagine qui sopra, si può leggere la lettera aperta di Stefano Zenni, direttore della Sidma (Società Italiana di Musicologia Afroamericana).
Capirai: ce ne sono tanti di festival jazz, pure troppi. In fondo, chi lo ascolta il jazz?
E invece no: il Ceglie Open Jazz Festival era una realtà viva, creativa, che in dieci anni era riuscita a lavorare sul territorio, portando in un paesino della Valle d'Itria musica, cultura e - perché no? - introiti.
Ora il festival chiude (forse), o comunque si interrompe. Non perché sia fallito, né perché fosse brutto, ma semplicemente perché è cambiata la giunta comunale.
Cose italiane, si potrebbe dire. E invece no: le grandi frane cominciano con un sassolino che smotta. Di situazioni così, di operatori culturali che lottano contro l'ottusità di chi dovrebbe governarci, ce ne sono fin troppi. Ed è proprio qui che bisogna resistere.
Su Jazz from Italy c'è un articolo più che esauriente, completo di una breve intervista a Pierpaolo Faggiano, creatore del festival.
Ingrandendo l'immagine qui sopra, si può leggere la lettera aperta di Stefano Zenni, direttore della Sidma (Società Italiana di Musicologia Afroamericana).
domenica 20 giugno 2010
ricchi e poveri
sabato 19 giugno 2010
il dono della sintesi
giovedì 17 giugno 2010
ranger, diavoli, topi e paperi
Il mio più antico ricordo a tema fumettistico è il ripostiglio a muro in corridoio. Conteneva una pila di Tex, Piccolo Ranger e Un ragazzo nel Far West. Non dovevo avere più di tre o quattro anni, perché più tardi mio padre mi disse che avevo sistematicamente distrutto tutti quei fumetti, ma io non ne ricordo nulla.
Il secondo ricordo è la soffitta di mia nonna, dove era conservata, in due enormi scaffalature (o forse sono io che me le ricordo enormi) la collezione di Topolino di mio zio. Praticamente tutti i numeri da fine anni Sessanta ai primi anni Ottanta, compresi almanacchi, raccolte, classici Disney ecc. ecc. Mi pare che in mezzo ci fossero anche un po' di Braccio di Ferro, Geppo, Tirammolla e simili.
Quando venivano i miei zii da Roma, io e mia cugina passavamo i pomeriggi sul terrazzo e, quando non eravamo impegnati a darcele di santa ragione, o quando lei non mi faceva la corte (sì, per un periodo le era presa la fissa che dovessimo fidanzarci, e io chissà per quale motivo le dicevo di no: considerate che mia cugina è oggi una delle ragazze più belle che io conosca, e una volta che l'ho presentata ai miei amici gliel'ho dovuta praticamente strappare dalle grinfie prima che succedessero cose incresciose...), insomma, quando non facevamo una di queste due cose, leggevamo quei Topolino. Anche lì, non dovevo avere più di 6 o 7 anni, perché ricordo benissimo che lei, di un paio d'anni più piccola di me, non sapeva ancora leggere e inventava storie strampalate basandosi sulla sua personale interpretazione delle vignette.
Tra le centinaia di storie lette, ricordo in particolare quelle del grandissimo Romano Scarpa: “Topolino e l'unghia di Kalì”, “Il doppio segreto di Macchia Nera”, “Topolino e la dimensione Delta”, “Topolino e il Pippotarzan”. O meglio, ovviamente all'epoca non avevo idea di chi fosse Scarpa, ma capivo già che quelle storie avevano un qualcosa in più delle altre, e solo dopo ho scoperto che praticamente tutte le storie che mi piacevano erano sue.
Ovviamente non conoscevo neanche i nomi dei disegnatori, dato che a quei tempi non comparivano mai, ma mi colpiva lo stile dinamico e fantasioso di uno in particolare, che poi scoprii essere un giovanissimo Giorgio Cavazzano.
Poi mi ricordo una storia con Topolino e Pippo che si perdevano nel triangolo delle Bermude e finivano in una strana dimensione parallela: molti anni dopo, ho scoperto che la sceneggiatura portava la firma nientemeno che di Alfredo Castelli.
Un'altra era completamente folle, demenziale, intitolata “Topolino e i grilli atomici”, con Pippo che veniva ipnotizzato e si credeva un gangster, Topolino che veniva inseguito dalla polizia e scappava in jeep con un leone, e infine capitavano dai Sette Nani che avevano una fabbrica di atomi... e così via, in un crescendo pirotecnico di situazioni sempre più assurde.
I testi erano di un altro gigante: Guido Martina.
I testi erano di un altro gigante: Guido Martina.
Ah, e c'era anche “Topolino e lo spettro fallito”, ossia “The Ghost of Black Brian”, che se non sbaglio è dell'immenso Floyd Gottfredson e contiene sequenze oniriche e horror che trovo ancor oggi assolutamente inquietanti...
E poi mi piacevano un sacco quegli albi antologici (credo fossero i "Classici di Walt Disney") dove tutte le storie erano inserite nella cornice di un'altra storia, disegnata per l'occasione.
Purtroppo quei giornalini fecero una pessima fine: mia madre, convinta che mi distraessero dallo studio, disse a mia nonna di darli via, e lei li regalò a un muratore che era venuto a farle dei lavori in casa. Il giorno in cui andai in soffitta e trovai lo scaffale vuoto me lo ricordo ancora come uno dei più brutti della mia vita...
Il terzo ricordo è mia nonna che, nel marzo 1983, il giorno del mio ottavo compleanno, mi regala un albo di Tex.
Era il numero 269, “Il segreto della Sierra Madre”, testi (of course) di Gian Luigi Bonelli, disegni di un monumento del fumetto italiano: Guglielmo Letteri.
Il terzo ricordo è mia nonna che, nel marzo 1983, il giorno del mio ottavo compleanno, mi regala un albo di Tex.
Era il numero 269, “Il segreto della Sierra Madre”, testi (of course) di Gian Luigi Bonelli, disegni di un monumento del fumetto italiano: Guglielmo Letteri.
E quello fu il vero inizio di tutto...
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mercoledì 16 giugno 2010
emoziooooone
Dal blog di Carlo Boccadoro. Parole sacrosante, IMHO.
Recentemente un noto corrispondente del quotidiano “la Repubblica” ha scritto in un reportage da New York di essersi recato alla Avery Fisher Hall per farsi “cullare” da Mozart e Schubert. Navigando in rete si scoprono con stupore centinaia di persone che amano unicamente farsi “coccolare” o “accarezzare” dalla Musica, dimostrando di avere con essa un rapporto che non solo si ferma al puro intrattenimento, ma addirittura ne esclude qualsiasi utilizzo che non sia quello di procurare sollievo istantaneo e corrobarante. Una specie di Maalox, insomma, o di sauna finlandese. Musica come scrubbing, crema idratante, tisana alla verbena; fondamentale per chi pratica questo tipo di ascolto è che il cervello non venga mai messo in azione, dato che per i fanatici dello Zen De Noantri qualsiasi contatto con della Musica che esprimesse un discorso non necessariamente predigerito (o biodegradabile fin dal primo ascolto) equivarrebbe a guardare ben dritto negli occhi il Basilisco. Repertorio assolutamente classico, quindi, prevalentemente barocco o romantico, con al massimo una punta di New Age mistica in stile Karl Jenkins per far vedere che si ascolta anche la “musica moderna”. In realtà, come ha ben detto Louis Andriessen, compito del compositore è quello di porre domande, non quello di dare delle risposte. La Musica di qualità, da Josquin a Berio, ha sempre richiesto attenzione e concentrazione, stimolando l'intelligenza e rifiutando un atteggiamento passivo da Ducotone sonoro come quello preteso da questi ascoltatori, pronti a sfoderare a ogni decimo di secondo la loro “emozione”, concetto in sé fondamentale ma ormai talmente svilito dall'abuso della parola da essere utilizzato anche negli spot per la carta igienica. Musica come Mamma rassicurante, che rimbocca le coperte dopo aver preparato un bicchiere di latte caldo. Tutto il resto è ignoto, spaventa, richiede sforzo, magari tocca riascoltare due o tre volte prima di riuscire a comprendere, orrore! Per questa generazione di “bamboccioni” acustici sarebbe come dover andar via di casa per confrontarsi con i problemi della vita, magari imparando anche a stendere il bucato o ad usare l'aspirapolvere. A che scopo crescere? Meglio continuare ad aspettare che Frau Musika ci massaggi i padiglioni auricolari, magari mentre chiudiamo gli occhi e sogniamo cartoline con gabbiani al tramonto. Viene davvero da rimpiangere il mondo dal rock e del jazz, dove gli ascoltatori passano intrepidamente da Peter Gabriel agli Husker Du e da Duke Ellington a Cecil Taylor. Nella dorata culla della musica Classica per molti questo non avviene, il sottofondo si ripete sempre uguale, come le favole raccontate e ripetute sera dopo sera, tanto il lieto fine è garantito.
martedì 15 giugno 2010
domenica 13 giugno 2010
paganesimo
Sono arrivate le rondini e insieme a loro, in spregio a tutti i proverbi, è arrivata finalmente anche la primavera.
Ognuno ha la propria personale mantica; secondo la mia, la buona stagione è indissolubilmente legata a un cielo color azzurro compatto, tagliuzzato dalle forbicine dei loro voli.
Poi, certo, questa è anche la stagione delle blatte. Bestioline scivolose e ributtanti, che brulicano nell'ombra sudicia e puzzano se le calpesti. Ho trovato un nuovo veleno, che ne ha fatti fuori una dozzina in un giorno solo. Non si sono fatti più vedere. Lo considero un buon esempio di magia apotropaica.
Poi, stamattina stavo sistemando i rami del biancospino. Mi sono punto e graffiato, perché ovviamente non avevo i guanti. Si potrebbe dire che non li avevo perché si trovano nel sottoscala, che è basso e buio e scomodo e devo entrarci rannicchiato, ma io preferisco pensare a un rito di fertilità basato sullo spargimento del sangue e sul nutrimento della terra.
Comunque, mentre armeggiavo con i rami ho visto con la coda dell'occhio qualcosa che piombava giù, rasente al muro. Al tonfo, mi sono girato. Era un merlo, e giaceva rovesciato sul dorso, le zampe all'aria. Per qualche decina di secondi il corpo ha continuato a fremere, le zampe a contrarsi, poi la testa si è piegata da una parte e l'occhio si è appannato. Morto.
Non so da dove venisse, ma ci sono parecchie famiglie di merli stanziate nei dintorni. Li sentiamo conversare da una siepe all'altra e assistiamo alla guerra di posizione con i gatti del vicinato, la cui posta in gioco sono i pulcini che ogni tanto cadono dal nido.
Non avevo voglia di raccogliere il cadavere, ma quella piccola massa bruna e immobile mi ingombrava il campo visivo mentre lavoravo. Mi sono avvicinato e ho visto che qualche mosca aveva cominciato a posarsi e che le prime formiche stavano lanciando l'allarme alle compagne. Allora ho preso la paletta e l'ho lanciato fuori dal giardino. La dignitosa simmetria della morte si è subito scomposta in una serie di linee divergenti; le penne si sono mimetizzate con lo sfondo di foglie secche.
La vedo come un'offerta alle divinità feline che pattugliano i confini delle nostre case.
In giardino è rimasta una macchia umida sulle mattonelle.
sabato 12 giugno 2010
dalla parte di stan
Guardate questa foto.
Non vi dice niente?
Fu scattata nel 1910, a bordo di un transatlantico che andava dall'Inghilterra all'America.
Niente?
Quelli rappresentati sono gli attori di una compagnia di varietà inglese, gestita da un impresario di nome Fred Karno*.
Niente ancora?
Beh, sappiate che il tizio al centro, che sorride da dentro un salvagente, è il capocomico e si chiama Charles. Charles Spencer Chaplin. Meglio noto, da noi, come Charlot.
E quel tipetto magrolino, all'estrema sinistra, seduto con aria timida su una sdraio, si chiama Arthur Stanley Jefferson, ma di lì a qualche anno avrebbe assunto il nome d'arte di Stan Laurel. Per noi italiani, Stanlio.
Sì, i due recitavano insieme, all'epoca. Stan era un attore di seconda fila, con poche occasioni per emergere; Charles, invece, era già un piccolo divo, e cominciava a mostrare i segni del carattere egocentrico e capriccioso per cui sarebbe diventato celebre.
La compagnia andava a cercar fortuna nel Nuovo Mondo. Arrivati in America, Chaplin sfondò. Divenne in breve tempo una celebrità, famosissimo e strapagato, girò i suoi primi capolavori. Fu riconosciuto ovunque come un genio.
Stan no. Tornò in Inghilterra con la coda tra le gambe, poi ripartì di nuovo per l'America, nel 1912, fece un sacco di gavetta, e finalmente incontrò un attore dalla stazza enorme e dal carattere bonario e gentilissimo, che si chiamava Oliver Norvell Hardy; per gli amici "Babe", per gli italiani Ollio.
Ma ci vollero anni: il duo nacque ufficialmente solo nel 1927, con un cortometraggio muto dal titolo "Putting Pants on Philip".
La coppia fu sempre affiatatissima. Mai un litigio, mai uno screzio. Quasi vent'anni di lavoro insieme, fino all'ultimo film, nel 1945. Tra i due, la mente era Laurel: era lui che scriveva le sceneggiature, ideava le gag, dirigeva gli attori, supervisionava il montaggio. Quando qualcuno chiedeva qualcosa a Hardy, lui rispondeva immancabilmente: "Chiedete a Stan".
Laurel e Hardy ebbero un enorme successo, ma per la critica rimasero sempre dei guitti (solo nel 1961 Laurel, ormai vecchio e malato, ricevette un Oscar alla carriera; Hardy se n'era andato quattro anni prima). Chaplin, invece, era l'Artista.
E non è che non sia vero. E' vero.
Eppure, chissà perché, guardando quella foto del 1910, a me viene spontaneo stare dalla parte di Stan.
Non vi dice niente?
Fu scattata nel 1910, a bordo di un transatlantico che andava dall'Inghilterra all'America.
Niente?
Quelli rappresentati sono gli attori di una compagnia di varietà inglese, gestita da un impresario di nome Fred Karno*.
Niente ancora?
Beh, sappiate che il tizio al centro, che sorride da dentro un salvagente, è il capocomico e si chiama Charles. Charles Spencer Chaplin. Meglio noto, da noi, come Charlot.
E quel tipetto magrolino, all'estrema sinistra, seduto con aria timida su una sdraio, si chiama Arthur Stanley Jefferson, ma di lì a qualche anno avrebbe assunto il nome d'arte di Stan Laurel. Per noi italiani, Stanlio.
Sì, i due recitavano insieme, all'epoca. Stan era un attore di seconda fila, con poche occasioni per emergere; Charles, invece, era già un piccolo divo, e cominciava a mostrare i segni del carattere egocentrico e capriccioso per cui sarebbe diventato celebre.
La compagnia andava a cercar fortuna nel Nuovo Mondo. Arrivati in America, Chaplin sfondò. Divenne in breve tempo una celebrità, famosissimo e strapagato, girò i suoi primi capolavori. Fu riconosciuto ovunque come un genio.
Stan no. Tornò in Inghilterra con la coda tra le gambe, poi ripartì di nuovo per l'America, nel 1912, fece un sacco di gavetta, e finalmente incontrò un attore dalla stazza enorme e dal carattere bonario e gentilissimo, che si chiamava Oliver Norvell Hardy; per gli amici "Babe", per gli italiani Ollio.
Ma ci vollero anni: il duo nacque ufficialmente solo nel 1927, con un cortometraggio muto dal titolo "Putting Pants on Philip".
La coppia fu sempre affiatatissima. Mai un litigio, mai uno screzio. Quasi vent'anni di lavoro insieme, fino all'ultimo film, nel 1945. Tra i due, la mente era Laurel: era lui che scriveva le sceneggiature, ideava le gag, dirigeva gli attori, supervisionava il montaggio. Quando qualcuno chiedeva qualcosa a Hardy, lui rispondeva immancabilmente: "Chiedete a Stan".
Laurel e Hardy ebbero un enorme successo, ma per la critica rimasero sempre dei guitti (solo nel 1961 Laurel, ormai vecchio e malato, ricevette un Oscar alla carriera; Hardy se n'era andato quattro anni prima). Chaplin, invece, era l'Artista.
E non è che non sia vero. E' vero.
Eppure, chissà perché, guardando quella foto del 1910, a me viene spontaneo stare dalla parte di Stan.
* Per inciso, Karno (1866-1941) fu un personaggio pittoresco: impresario geniale, scopritore di talenti, amministratore abilissimo, ma anche vero e proprio tiranno e, non ultimo, gran puttaniere. Si dice che fu lui a inventare il cosiddetto casting couch (in parole povere, le attrici per lavorare con lui dovevano prima passare... sul suo divano; in posizione orizzontale, of course).
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venerdì 11 giugno 2010
topografie
No, la foto non c'entra: era solo per darvi un punto di riferimento.
Cliccate qui e scorrete in basso, finché la trovate.
A presto per aggiornamenti.
P.S.: comunque, quello alle mie spalle è il Pian Grande, a Castelluccio di Norcia. Posto splendido, specialmente ora che è stagione di fioritura. E poi si mangia da dio.
(Tanto per dire che anche la poesia ha lo stomaco).
giovedì 10 giugno 2010
musicanti
mercoledì 9 giugno 2010
lunedì 7 giugno 2010
nnnon ci posso cccredere!!!
Da quanto tempo non si vedeva il jazz sulla tv pubblica?
Si accettano scommesse, ma (se si esclude qualche cameo e comparsata a Sanremo o da Arbore) direi almeno 10-15 anni. Da quando Rai3 ha smesso di programmare "Schegge di jazz" e di mandare i concerti di Umbria Jazz (sì, lo so, li mandava a notte fonda, ma vabbè).
Insomma, sono finiti i tempi in cui Mamma Rai ospitava in prima serata roba del genere.
http://www.youtube.com/watch?v=jz_oG5OpyFU
Quindi, quello che succederà l'8, 9 e 10 giugno (in seconda serata, ma vabbè) è quasi un evento.
Succederà che arriva in televisione "Il Dottor Djembè" (sottotitolo: "Via dal solito tam-tam"), la geniale, surreale, divertentissima trasmissione radiofonica condotta da David Riondino insieme a quei due spiritacci di Stefano Bollani e Mirko Guerrini (chi non la conosce è caldamente invitato a scaricarsela in podcast qui).
Ci saranno ospiti come Enrico Rava, Cristina Zavalloni (come? non conoscete Cristina Zavalloni? subito un'occhiata qui, please) e Peppe Servillo, e verranno trasmessi spezzoni delle puntate radiofoniche alle quali hanno partecipato Renzo Arbore, Nicola Piovani, Antonello Salis, Giovanni Sollima, Paolo Fresu (e vi giuro che vedere quelle puntate è tutt'altra cosa dal sentirle: ecco un esempio; e anche un altro, dato che oggi mi sento generoso).
"Buonasera Dottor Djembè" è il titolo. Inizia intorno alle 23,20; su Rai3, ovviamente. Guardatelo. Perché, che ci crediate o no, il jazz può essere esilarante.
sabato 5 giugno 2010
lezioni di musica
Lesson 1: How to tune a piano.
By Charlie Chaplin and Buster Keaton (from "Limelight",1952).
Lesson 2: How to play 4-hands piano.
By Victor Borge (featuring Zhahan Azruni).
By Charlie Chaplin and Buster Keaton (from "Limelight",1952).
http://www.youtube.com/watch?v=ZUpiD8vEw2Y
Lesson 2: How to play 4-hands piano.
By Victor Borge (featuring Zhahan Azruni).
http://www.youtube.com/watch?v=qyArTMtgT1w
venerdì 4 giugno 2010
martedì 1 giugno 2010
esiste la primavera
Vorrei che i vostri occhi potessero vedere
questo cielo sereno che si è aperto,
la calma delle tegole, la dedizione
del rivo d’acqua che si scalda.
La parola è questa: esiste la primavera,
la perfezione congiunta all’imperfetto.
Il fianco della barca asciutta beve
l’olio della vernice, il ragno trotta.
Diremo più tardi quello che deve essere detto.
Per ora guardate la bella curva dell’oleandro,
i lampi della magnolia.
Franco Fortini
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