sabato 31 dicembre 2011

una favola per l'anno nuovo


Esisteva un tempo in cui non c’era letteratura. Oh, non fu un tempo lungo. Diciamo tra i diecimila e tremilioni di anni. Il tempo per la terra di cambiare il trucco tre volte, andare due volte a teatro, cinque al cinema, e iniziare una analisi. Riesco ad immaginare un tempo senza auto, senza locomotive, senza bandiere, primi ministri, preti, zoo, valige ventiquattrore, televisione e dischi microsolco, ma non riesco ad immaginare un mondo, un tempo, una serie, un rosario di generazioni senza letteratura. Non posso non considerare che quegli uomini, quelle donne, avevano assolutamente tutto per fare della letteratura: avevano parole, cimiteri, esclamazioni, malattie, fame, incertezza del domani, fuoco caldo, fuoco ustionante, innamoramenti e disamori, famiglie e adulteri, aborti e stragi, ma non potevano avere la letteratura. Mancavano di cose vilissime che si possono comprare in una tabaccheria; ma i nostri antenati, i pre-Agatha Christie, non avevano tabaccherie. Non avevano carte, né matite, né penne, e anche se le avessero avute non avevano l’alfabeto, e anche se avessero avuto l’alfabeto non avrebbero avuto editori, rilegatori, tipografi, librerie, biblioteche, recensori, premi, titoli, cataloghi, eccetera. Dal mio punto di vista – un po’ limitato, ma onestamente fazioso – per qualche migliaio di generazioni la vita sulla terra dové essere estremamente noiosa. O forse no, non è questa la parola esatta. Dopo tutto c’era da lavorare per campare, ammazzare bestioni, cuocere bestioni, mangiare bestioni, fare i primi passi verso l’Artusi. C’erano caverne molto mistiche e non del tutto comode, e fuori c’erano furibonde estati, secolari inverni, un mondo percorso da angeli della neve, o da infuocati elfi vestiti di rosso. Ma tutto era così lento. La mancanza di giornali aboliva la storia; secolari migrazioni tra abeti e betulle procedevano come processioni, ma nessuno ne sapeva niente, forse nemmeno coloro che migravano. Eppure ho parlato di noia. In realtà solo la letteratura può renderci possibile vivere nel nostro mondo, e tra noi e la catastrofe c’è una tenue barriera non di capolavori, ma di libri modesti, mal stampati, tradotti per pochi soldi; gli innumerevoli opuscoli ai quali, dal tempo di Ramsete, affidiamo la nostra paura di morire, il nostro desiderio di uccidere, il nostro terrore del domani. Domani. A ben considerare, gli orologi sono un genere letterario. Sono scritti, sono eventuali, sono dei contenitori deserti, segneranno con la stessa tranquillità l’ora della nostra nascita, del primo innamoramento, della guerra, della morte. Gli orologi sfogliano la nostra vita. Se è vero che essi appartengono alla letteratura, è anche vero il contrario, cioè che noi siamo la letteratura degli orologi. Gli orologi, suppongo, non credono alla nostra esistenza. Siamo dei “personaggi”, niente altro. Forse ci discutono, e di notte si scambiano recensioni. Si consigliano letture. Quando qualcuno muore, non di rado gli orologi si fermano; no, non sono cani fedeli che muoiono sulla tomba del padrone; semplicemente hanno chiuso un libro-“noi” e ora passano, con le loro ventiquattrore – la valigetta – a leggere un altro. Sono pazienti, e trovano ugualmente interessanti tutti gli eventi cui danno un numero d’ordine. Sono degli stilisti. Le sveglie sono, a mio avviso, cattivi lettori; quelli che vogliono che accada sempre qualcosa e che, a differenza degli orologi, non sanno leggere i sogni. Le sveglie sono i lettori che ci dimenticano in treno, e che fanno un segno piegando ad orecchio la pagina cui sono arrivati.
Dunque, gli uomini di “allora” non avevano orologi; campavano di albe e tramonti, che sarebbe un nobile campare, avendo letteratura, ma non avendola tengono del monotono, ripetitivo, e consiglia a dare nel misticheggiante. Ogni tanto, si fanno film in cui si vede un giovane muscoloso che saluta l’aurora, magari con un torbido suono di canna legnosa, una conchiglia. Naturalmente è tutto falso, perché il concetto di alba e di tramonto sono squisitamente letterari, e al massimo quei signori potevano compiacersi dell’apparire di una luce che consentiva di sapere di esistere. Tenete presente che, come l’alba e il tramonto, molte, o tutte le cose naturali, sono sommamente innaturali ed esistono solo in quanto sono state adoperate come condimento di generi letterari; ad esempio, sebbene la terra brulicasse di fiori e farfalle, non esistevano né fiori né farfalle. Non avevano una esistenza mentale, non erano adoperati all’interno di un grande amore, nessuno sospirava perché, a ben vedere, non c’è nessun motivo per sospirare a causa di un fiore, o di una farfalla, a meno che non si siano letti quei cattivi libri che ci parlano di fiori e di farfalle, e ci aiutano a vivere. No, non voglio dire che quegli uomini fossero insensibili alla autentica bellezza, la bellezza sofisticata, maliziosa, trista, saputa, tracotante, virtuosa, schifiltosa, arzigogolata, incattivita, raffinata, sàdica, equivoca, notturna, teratologica, epifanica, scostante. Quindicimila anni fa un signore analfabeta, non potendo consultare il Liddel e Scott, incise su di un osso un capro che salta, di fronte; lo si può vedere in una grotta dei Pirenei. Ecco, quello era un bizantino, un precettore di Porfirio Optaziano, o di Nonno Panoplita. Mi domando come lo avranno trattato; male non credo, perché un signore capace di incidere quel capro in dodici centimetri d’osso faceva paura. Io ne ho paura anche oggi. Eppure per quell’uomo esistevano i capri e, se fate attenzione, i capri per noi non esistono più, a meno che non siamo grecisti, o psicanalisti alla Hillman. Noi abbiamo i fiori. Per dire “ditelo con i fiori”, bisogna scrivere “ditelo con i fiori”. Letteratura, pessima letteratura.
Il signore che incise il capro, quell’uomo mirabile e scostante, mi fa pensare quel che segue: che gli uomini di allora sapessero che a loro mancava la letteratura. Naturalmente, non sapevano che si chiamava letteratura, né, se lo avessero saputo, avrebbero mai immaginato in che cosa consisteva; ma essi erano privi di qualcosa, qualcosa di decisivo; e quando cercavano, vanamente, di prendere a calci una rara farfalla, la loro ira era mossa, ignara, dalla brama occulta di trovare una rima; ma le rime non c’erano; e se qualcuno, parlando, produceva una rima, lo guardavano come se avesse prodotto un rumore sconveniente. Ora, supponiamo che, nel loro complesso, quei signori sapessero che nelle loro vite, e per molti secoli e millenni nelle vite dei loro figli qualcosa sarebbe mancato, qualcosa che avrebbe cambiato il mondo, senza neppure toccarlo. No, non era una magia, ma qualcosa di magico lo aveva. Allora, come adesso, la maggioranza di coloro che si occupano di letteratura doveva essere fatta di lettori. Come tutti coloro che, a qualsiasi titolo, hanno a che fare con la letteratura, i lettori, anche ‘quei’ lettori che non avevano niente da leggere, anzi ancor di più, non potevano essere uomini normali. Più esattamente, avevano del demente. Certo si aggiravano per le caverne, per le foreste, con gli occhi allucinati, e con una oscura brama che non sapevano decifrare. Ad esempio, si sdraiavano nei pressi di un fiumiciattolo – non potevano sdraiarsi nei pressi di un ruscello perché il ruscello è già letteratura – e cadevano in smanie, parlavano da soli, sfogliavano fiori, non già per amore del fiore, la cui inesistenza abbiamo già acclarata, ma per amore dello ‘sfogliare’; strappavano i fili d’erba, e li guardavano intensamente, ma potevano solo rendersi conto che quel che facevano era simile a quello che volevano fare, ma non più che simile, e neanche tanto. Qualche volta, durante quei loro lenti pasti di carne compatta e ustionata, un tale mosso da un oscuro impulso, avrà pur detto: “Vorrei proprio sapere chi è l’assassino”.
“L’assassino di chi?” avrà chiesto un guerriero ‘veramente’ analfabeta. Quel tale avrà balbettato qualche scusa, avrà cercato di cambiare discorso, giacché lui stesso non sapeva che cosa mai aveva voluto dire. Non è impossibile che ne siano uscite risse, e quel signore che aveva solo bisogno di un onesto libro giallo, sarà stato preso per matto, e matto era, ma non più degli attuali lettori di libri gialli. E ci sarà stata la fanciulla che aveva sospirato: “Chissà se lui la sposa”, e magari a quel tempo non c’era nemmeno il matrimonio, e certo non c’era il grande amore, che non è pensabile prima dei trovatori. I lettori di quel tempo si appartavano in un angolo, un anfratto, tra due alberi, e si annoiavano; parlavano da soli, a vanvera, piangevano, muovevano le mani come per sfogliare inesistenti libri, facevano nodi con i fili d’erba per non perdere il segno, e lentamente sprofondavano in una mite follia. Innocui, accudivano ai bambini, mentre i cacciatori andavano in giro in cerca di animali robusti e grassi, e ai ‘lettori’ toccavano razioni modeste, scarti, ossa da rosicchiare. Le naturali affinità elettive spingevano lettori e lettrici a confortarsi e far prole, e vaneggiando insieme nelle lunghe notti di perfette tenebre coltivarono nei secoli quella dolce e ritmica demenza che è propria di coloro che amano la letteratura. Mi chiedo se i lettori venissero perseguitati; o se forse non venissero affidati loro compiti di basso culto, o magari di raccogliere erbe odorose per gli arrosti, compito nel quale i lettori senza letteratura provavano un piacere misterioso a tutti, a cominciare da loro stessi. Non è impossibile che qualcuno di quei lettori abbia intuito che la coda del mammut era un’allusione all’indice, ma non poté chiarire a se stesso il concetto, giacché il mammut, precursore delle saghe familiari e dei romanzi fiume, era, ed è rimasto, discretamente scomparendo, un animale illeggibile.

Giorgio Manganelli, da "Discorso dell’ombra e dello stemma"
(Milano, Rizzoli “La Scala”, 1982)

2 commenti:

amanda ha detto...

da lettrice a lettore (ma anche poeta) grazie per questo pezzo
e buon anno

sergio pasquandrea ha detto...

buon anno anche a te, Amanda