giovedì 31 marzo 2011
sulla mail di un'amica lontana
Forse in certi casi può aiutare
non so – Duke Ellington o qualcosa
di altrettanto subliminale per combattere ad armi pari
la malinconia per estrarre il dente (il tuo)
dalla carne (mia) per neutralizzare
il tuo profilo affiorato. Tutto avviene ai limiti
del campo visivo ed è meglio
così meglio che affrontare l'assalto
meglio questo dolore
trasparente questa scherma con il vuoto.
mercoledì 30 marzo 2011
recensioni in pillole 102 - "Stray Toasters"
Bill Sienkiewicz, Stray Toasters, Edizioni BD 2010 (pag. non numerate, a colori, € 20)
Stray Toasters è per il fumetto quel che l'Ulysses di Joyce è per il romanzo.
Sienkiewicz me lo ricordavo per il capolavoro Elektra: Assassin, letto nei primi anni Novanta sulla benemerita (e defunta) "Comic Art". Lì, prestava il suo genio visionario alla scrittura di Frank Miller: rivoluzionaria, ma ancorata a un plot supereroistico tutto sommato tradizionale.
Con Stray Toaster (1987), la sua prima prova da autore completo, tutto deflagra. La narrazione si trasforma in un ininterrotto flusso di coscienza, in cui le voci dei personaggi si incrociano e sovrappongono senza soluzione di continuità. Le tavole diventano, in parallelo, uno stream of consciousness grafico dove di tavola in tavola (o di vignetta in vignetta), si giustappongono l'iperrealismo e la caricatura, il fotomontaggio e la materica, burriana colata di colore puro, fino a veri e propri collage di oggetti vari (stoffe, fusibili, lampadine, fili elettrici: il libro ne propone in appendice anche alcuni esempi inediti; qui ne parla Diego Cajelli).
La trama? Beh, si potrebbe dire che, in una distopica metropoli del futuro, un poliziotto-psicologo alcolizzato e con turbe mentali ed esistenziali assortite dà la caccia a un mostruoso essere biomeccanico che uccide donne e rapisce bambini (il "tostapane randagio" del titolo); ma sarebbe come dire che l'Ulysses è la storia di due tizi a spasso per Dublino.
Sienkiewicz ha spiegato (vabbè, spiegato...) il fumetto così:
Io vi do un consiglio: leggetelo. O magari guardatelo soltanto.
Magari alla fine non l'avrete capito, ma sicuramente avrete fatto un'esperienza.
Stray Toasters è per il fumetto quel che l'Ulysses di Joyce è per il romanzo.
Sienkiewicz me lo ricordavo per il capolavoro Elektra: Assassin, letto nei primi anni Novanta sulla benemerita (e defunta) "Comic Art". Lì, prestava il suo genio visionario alla scrittura di Frank Miller: rivoluzionaria, ma ancorata a un plot supereroistico tutto sommato tradizionale.
Con Stray Toaster (1987), la sua prima prova da autore completo, tutto deflagra. La narrazione si trasforma in un ininterrotto flusso di coscienza, in cui le voci dei personaggi si incrociano e sovrappongono senza soluzione di continuità. Le tavole diventano, in parallelo, uno stream of consciousness grafico dove di tavola in tavola (o di vignetta in vignetta), si giustappongono l'iperrealismo e la caricatura, il fotomontaggio e la materica, burriana colata di colore puro, fino a veri e propri collage di oggetti vari (stoffe, fusibili, lampadine, fili elettrici: il libro ne propone in appendice anche alcuni esempi inediti; qui ne parla Diego Cajelli).
La trama? Beh, si potrebbe dire che, in una distopica metropoli del futuro, un poliziotto-psicologo alcolizzato e con turbe mentali ed esistenziali assortite dà la caccia a un mostruoso essere biomeccanico che uccide donne e rapisce bambini (il "tostapane randagio" del titolo); ma sarebbe come dire che l'Ulysses è la storia di due tizi a spasso per Dublino.
Sienkiewicz ha spiegato (vabbè, spiegato...) il fumetto così:
In Stray Toaster ci sono scene visibilmente folli e personaggi che non sono altro che caricature, ma ci sono anche quelli con un aspetto decisamente realistico. Poi ci sono i colpi di scena, messi lì per stupire, ma è molto più di una mescolanza, di una balzana miscellanea di disegnino e di roba forte. È qualcosa di denso in termini di immagini e di oscure vibrazioni. Ho cercato di estendere sempre più la scala delle emozioni, grazie a quella delle espressioni pittoriche. Qualche volta è come dare uno schiaffo in faccia, ma se la scena lo richiede vado in quella direzione.
Io vi do un consiglio: leggetelo. O magari guardatelo soltanto.
Magari alla fine non l'avrete capito, ma sicuramente avrete fatto un'esperienza.
Etichette:
bill sienkiewicz,
fumetto,
recensioni,
recensioni in pillole,
stray toasters
martedì 29 marzo 2011
siamo seri
lunedì 28 marzo 2011
la géante
Du temps que la Nature en sa verve puissante
concevait chaque jour des enfants monstreux,
j'eusse aimé vivre auprès d'une jeune géante,
comme aux pieds d'une reine un chat volupteux.
J'eusse aimé voir son corps fleurir avec son âme
et grandir librement dans ses terribles jeux;
deviner si son cœur couve une sombre flamme
aux humides brouillards qui nagent dans ses yeux;
parcourir à loisir ses magnifiques formes;
ramper sur le versant de ses genoux ènormes,
et parfois en été, quand les soleils malsains,
lasse, la font s'étendre à travers la campagne,
dormir nonchalamment à l'ombre de ses seins,
comme un hameau paisible au pied d'une montagne
Charles Baudelaire
* * *
Nel tempo che la Natura con estro possente
ogni giorno concepiva una prole mostruosa,
avrei voluto vivere presso una giovane gigantessa
come un gatto voluttuoso ai piedi di una regina.
Vedere il suo corpo con la sua anima fiorire,
crescere libero in giochi terribili;
divinare se una scura fiamma covi nel suo cuore
dall'umida caligine che naviga i suoi occhi;
percorrere a mio piacere le sue forme stupende,
scalare i versanti delle sue enormi ginocchia,
e a volte in estate, quando soli malsani
la stendono stremata attraverso la campagna,
dormire pigramente all'ombra dei suoi seni,
come un quieto villaggio ai piedi di una montagna.
Etichette:
charles baudelaire,
feticismo,
la géante,
poesia,
poesie d'amore,
traduzioni
domenica 27 marzo 2011
sabato 26 marzo 2011
soul brother
venerdì 25 marzo 2011
giovedì 24 marzo 2011
primavera 2 (alternate take)
Facendo vela per Bisanzio
I.
Non è un paese per vecchi.
I giovani l'uno nelle braccia dell'altro, gli uccelli sugli alberi –
generazioni mortali – nel loro canto,
cascate di salmoni, mari affollati di sgombri,
pesce, carne, volatile, lodano per l'intera estate
tutto ciò che è generato, che nasce e che muore.
Presi in quella musica sensuale, tutti trascurano
i monumenti dell'intelletto che non invecchia.
II.
Un vecchio è una cosa meschina,
un cappotto stracciato su un bastone, salvo
che l'anima batta le mani e canti, canti più forte
per ogni strappo nel suo abito mortale,
e non vi è scuola per il canto se non studiare
i monumenti della sua magnificenza;
perciò ho alzato le vele e sono venuto
alla città santa di Bisanzio.
III.
O saggi che state nel fuoco sacro di Dio
come nel mosaico dorato di un muro,
uscite dal fuoco sacro, discendete in spirale
e siate i maestri cantori della mia anima.
Consumate il mio cuore per intero; ammalato di desiderio
e allacciato a un animale morente
non sa chi sia; e accomunatemi
nell'artificio dell'eternità.
IV.
Fuori della natura non riprenderò mai più
la mia forma corporea da cose naturali,
ma una forma quale forgiano gli orefici Greci
d'oro battuto e d'oro smaltato
per tener sveglio un Imperatore sonnolento;
o posato su un ramo dorato a cantare
ai signori e alle dame di Bisanzio
di ciò che è passato, o che passa, o che verrà.
W. B. Yeats, da “The Tower” (1927)
mercoledì 23 marzo 2011
martedì 22 marzo 2011
bombe democratiche
Che cosa dire, che non sia già stato detto o che non sia di per sé evidente?
Che fino a ieri facevamo salamelecchi a Gheddafi e oggi lo bombardiamo?
Che fino a ieri era un fedele alleato e oggi è un criminale?
Che, se proprio si aveva tutta questa voglia di riportare la democrazia in Libia, ci si poteva pensare prima e in altri modi?
Che - Iraq e Afghanistan insegnano - non necessariamente rovesciare un dittatore significa portare la democrazia, e tantomeno far stare meglio la popolazione civile?
Che questi bombardamenti servono non ad eliminare Gheddafi, ma a cercare di assicurarci gasolio e petrolio per i prossimi 5 o 10 anni?
Che in effetti nessuno ha una chiara idea di che cosa succederà in Libia, se e quando non ci sarà più Gheddafi?
Che ieri sera Bersani al TG1, impegnato in mille precisazioni ("sì, l'Italia ripudia la guerra, però stavolta c'è un accordo internazionale, perciò...") mi ha fatto quasi più schifo di Berlusconi?
Che ancora una volta, dopo millenni di civiltà umana, le questioni sappiamo risolverle solo con le bombe?
Basta, sono veramente stufo di tutto. Voglio cambiare universo.
lunedì 21 marzo 2011
primavera
A primavera, quando
l'acqua dei fiumi deriva nelle gore
e lungo l'orto sacro delle vergini
ai meli cidoni apre il fiore,
e altro fiore assale i tralci della vite
nel buio delle foglie;
in me Eros,
che mai alcuna età mi rasserena,
come il vento del nord rosso di fulmini,
rapido muove: così, torbido
spietato arso di demenza,
custodisce tenace nella mente
tutte le voglie che avevo da ragazzo.
(Ibico - traduzione di Salvatore Quasimodo)
domenica 20 marzo 2011
le cose e le parole
M'accompagna nella visita a Kyoto uno studente giapponese, appassionato di poesia e poeta egli stesso, che legge molto bene l'italiano e lo parla anche un po'. Ma la conversazione è difficile perché entrambi vorremmo dire cose o molto precise o molto sfumate e invece riusciamo a scambiarci solo frasi o troppo generiche o troppo perentorie.
Il giovane spiega che prima che dagli imperatori questi luoghi erano frequentati da famosi poeti, ora ricordati da lapidi e tempietti tra gli alberi. Seguendo il filo delle mie riflessioni, mi viene da pensare che qui poesie e giardini si generano gli uni dagli altri a vicenda: i giardini venivano composto come illustrazioni a poesie e le poesie venivamo composte come commento ai giardini. Ma mi viene da pensarlo più per amore della simmetria nei ragionamenti che perché ne sia veramente convinto: ossia, trovo ben plausibile che si possa fare con la disposizione degli alberi l'equivalente d'una poesia, ma sospetto che per scrivere una poesia sugli alberi gli alberi veri servano poco o nulla.
Ecco, sopra gli alberi rossi e ruggine e gialli al di là del laghetto, sporgono i rami nudi d'un unico albero che ha perduto le foglie. Tra quel fiammeggiare di colori, quei rami neri e stecchiti fanno un contrasto funereo. Passa uno stormo d'uccelli e tra tutti gli alberi intorno puntano dritti sull'albero spoglio, calano sui rami, si posano lì a uno a uno, neri contro il cielo, a godersi il sole di novembre.
Penso: ecco che il paesaggio mi ha dettato il tema per una poesia; se sapessi il giapponese, mi basterebbe descrivere questa scena in tre versi di diciassette sillabe in tutto, e avrei fatto un haiku. Provo a comunicare l'idea al giovane poeta. Non pare convinto. Segno che gli haiku si compongono in un altro modo. O che non ha senso aspettarsi che un paesaggio ti detti delle poesie, perché una poesia è fatta di idee e di parole e di sillabe, mentre un paesaggio è fatto di foglie e di colori e di luce.
Ecco, sopra gli alberi rossi e ruggine e gialli al di là del laghetto, sporgono i rami nudi d'un unico albero che ha perduto le foglie. Tra quel fiammeggiare di colori, quei rami neri e stecchiti fanno un contrasto funereo. Passa uno stormo d'uccelli e tra tutti gli alberi intorno puntano dritti sull'albero spoglio, calano sui rami, si posano lì a uno a uno, neri contro il cielo, a godersi il sole di novembre.
Penso: ecco che il paesaggio mi ha dettato il tema per una poesia; se sapessi il giapponese, mi basterebbe descrivere questa scena in tre versi di diciassette sillabe in tutto, e avrei fatto un haiku. Provo a comunicare l'idea al giovane poeta. Non pare convinto. Segno che gli haiku si compongono in un altro modo. O che non ha senso aspettarsi che un paesaggio ti detti delle poesie, perché una poesia è fatta di idee e di parole e di sillabe, mentre un paesaggio è fatto di foglie e di colori e di luce.
Italo Calvino, Il rovescio del sublime (da "Collezione di sabbia")
sabato 19 marzo 2011
consulenza didattica
Precisazione iniziale (ed essenziale): io ho iniziato la mia carriera di ascoltatore con la musica classica, quando, verso gli 8 o 9 anni, ho cominciato a studiare pianoforte; poi, dopo un breve passaggio per la musica leggera italiana - principalmente cantautori - intorno ai 14-15, sono approdato direttamente al jazz.
Quindi, nei confronti del rock, nutro in genere quell'atteggiamento, misto di accondiscendenza e di malcelato disprezzo, che caratterizza gli appassionati di classica e di jazz, categorie che nel mio caso coincidono, potenziandosi a vicenda.
Il rock, detto fuori dai denti, non è che non mi piaccia, ma mi pare così... ecco: rudimentale. Così legato alla visceralità, dalla quale non riesce a strapparsi senza perdere la sua stessa ragion d'essere, e senza mai approdare a una vera, autentica complessità. Lo so, il mio è un pregiudizio, tant'è vero che ci sono cose del rock che mi piacciono (ma, guardacaso, sono sempre e solo quelle in cui le radici nere sono più o meno evidenti; caso emblematico: Jimi Hendrix).
Ciò nonostante, il rock è un fenomeno sociologico interessantissimo, e qui veniamo al punto.
Sto preparando, insieme a un paio di colleghi, un percorso sull'adolescenza, letta proprio attraverso il rock.
In calce trovate il progetto nelle sue linee generali. Sono previste 3 lezioni da un'ora circa, quindi l'approfondimento è quel che è. Opinioni e consigli sono ben accetti.
L'invenzione dei giovani. Rock e pubblico giovanile nell'America del secondo Novecento
PRESENTAZIONE
Nell'America degli anni '50, la nascita del rock'n'roll coincise con la comparsa di una nuova figura sociale: il teenager. Questa musica, che fondeva radici nere e bianche proponendo un modello del tutto eversivo rispetto alla precedente popular music, trovò un aggancio naturale con quegli adolescenti che, per la prima volta nella storia dell'America, avevano la possibilità di spendere per il proprio tempo libero e che, quindi, costituivano un nuovo e inedito soggetto economico.
Nato come controcultura, il rock fu subito fagocitato dalla cultura di massa, come dimostra la vicenda musicale ed umana di Elvis Presley, il primo divo confezionato appositamente per il pubblico giovanile.
La tensione tra eversione e conformismo costituisce un asse costante nella storia del rock, che nei decenni ha spesso oscillato tra il farsi portavoce delle istanze della controcultura e il lasciarsi usare dalla cultura di massa. Attraverso il rock, si può quindi leggere in filigrana molto del rapporto tra i giovani e la società, nel secondo Novecento.
Queste lezioni si focalizzano su tre momenti topici: la seconda metà degli anni '50, quando il fenomeno-rock esplose; gli anni '60, in cui il rock divenne il portabandiera della contestazione giovanile; e gli anni '80-'90, in cui esso evidenzia bene la tensione tra controcultura e industria culturale.
Nato come controcultura, il rock fu subito fagocitato dalla cultura di massa, come dimostra la vicenda musicale ed umana di Elvis Presley, il primo divo confezionato appositamente per il pubblico giovanile.
La tensione tra eversione e conformismo costituisce un asse costante nella storia del rock, che nei decenni ha spesso oscillato tra il farsi portavoce delle istanze della controcultura e il lasciarsi usare dalla cultura di massa. Attraverso il rock, si può quindi leggere in filigrana molto del rapporto tra i giovani e la società, nel secondo Novecento.
Queste lezioni si focalizzano su tre momenti topici: la seconda metà degli anni '50, quando il fenomeno-rock esplose; gli anni '60, in cui il rock divenne il portabandiera della contestazione giovanile; e gli anni '80-'90, in cui esso evidenzia bene la tensione tra controcultura e industria culturale.
1) GLI ANNI '50: La nascita del rock'n'roll.
- L'esplosione del fenomeno-rock: Bill Haley (ascolto: “Rock Around the Clock”);
- La “preistoria” del rock: musiche nere (blues, rhythm'n'blues, boogie woogie) e bianche (country);
- La “cultura di massa” in America:
Le prime forme di musica “di massa” tra le due guerre: lo swing (“Sing Sing Sing”), i crooners (Sinatra);
Benessere e consumismo negli anni Cinquanta;
La nascita di una nuova figura sociale: il teenager.
- Le prime star: bianchi e neri (Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Buddy Holly, Little Richard, Bill Haley...) (esempi musicali);
- Elvis Presley: il nuovo idolo dei teenagers (ascolto: “Hound Dog”).
2) GLI ANNI '60: Contestazione e controcultura.
- La “British invasion”: Beatles, Rolling Stones, Who
Beatles: “All you need is Love”, “She's Leaving Home”;
Who: “My Generation”;
Rolling Stones: “Satisfaction”.
Le controculture giovanili in America: Bob Dylan
- i predecessori (il folk “impegnato” di Woody Guthrie e Pete Seeger);
- il primo Dylan (“Blowin' in the Wind”, “Masters of War”, “Times They Are A-Changin'”, “It's A Hard Rain Gonna Fallin'”, “My Back Pages”);
- Dylan e Joan Baez;
- il Dylan della svolta “rock” (“Like a Rolling Stone”).
- Gli hippies e la contestazione giovanile; la “Summer of Love” di San Francisco; la psichedelia (Jefferson Airplane, Grateful Dead);
- La contestazione sbarca in Italia: il beat, le canzoni di protesta;
“C'era un ragazzo che come me...”
“Come potete giudicar”
“Nessuno mi può giudicare”
“L'isola di Wight”
“Il ragazzo della Via Gluck”
“Mettete dei fiori nei vostri cannoni”
- Il Festival di Woodstock (estratti video);
- Rock e mito del maledettismo: Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin;
(esempi musicali: “Star Spangled Banner”, “Light My Fire”, “Try”, “Mercedes Benz”).
3) GLI ANNI '80 e '90: Tra conformismo ed eversione
- Il rock diventa conformista: hair metal, “arena rock”, pop-rock (esempi musicali);
MTV e i video musicali (“Video Killed the Radio Stars”);
Gli idoli pop: Madonna, Michael Jackson;
- L'eversione: punk, new wave, dark, no-wave...
(esempi musicali: “God Save the Queen”, Cure, Joy Division, U2, Diaframma...);
- Il ritorno alle radici del rock: Bruce Springsteen (“Born in the U.S.A”, “The Ghost of Tom Joad”);
- Il rap: tra subcultura e cultura dominante (origini, sviluppi; il rap da musica “di strada” a musica “di massa”)
- Gli anni '90: il grunge (“Smells Like Teen Spirit”)
venerdì 18 marzo 2011
recensioni in pillole 101 - "Medioevo simbolico"
Michel Pastoureau, Medioevo simbolico, Laterza 2010 (404 pp. + illustrazioni, € 22)
Pochi territori sono più scivolosi di quello del simbolo, così facile a farsi piegare a derive mistico-esoteriche più o meno deliranti.
Non è questo il caso di Pastoureau, ovviamente, che è uno dei più noti e rispettati medievisti al mondo. E che in questo “Medioevo simbolico” (o, secondo il titolo originale, meno suggestivo ma più rigoroso, “Une historie symbolique du Moyen Âge occidental”) offre una silloge di saggi che consentono di gettare uno sguardo su un sistema di pensiero tanto affascinante quanto alieno per noi moderni.
I saggi sono raggruppati intorno a cinque temi, che corrispondono ad aree di interesse coltivate da Pastoureau nella sua lunga carriera accademica: gli animali, i vegetali, i colori, gli emblemi araldici e i giochi. Impossibile, per ovvie ragioni, dare un'idea anche sommaria del contenuto; basti dire che il processo va sempre dal particolare all'universale, partendo da domande limitate per arrivare alle strutture profonde che governano l'immaginario di un'intera epoca.
Tanto per fare qualche esempio: perché mai nel Medioevo era considerato legittimo, persino doveroso processare e giustiziare in pubblico un maiale che aveva ucciso un neonato? perché ancor oggi consideriamo il leone “re degli animali”? perché i nobili medievali cacciavano il cervo, e non altri animali? da dove deriva il giglio, che era l'emblema dei re di Francia? come percepivano i colori gli uomini del Medioevo? perché il mestiere dei tintori era malvisto? perché Giuda veniva rappresentato con i capelli rossi? quando e come nacquero gli stemmi araldici? e quando arrivarono in Occidente gli scacchi?
Ma forse il capitolo più interessante e rivelatore è l'ultimo, il più breve, intitolato “Risonanze”, nel quale Pastoureau parla delle favole di La Fontaine, di un sonetto di Gérard de Nerval e di “Ivanhoe” di Walter Scott. Tre temi che con il Medioevo vero e proprio sembrano entrarci poco: ma che dimostrano come il Medioevo, non solo quello storico ma anche quello sognato e idealizzato nei secoli successivi, continui ad informare il nostro immaginario.
O, come scrive Pastoureau:
Pochi territori sono più scivolosi di quello del simbolo, così facile a farsi piegare a derive mistico-esoteriche più o meno deliranti.
Non è questo il caso di Pastoureau, ovviamente, che è uno dei più noti e rispettati medievisti al mondo. E che in questo “Medioevo simbolico” (o, secondo il titolo originale, meno suggestivo ma più rigoroso, “Une historie symbolique du Moyen Âge occidental”) offre una silloge di saggi che consentono di gettare uno sguardo su un sistema di pensiero tanto affascinante quanto alieno per noi moderni.
I saggi sono raggruppati intorno a cinque temi, che corrispondono ad aree di interesse coltivate da Pastoureau nella sua lunga carriera accademica: gli animali, i vegetali, i colori, gli emblemi araldici e i giochi. Impossibile, per ovvie ragioni, dare un'idea anche sommaria del contenuto; basti dire che il processo va sempre dal particolare all'universale, partendo da domande limitate per arrivare alle strutture profonde che governano l'immaginario di un'intera epoca.
Tanto per fare qualche esempio: perché mai nel Medioevo era considerato legittimo, persino doveroso processare e giustiziare in pubblico un maiale che aveva ucciso un neonato? perché ancor oggi consideriamo il leone “re degli animali”? perché i nobili medievali cacciavano il cervo, e non altri animali? da dove deriva il giglio, che era l'emblema dei re di Francia? come percepivano i colori gli uomini del Medioevo? perché il mestiere dei tintori era malvisto? perché Giuda veniva rappresentato con i capelli rossi? quando e come nacquero gli stemmi araldici? e quando arrivarono in Occidente gli scacchi?
Ma forse il capitolo più interessante e rivelatore è l'ultimo, il più breve, intitolato “Risonanze”, nel quale Pastoureau parla delle favole di La Fontaine, di un sonetto di Gérard de Nerval e di “Ivanhoe” di Walter Scott. Tre temi che con il Medioevo vero e proprio sembrano entrarci poco: ma che dimostrano come il Medioevo, non solo quello storico ma anche quello sognato e idealizzato nei secoli successivi, continui ad informare il nostro immaginario.
O, come scrive Pastoureau:
Dobbiamo scandalizzarci che questo Medioevo archetipico sia a volte così lontano dalla verità storica o presunta tale? Certamente no. […] Perché l'immaginario fa sempre parte della realtà, e l'immaginario del Medioevo che portiamo in noi, per affettivo ed onirico che sia, è una realtà: esiste, lo sentiamo, lo viviamo.
Etichette:
medioevo simbolico,
michel pastoureau,
recensioni,
recensioni in pillole,
saggistica,
storia
giovedì 17 marzo 2011
più passa il tempo...
http://www.youtube.com/watch?v=NmmFKu4FEbc
... più mi rendo conto che, del jazz, le cose da capire sono veramente poche.
O meglio, di cose da capire ce ne sarebbero tante. Ma non sono quelle veramente importanti.
mercoledì 16 marzo 2011
certe volte, davvero, li invidio
http://www.youtube.com/watch?v=p6pGYbkEB_U
Quelli che leggono Baricco convinti di leggere letteratura.
Quelli che ascoltano Bocelli convinti di ascoltare lirica.
Quelli che ascoltano Giovanni Allevi e vanno in sollucchero credendo di ascoltare musica classica.
Quelli che citano Antonio D'Orrico, o Andrea Cortellessa che fa lo stesso.
Quelli che rispondono agli appelli, fanno girare mail su bambine malate di cancro, espongono su FaceBook massime di Paulo Coelho.
Quelli sicuri di essere fuori dalla massa.
Quelli felicemente nella massa.
Quelli con le mani in pasta.
Quelli che ascoltano Tiziano Ferro nella convinzione che quella pappetta molliccia sia una (bella) voce.
Quelli che si sentono indispensabili.
Quelli che hanno trovato il proprio posto.
Quelli che si sentono meglio.
Quelli che si sentono nel giusto.
Quelli che hanno la risposta in tasca.
Quelli che leggono il libro in vetrina.
Quelli che si sentono intelligenti.
Quelli che si uniscono al trenino.
Quelli con la coscienza tranquilla.
Quelli che hanno trovato un eroe.
Quelli sicuri di fare opposizione.
Quelli che se non ci fosse Silvio oggi in Italia comanderebbero i comunisti.
Quelli che meno male che c'è Silvio sennò ci toccherebbe governare noi.
Quelli che pensano a Ligabue come a un cantautore.
Quelli che scrivono brutte poesie.
Quelli che vendono.
Quelli di buon umore.
Quelli che sono amici del mondo.
Quelli che lavorano da provocatori.
Quelli che ne escono sempre puliti.
martedì 15 marzo 2011
lampi - 112
lunedì 14 marzo 2011
sì, vabbè, è lunedì mattina...
... però non facciamone un dramma.
Una bella sferzata d'energia per svegliarsi (e grazie a Marco per il suggerimento).http://www.youtube.com/watch?v=197mebs7T8w
domenica 13 marzo 2011
moi est un autre
sabato 12 marzo 2011
venerdì 11 marzo 2011
les verts paradis
giovedì 10 marzo 2011
recensioni in pillole 100 - "Alta società"
Dave Sim, Alta Società, Blackvelvet 2010 (518 pp., € 30)
La traduzione di "Cerebus" è, senza mezzi termini, un evento. Finora Dave Sim non aveva mai acconsentito a far tradurre questa sterminata saga a fumetti (oltre seimila pagine, realizzate nel corso di quasi trent'anni, dal 1977 al 2004, suddivise in trecento numeri e poi raccolte in sedici voluminosi tomi, ironicamente soprannominati da Sim stesso "phone books", elenchi telefonici). Una vera e propria "opera-mondo", come viene definita nell'introduzione.
Ma andiamo per ordine.
"Cerebus" nasce nel 1977 come una parodia della heroic fantasy in stile "Conan il Barbaro", e tale rimane per i primi anni. Il protagonista, Cerebus appunto, è un oritteropo (ossia, questa bestia qua) antropomorfizzato e rappresentato come un barbaro cinico, brutale e privo di scrupoli morali, anche se, a suo modo, simpatico.
Fu proprio con questo "High Society" che la serie cambiò decisamente direzione e alzò le proprie ambizioni.
Non tento nemmeno di riassumere la trama, che è complicatissima: basti dire che si tratta di un'unica, articolata narrazione in cui Cerebus arriva nella città di Iest, popolata da una casta di inetti burocrati, che passano il tempo ad intascare bustarelle e ad architettare machiavelliche macchinazioni politiche. Preso sotto la protezione dell'ambigua e manipolatrice Astoria, si trova a confrontarsi con lo spregiudicato Lord Julius (che ha esattamente le fattezze e i modi del Groucho Marx di Duck Soup) per la carica di Primo Ministro. Verrà eletto ma, con le sue maniere da barbaro, provocherà una catastrofe.
Il tutto è condito con un'ironia acre, personaggi sopra le righe (fra i tanti: un supereroe schizofrenico travestito da bacarozzo, un vanesio spadaccino albino, un'elfa sexy, una setta di adoratori dell'oritteropo e due gorilleschi fratelli mercenari), una trama ad orologeria e disegni che riescono a rendere credibile questo mondo folle e grottesco, attraverso una serie di spericolate invenzioni grafiche e narrative.
Ah, a proposito: "Cerebus" è stato interamente autoprodotto da Sim, che ha realizzato (quasi) tutto da solo, testi e disegni. Nel frattempo, è passato da fricchettone consumatore di sostanze psichedeliche a cristiano fondamentalista, ostile al femminismo e alla società contemporanea.
Il genio ha sempre un prezzo.
La traduzione di "Cerebus" è, senza mezzi termini, un evento. Finora Dave Sim non aveva mai acconsentito a far tradurre questa sterminata saga a fumetti (oltre seimila pagine, realizzate nel corso di quasi trent'anni, dal 1977 al 2004, suddivise in trecento numeri e poi raccolte in sedici voluminosi tomi, ironicamente soprannominati da Sim stesso "phone books", elenchi telefonici). Una vera e propria "opera-mondo", come viene definita nell'introduzione.
Ma andiamo per ordine.
"Cerebus" nasce nel 1977 come una parodia della heroic fantasy in stile "Conan il Barbaro", e tale rimane per i primi anni. Il protagonista, Cerebus appunto, è un oritteropo (ossia, questa bestia qua) antropomorfizzato e rappresentato come un barbaro cinico, brutale e privo di scrupoli morali, anche se, a suo modo, simpatico.
Fu proprio con questo "High Society" che la serie cambiò decisamente direzione e alzò le proprie ambizioni.
Non tento nemmeno di riassumere la trama, che è complicatissima: basti dire che si tratta di un'unica, articolata narrazione in cui Cerebus arriva nella città di Iest, popolata da una casta di inetti burocrati, che passano il tempo ad intascare bustarelle e ad architettare machiavelliche macchinazioni politiche. Preso sotto la protezione dell'ambigua e manipolatrice Astoria, si trova a confrontarsi con lo spregiudicato Lord Julius (che ha esattamente le fattezze e i modi del Groucho Marx di Duck Soup) per la carica di Primo Ministro. Verrà eletto ma, con le sue maniere da barbaro, provocherà una catastrofe.
Il tutto è condito con un'ironia acre, personaggi sopra le righe (fra i tanti: un supereroe schizofrenico travestito da bacarozzo, un vanesio spadaccino albino, un'elfa sexy, una setta di adoratori dell'oritteropo e due gorilleschi fratelli mercenari), una trama ad orologeria e disegni che riescono a rendere credibile questo mondo folle e grottesco, attraverso una serie di spericolate invenzioni grafiche e narrative.
Ah, a proposito: "Cerebus" è stato interamente autoprodotto da Sim, che ha realizzato (quasi) tutto da solo, testi e disegni. Nel frattempo, è passato da fricchettone consumatore di sostanze psichedeliche a cristiano fondamentalista, ostile al femminismo e alla società contemporanea.
Il genio ha sempre un prezzo.
Etichette:
cerebus,
dave sim,
fumetti,
recensioni,
recensioni in pillole
mercoledì 9 marzo 2011
martedì 8 marzo 2011
lunedì 7 marzo 2011
domenica 6 marzo 2011
salendo alta nell'aria
Salendo alta nell’aria, questa voce,
Facendosi più calde, meno rare
Le correnti, si unisce alla precoce
Sera, si incrina e increspa contro il mare;
Invece in quella terra da cui parte
Il grido, quella parte d’ombelico
Di uno che intravisto da una parte
Tremare dentro recita al nemico
La ferita dando ogni forza all’erba
Che ne accoglie le membra e si distacca
Poco a poco una pelle che non serba
Più acqua o proteine, in cui la sacca
Dell’uretra si scassa e quanto innerba
La lacca delle urine gela in biacca.
Andrea Raos
(da "Aspettami, dice", Pieraldo 2003)
(da "Aspettami, dice", Pieraldo 2003)
sabato 5 marzo 2011
recensioni in pillole 99 - "Il cacciatore nero"
Pierre Vidal-Naquet, Il cacciatore nero. Forme di pensiero e forme d'articolazione sociale nel mondo greco antico, Feltrinelli 2006 (386 pp., € 40)
Chiunque si sia occupato, anche tangenzialmente, della Grecia antica non può non aver incontrato il nome di Pierre Vidal-Naquet; ad esempio, nei fondamentali studi sulla tragedia pubblicati insieme a Jean-Pierre Vernant.
“Il cacciatore nero” (la cui edizione originale francese è del 1981) si presenta, all'apparenza, come una raccolta di saggi già pubblicati altrove e spazianti in ambiti piuttosto vari: la concezione dello spazio e del tempo nella Grecia arcaica; alcune figure sociali “marginali” nella società greca, quali l'adolescente, la donna, lo schiavo, l'artigiano; le teorizzazioni circa la città, nella quale ovviamente Platone fa la parte del leone.
Temi spesso astrusi per chi non abbia familiarità con le complesse questioni filologiche, archeologiche e storiche affrontate dall'autore, che da parte sua concede ben poco al lettore sprovveduto, mostrando tutto il fronte della sua vasta erudizione.
In realtà, “Il cacciatore nero” è un'opera profondamente unitaria, ma la sua unità si ritrova non tanto nei temi, quanto nella prospettiva teorica e metodologica adottata da Vidal-Naquet. Prospettiva esemplificata nel sottotitolo: “Forme di pensiero e forme d'articolazione sociale”.
Lo scopo è di trovare il punto d'unione tra la dimensione simbolica (il pensiero) e quella materiale (la società): cercare le intersezioni, gli snodi, le infinite azioni e retroazioni attraverso cui le due dimensioni si influenzano a vicenda.
Ciò equivale anche a superare gli steccati metodologici, facendo interagire filologia e antropologia, storia sociale e storia della filosofia, archeologia e mitologia, testo e contesto; superando, ad esempio, sia le aride secche strutturaliste (il pensiero assoluto, staccato dalla storia) sia l'ortodossia di stampo sociologico-marxista (il pensiero asservito alle contingenze storiche):
Come scrive l'autore stesso (pp. 155-156):
Chiunque si sia occupato, anche tangenzialmente, della Grecia antica non può non aver incontrato il nome di Pierre Vidal-Naquet; ad esempio, nei fondamentali studi sulla tragedia pubblicati insieme a Jean-Pierre Vernant.
“Il cacciatore nero” (la cui edizione originale francese è del 1981) si presenta, all'apparenza, come una raccolta di saggi già pubblicati altrove e spazianti in ambiti piuttosto vari: la concezione dello spazio e del tempo nella Grecia arcaica; alcune figure sociali “marginali” nella società greca, quali l'adolescente, la donna, lo schiavo, l'artigiano; le teorizzazioni circa la città, nella quale ovviamente Platone fa la parte del leone.
Temi spesso astrusi per chi non abbia familiarità con le complesse questioni filologiche, archeologiche e storiche affrontate dall'autore, che da parte sua concede ben poco al lettore sprovveduto, mostrando tutto il fronte della sua vasta erudizione.
In realtà, “Il cacciatore nero” è un'opera profondamente unitaria, ma la sua unità si ritrova non tanto nei temi, quanto nella prospettiva teorica e metodologica adottata da Vidal-Naquet. Prospettiva esemplificata nel sottotitolo: “Forme di pensiero e forme d'articolazione sociale”.
Lo scopo è di trovare il punto d'unione tra la dimensione simbolica (il pensiero) e quella materiale (la società): cercare le intersezioni, gli snodi, le infinite azioni e retroazioni attraverso cui le due dimensioni si influenzano a vicenda.
Ciò equivale anche a superare gli steccati metodologici, facendo interagire filologia e antropologia, storia sociale e storia della filosofia, archeologia e mitologia, testo e contesto; superando, ad esempio, sia le aride secche strutturaliste (il pensiero assoluto, staccato dalla storia) sia l'ortodossia di stampo sociologico-marxista (il pensiero asservito alle contingenze storiche):
Come scrive l'autore stesso (pp. 155-156):
Oggi lo storico sa che l'oggetto della sua ricerca non è, a rigor di termini, né il particolare né l'universale […]; lo storico sa che la verità sulla storia di quell'unico villaggio bretone non sarà mai reperibile nella storia di quell'unico villaggio bretone; peraltro, le diverse metastorie che gli si propongono, dal marxismo più o meno rinnovato alla psicoanalisi, dalla filosofia della curva dei prezzi a quella della logica universale, non lo dispenseranno mai dal far ritorno a quel villaggio.
venerdì 4 marzo 2011
recensioni in pillole 98 - "Quartieri lontani"
Jiro Taniguchi, Quartieri lontani, Coconino Press / Fandango, 2010 (414 pp., € 19,50)
L'idea non è certo nuova. Così a memoria, potrei citare almeno quattro o cinque film che la sfruttano.
L'idea è questa: chi non ha mai desiderato rivivere qualche episodio della propria vita? Correggere gli errori, le figuracce, le mille stupide disattenzioni delle quali è costellata la nostra vita?
A Hiroshi Nakahara, impiegatuccio di mezza età, capita proprio quest'occasione. Per una strana distorsione temporale (della quale non viene fornita alcuna spiegazione) si trova a rivivere i propri quattordici anni. O meglio, si trova proiettato indietro nel tempo, con il corpo di un quattordicenne, ma con la mente e i ricordi di un adulto.
Passato il primo smarrimento, se ne approfitta come faremmo tutti: diventa bravissimo a scuola, umilia il compagno che l'aveva sempre disprezzato, conquista la ragazzina alla quale non aveva mai avuto il coraggio di rivolgere la parola. Poi comincia a pensare di poter fare qualcosa di meglio: conoscere più a fondo il proprio padre, magari impedirgli di andarsene di casa, da un giorno all'altro, senza spiegazioni.
L'idea non è nuova, dicevo. La differenza, però, la fa il come; o, in questo caso, il chi: Jiro Taniguchi.
Di lui ho già parlato, e non ho molto da aggiungere al proposito. Qui, la vicenda si concentra sulle piccole storie dei piccoli uomini che popolano la provincia giapponese dei primi anni Sessanta, ricostruita con affettuosa minuzia; e si trasforma in una sorta di romanzo di formazione al contrario: non un ragazzo che impara a diventare adulto, bensì un adulto che, confrontandosi con il sé stesso ragazzo, riesce a ripensare la propria vita.
Il tutto raccontato con lo stile lieve e profondo che è tipico di Taniguchi.
P.S.: una versione filmata (francese) del fumetto è prevista in uscita per quest'anno.
P.P.S.: il libro era già uscito nel 2006, con il titolo “In una lontana città”, per Rizzoli.
P.P.P.S.: nell'ultima pagina, è specificato che il ribaltamento del fumetto, per adattarlo al senso di lettura occidentale, è stato operato per precisa volontà dell'autore; peccato che in alcune vignette l'ordine dei baloons sia rimasto quello originale, ingenerando così qualche ambiguità nella lettura.
L'idea non è certo nuova. Così a memoria, potrei citare almeno quattro o cinque film che la sfruttano.
L'idea è questa: chi non ha mai desiderato rivivere qualche episodio della propria vita? Correggere gli errori, le figuracce, le mille stupide disattenzioni delle quali è costellata la nostra vita?
A Hiroshi Nakahara, impiegatuccio di mezza età, capita proprio quest'occasione. Per una strana distorsione temporale (della quale non viene fornita alcuna spiegazione) si trova a rivivere i propri quattordici anni. O meglio, si trova proiettato indietro nel tempo, con il corpo di un quattordicenne, ma con la mente e i ricordi di un adulto.
Passato il primo smarrimento, se ne approfitta come faremmo tutti: diventa bravissimo a scuola, umilia il compagno che l'aveva sempre disprezzato, conquista la ragazzina alla quale non aveva mai avuto il coraggio di rivolgere la parola. Poi comincia a pensare di poter fare qualcosa di meglio: conoscere più a fondo il proprio padre, magari impedirgli di andarsene di casa, da un giorno all'altro, senza spiegazioni.
L'idea non è nuova, dicevo. La differenza, però, la fa il come; o, in questo caso, il chi: Jiro Taniguchi.
Di lui ho già parlato, e non ho molto da aggiungere al proposito. Qui, la vicenda si concentra sulle piccole storie dei piccoli uomini che popolano la provincia giapponese dei primi anni Sessanta, ricostruita con affettuosa minuzia; e si trasforma in una sorta di romanzo di formazione al contrario: non un ragazzo che impara a diventare adulto, bensì un adulto che, confrontandosi con il sé stesso ragazzo, riesce a ripensare la propria vita.
Il tutto raccontato con lo stile lieve e profondo che è tipico di Taniguchi.
P.S.: una versione filmata (francese) del fumetto è prevista in uscita per quest'anno.
P.P.S.: il libro era già uscito nel 2006, con il titolo “In una lontana città”, per Rizzoli.
P.P.P.S.: nell'ultima pagina, è specificato che il ribaltamento del fumetto, per adattarlo al senso di lettura occidentale, è stato operato per precisa volontà dell'autore; peccato che in alcune vignette l'ordine dei baloons sia rimasto quello originale, ingenerando così qualche ambiguità nella lettura.
Etichette:
coconino press,
jiro taniguchi,
quartieri lontani,
recensioni,
recensioni in pillole
giovedì 3 marzo 2011
passaggi
- Padre, ci hanno ammazzato.
- Chi?
- Noi. Nel passare il fiume. Ci fischiarono le pallottole finché ammazzarono tutti.
- Dove?
- Là, a Paso del Norte, mentre ci abbagliavano le lanterne, quando stavamo traversando il fiume.
- E perché?
- Non l'ho saputo, padre. Si ricorda di Estanislao? Fu lui che mi montò la testa per andarcene di là. Mi disse com'era tutta la vicenda e ce ne andammo prima a México e da lì al Paso. E stavamo passando il fiume, quando ci fucilarono coi mauser. Mi girai perché lui mi disse: "Tirami fuori da qui, paisano, non mi lasciare". E allora era già a pancia in su, con il corpo pieno di buchi, senza muscoli. Lo trascinai come potei, a strappi, mettendomi da un lato delle lanterne che ci illuminavano cercandoci. Gli dissi: "Sei vivo?", e lui mi rispose: "Tirami fuori da qui, paisano". E poi mi disse: "Mi hanno beccato". Io avevo un braccio rotto per il colpo di una pallottola, e l'osso se n'era andato da lì, da dove si unisce al gomito. Perciò lo afferrai con la mano buona e gli dissi: "Aggrappati forte qui". E mi morì sulla sponda, di fronte alle luci di un posto che si chiama Ojinaga, già da questo lato, tra i giunchi che continuano a pettinare il fiume come se niente fosse successo.
Lo portai sulla sponda e gli parlai: "Sei ancora vivo?" E lui non mi rispose. Feci di tutto per ravvivare Estanislao finché venne giorno; gli sfregai e gli massaggiai i polmoni perché fiatasse, ma non tornò mai neanche a dire beh.
- Chi?
- Noi. Nel passare il fiume. Ci fischiarono le pallottole finché ammazzarono tutti.
- Dove?
- Là, a Paso del Norte, mentre ci abbagliavano le lanterne, quando stavamo traversando il fiume.
- E perché?
- Non l'ho saputo, padre. Si ricorda di Estanislao? Fu lui che mi montò la testa per andarcene di là. Mi disse com'era tutta la vicenda e ce ne andammo prima a México e da lì al Paso. E stavamo passando il fiume, quando ci fucilarono coi mauser. Mi girai perché lui mi disse: "Tirami fuori da qui, paisano, non mi lasciare". E allora era già a pancia in su, con il corpo pieno di buchi, senza muscoli. Lo trascinai come potei, a strappi, mettendomi da un lato delle lanterne che ci illuminavano cercandoci. Gli dissi: "Sei vivo?", e lui mi rispose: "Tirami fuori da qui, paisano". E poi mi disse: "Mi hanno beccato". Io avevo un braccio rotto per il colpo di una pallottola, e l'osso se n'era andato da lì, da dove si unisce al gomito. Perciò lo afferrai con la mano buona e gli dissi: "Aggrappati forte qui". E mi morì sulla sponda, di fronte alle luci di un posto che si chiama Ojinaga, già da questo lato, tra i giunchi che continuano a pettinare il fiume come se niente fosse successo.
Lo portai sulla sponda e gli parlai: "Sei ancora vivo?" E lui non mi rispose. Feci di tutto per ravvivare Estanislao finché venne giorno; gli sfregai e gli massaggiai i polmoni perché fiatasse, ma non tornò mai neanche a dire beh.
Juan Rulfo, Paso del Norte (da "La pianura in fiamme", Einaudi 1990, pag. 114)
mercoledì 2 marzo 2011
in quindici secondi
http://www.youtube.com/watch?v=EhyR_N633ak
Incontrato per strada a Roma, nel 1968, a Lacy venne chiesto da un amico (con registratore alla mano) di descrivere in quindici secondi la differenza fra musica composta e musica improvvisata. "In quindici secondi la differenza fra composizione e improvvisazione è che quando componi hai tutto il tempo che vuoi per decidere cosa dire in quei quindici secondi, mentre quando improvvisi hai solo quindici secondi" (persino la formulazione della risposta ha richiesto esattamente quindici secondi).
(D. Sparti, Suoni inauditi. L'improvvisazione nel jazz e nella vita quotidiana,
Il Mulino 2005, pp. 119-120)
Il Mulino 2005, pp. 119-120)
Nel video: Ornette Coleman Quintet, Chronology, da "The Shape of Jazz to Come" (1959)
martedì 1 marzo 2011
due poesie di giovanna sicari
Di lutto indescrivibile amore
È senza il tempo di una storia
ogni giorno una prostituta mi guarda
ha come me una fascetta sul braccio
anch’io della sua razza randagia irosa in cammino
mi mescolo al suo sonno alle sue albe
di cagna che vede giorno dopo giorno l’aprile nel petto
e solchi di strappi, pressioni, e tutto
il nuovo muta e si è miti per forza come lei,
bella bella di giorno mentre il suo lutto preme in un gorgo
e quando piove, il corpo aperto sbatte alla porta
del tempo – mostra quella fascetta sul polso infermo –
lei non lo sa da dove viene il pianto
dalla profondità di miserie e rancori
dalla classifica dell’odio, da un pomeriggio infame di luce
* * *
I piedi sono candidi
I piedi sono candidi ma non ho scarpe buone
non ho cavalli per attraversare
scarpe rasoterra che attanaglino intorno
non ho slanci, privilegi, rare parole
le scarpe svaniscono in un serraglio
per me che non trovo una scorciatoia
per voi che mi custodite intatta.
Dove siete ora – uomini più bravi
di me – vi aspetto in una sala d’albergo
buia contrada in ordine sparso
spari nella notte, foresta, ghiaia,
festa da non udire.
Iscriviti a:
Post (Atom)