sabato 7 marzo 2009

sparare ai feticci


C'è chi li chiama paradigmi, chi idola, chi frames cognitivi, chi discorsi dominanti, chi più semplicemente pregiudizi. Ma l'idea è sempre quella: molto spesso, quando crediamo di pensare, non facciamo altro che mettere in moto meccanismi pre-innescati.
Non che questo sia del tutto sbagliato: i pregiudizi sono, in una certa misura, indispensabili, se non vogliamo riscoprire ogni volta il mondo da zero. Sappiamo che la parola "tavolo" designa quell'oggetto e non quell'altro, che in genere sul tavolo si appoggiano i piatti e non i piedi, che se andiamo in un paese straniero si parlerà probabilmente una lingua diversa e che se diciamo a qualcuno "buongiorno" quello ci risponderà alla stessa maniera, e se non lo fa è un villano.
Fin qui tutto bene, si tratta di conoscenze necessarie a sopravvivere nella nostra società.
Il problema è quando queste nozioni si trasformano in schermi, dure incrostazioni catarattiche frapposte fra noi e la realtà. Mi capita spesso di accorgermi che la maggior parte di quelle che vengono chiamate "idee" (le mie, prima ancora di quelle degli altri) non sono altro che concrezioni di stereotipi, impressioni superficiali, notizie orecchiate al TG, chiacchiere da fruttivendolo ripetute senza verificarle.
E' difficile che qualcuno, richiesto di motivare le proprie opinioni, sappia citare un'argomentazione o un dato di fatto, sappia articolare un ragionamento convincente.
Qualche tempo fa, in TV, un giornalista intervistava un gruppo di attivisti della Lega che raccoglievano firme contro la costruzione di prefabbricati da assegnare a famiglie rom. Richiesti delle proprie argomentazioni, la maggior parte se ne uscivano con un "se ne tornino a casa loro" o con un "non ce li vogliamo perché mendicano per strada". Messi di fronte al fatto che gli assegnatari dei prefabbricati erano rom di nazionalità italiana, lì residenti da venti o trent'anni (e quindi erano a casa loro), regolarmente assunti da ditte del luogo (quindi non mendicanti ma onesti lavoratori), avevano in genere due reazioni: o tacevano, o iniziavano a sbraitare slogan razzisti.
Ora, lo so che mi sono scelto un bersaglio facile, che accusare un leghista di scarsa intelligenza è come sparare sulla Croce Rossa, ma quello che mi interessava era mettere in evidenza una serie di meccanismi cognitivi: la sostituzione dell'argomentazione con la frase fatta, l'adesione incondizionata al luogo comune, l'invocazione della propria esperienza come prova probante ("è vero che mendicano: li vedo ogni giorno"), la generalizzazione ("un rom mendica, tutti i rom mendicano"), il primato delle viscere sul cervello, l'incapacità di vedere le cose in modo diverso da quello che si è deciso di adottare.
Meccanismi che nel cervello limaccioso di un leghista trovano terreno quantomai fertile, ma dai quali in fondo nessuno di noi è esente.
Tanto per fare un esempio: fino a poco tempo fa (intendo, fino a un paio di anni fa) io ero nel pieno del mio furor anticlericale. Non parlavo della Chiesa cattolica se non in termini rabbiosi, o sarcastici, o freddamente cinici.
Ora, è fin troppo facile dire che la Chiesa è stata (è?) usata come strumento di potere e di repressione; che si è fatta complice di regimi impresentabili; che pretende di mettere becco in questioni politiche che non le competono; che ci sono sacerdoti pedofili; che il Catechismo è una sedimentazione di assurdità anacronistiche; che molto magistero della Chiesa non ha più nulla a che vedere con il mondo contemporaneo; che molti cattolici non sanno nulla del cattolicesimo, della sua dottrina e della sua storia; che tante persone, appena uscite dalla Messa domenicale, sono già di nuovo pronte a pugnalare alle spalle il prossimo per guadagnare due lire in più.
Più difficile, per me, è stato ammettere che ci sono parti della Chiesa che lavorano, in maniera del tutto disinteressata, per aiutare i più deboli; che ci sono cattolici morti per difendere la libertà e la democrazia; che i politici italiani potrebbero benissimo evitare di dar spazio a certe dichiarazioni (oltretutto, accolte solo se, come e quando fa loro comodo: ma questo è un altro discorso) e fare piuttosto il loro lavoro, ossia gestire uno Stato laico; che molti sacerdoti sono bravissime persone, oppure sono uomini come tutti gli altri, con i loro pregi e i loro difetti; che il Catechismo non esaurisce il cattolicesimo; che non sempre è un difetto non essere contemporanei; che si può essere sinceramente credenti anche senza una laurea in teologia; che fra i cattolici ci sono persone oneste, serie, che vivono in profondità il loro cristianesimo.
Insomma, ammettere che anche chi la pensa diversamente da me può essere in buona fede, e persino avere una parte di ragione. Ammettere persino che molta di quella mia rabbia non derivava da ragionamenti fondati, ma da un caglio di astio e risentimento che aveva tutt'altra origine.
Non posso nemmeno dire di esserci riuscito del tutto, ma ci sto provando. Certo, è difficile.
Facile, molto più facile, è costruirsi un feticcio, travestirlo da Papa e divertirsi a sparagli addosso.

venerdì 6 marzo 2009

italo calvino 2 - la belle epoque inaspettata


Un altro estratto dalla mia tesi di laurea. Affronto un periodo cruciale, quello tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta.
Calvino veniva da una famiglia di idee socialiste e antifasciste. Da giovane aveva abbracciato posizioni ingenuamente anarchicheggianti, ma dopo l'esperienza partigiana si era iscritto al Partito Comunista; per circa dieci anni, la sua produzione saggistica e critica mostra una sostanziale adesione all'ideologia del Partito, sebbene con parecchi spunti originali che rivelano già una certa indipendenza di pensiero.
Con la morte di Stalin (1953) e il XX Congresso del PCUS (1956), in cui Kruscev denunciò i crimini staliniani, Calvino fu tra gli intellettuali che spinsero verso un'apertura democratica del PCI e un suo sganciamento dall'URSS. Le speranze si infransero contro la brutale repressione della rivolta ungherese del '56. Deluso dalla posizione dei dirigenti comunisti italiani, che appoggiarono in tutto e per tutto l'operato della Russia, Calvino lasciò il partito.
Ma la crisi non era solo di natura politica: il boom economico stava mutando rapidamente il volto del paese, la stessa cultura italiana stava cambiando, con l'arrivo di nuove istanze culturali sconosciute all'Italia chiusa e provinciale degli anni Cinquanta.
Per Calvino fu l'inizio di un periodo di profondo ripensamento delle proprie idee, o meglio di un'intera visione del mondo che fino ad allora lo aveva guidato.


* * *

In un articolo comparso nel 1983 sulla “Repubblica”, Calvino, rievocando il clima letterario tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, scriveva:

La mia ottica particolare [...] è quella di un osservatore esterno, che allora pur appartenendo a tutti gli effetti alla vituperata “letteratura degli Anni Cinquanta” si rendeva conto che sulla scena della letteratura mondiale succedevano tante cose più stimolanti da cui la speciale angolazione del nostro discorso critico ci tagliava fuori. [...]
Chi era come me entrato nel modo letterario in un altro momento che si voleva di rottura, il ‘45, aveva potuto seguire anno per anno l’assestamento di quella spinta, in una formula [...] nata dalla confluenza della migliore civiltà letteraria dei nostri anni Trenta (quella della rivista “Solaria”) e della tradizione “morale e civile” dello storicismo idealista e gramsciano. [...] Ma intanto già alla fine di quel decennio un tale quadro culturale risultava assai stretto, dato il moltiplicarsi dell’informazione sulle culture straniere e dato che con la fine della “guerra fredda” qualcosa era cambiato in quella preminenza della politica su ogni altro discorso, che aveva caratterizzato l’atmosfera di quell’epoca.


Il brano sintetizza assai bene ciò che gli anni Sessanta rappresentarono per Calvino: un periodo di aggiornamento e di revisione delle proprie posizioni sia politiche sia letterarie (processo che, come abbiamo visto, era cominciato già negli anni immediatamente successivi alle dimissioni dal PCI).
“Aggiornamento”, però, significò da una parte impegno nella realtà contemporanea e nel dibattito culturale (sono questi gli anni di maggior fervore del “Menabò”), dall’altra una progressiva messa in crisi delle categorie di pensiero che fino ad allora avevano guidato la sua attività di intellettuale: Calvino si trova costretto a riconoscere che le coordinate storiche e ideologiche su cui si era svolta la sua prima formazione risultavano datate e inadatte, appartenevano a un’epoca ormai conclusa.
Gli scritti di questi anni sono la testimonianza del suo sforzo per tenersi al passo con la realtà contemporanea, mantenendo però fede agli strumenti dello storicismo e della dialettica marxista (non a caso uno di questi saggi si intitola L’antitesi operaia); ma si fa sempre più forte un senso di inadeguatezza:

Siamo entrati nella fase dell’industrializzazione totale e dell’automazione. [...] Ci siamo entrati molto prima d’avere un ordinamento razionale all’altezza della situazione [...]. La cultura in questa situazione così complessa e cangiante si dispone su tanti piani che la critica storicistica, lineare e semplificatrice, non basta più e deve chiedere il soccorso degli strumenti d’indagine stratigrafica e microscopica dell’etnografo e del sociologo.

L’impegno di questi anni sta proprio nel cercare di portare i propri strumenti d’indagine del reale “al livello dei piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco”, di elaborare formule e modelli sempre più dettagliati e capaci di tener testa alle sfide che una realtà sociale in profondo mutamento poneva agli intellettuali.
La consapevolezza che con la fine degli anni ‘50 una fase storica è giunta al termine è implicita anche nella definizione di belle époque che Calvino dà degli anni ‘60, contrapponendoli così a quelli, ben più drammatici e ricchi di tensione, in cui egli stesso aveva iniziato a scrivere.
Parallelamente al cambiamento storico, Calvino si accorge che una nuova leva di intellettuali, molto diversa dalla sua, si sta affacciando sulla scena culturale italiana e internazionale:

La mia generazione è stata una bella generazione, anche se non ha fatto tutto quello che avrebbe potuto. Certo, per noi, per anni la politica ha avuto un’importanza magari esagerata, mentre la vita è fatta di tante altre cose. Ma questa passione civile ha dato un’ossatura alla nostra formazione culturale [...]. Tra i giovani che sono venuti su dopo di noi negli ultimi anni, in Italia, i migliori ne sanno più di noi, ma sono tutti più teorici, hanno una passione ideologica tutta fatta sui libri; noi avevamo per prima cosa una passione a operare; e questo non vuol dire essere più superficiali, anzi.

Quasi le stesse parole in una conferenza tenuta a Torino due anni dopo (I beatniks e il sistema): “La nostra generazione, la generazione che si è affacciata alla vita pubblica nel dopoguerra, è stata caratterizzata [...] dal sapere bene quello che voleva, dal preferire le idee ben definite, dal porsi problemi da classe dirigente”.
Ma, al momento di tracciare un bilancio, trova che i valori assorbiti dalla sua generazione nell’esperienza partigiana e che essa aveva cercato di instillare nella vita sociale si scontrano con una realtà ben diversa:

Alla spinta del consumo culturale sempre più forte fa da corrispettivo una sempre più marcata immobilità creativa; la società della produzione di massa e delle prospettive di benessere può cominciare a rivelarsi una trappola anche per noi; la tensione morale che volevamo salvare stagna nella palude dei compromessi quotidiani; [...] gli uomini dell’opposizione rivoluzionaria s’accorgono che l’antitesi che propongono è ancora parziale, [...] che la linea divisoria tra ciò che combattiamo e ciò che auspichiamo è sempre più frastagliata e incerta.

Il progetto di fare dello scrittore un “ingegnere delle anime”, capace di costruire una nuova società, deve fare i conti con una realtà sempre più difficile da padroneggiare. “Sarà questa - scriveva Mario Barenghi - la scommessa perduta della generazione di Calvino: fondere la coscienza del negativo, eredità della cultura precedente, con un rinnovato impulso all’iniziativa e all’intelligenza storica, sullo slancio di un’irripetibile esperienza vissuta”.
Scrivendo a Goffredo Parise, nel 1964, Calvino paragonava la stagione letteraria dell’immediato dopoguerra (quella che, proprio nel ‘64, rievocava anche nella prefazione al Sentiero dei nidi di ragno) con la situazione attuale: “Perdio, che fiato avevamo da giovani! Forza di trasfigurazione, ricchezza, libertà, coraggio, cattiveria, insomma poesia. Come ci ha tarpato le ali (a me, a te, a tutti) il trionfo del verismo romano-piccoloborghese su tutta la letteratura italiana del dopoguerra!”.
Calvino finirà per rendersi conto non solo che la sua generazione “si è ritrovata vecchia da un momento all’altro”, ma che “la nuova generazione di giovani apre gli occhi [...] come se questo labirinto che abbiamo visto chiudersi pezzo per pezzo intorno a noi [...] fosse qualcosa che c’è sempre stato”: “il nuovo individualismo approda a una perdita completa dell’individuo nel mare delle cose, [...] alla perdita dell’opposizione dialettica tra soggetto e oggetto”.
Il pericolo maggiore di questa nuova realtà è insomma una “generale eclisse del senso della storia”: “ciò che è messo in discussione è l’idea di una storia che attraverso le sue contraddizioni riesca a tracciare un disegno chiaro di progresso”. È in definitiva un’eclisse dello storicismo e della dialettica di ascendenza hegeliana e marxista che erano stati l’humus della sua prima formazione e che saranno costretti man mano a cedere il passo a strumenti di indagine sempre più diversificati (semiologia, strutturalismo, etnologia, etc.).

giovedì 5 marzo 2009

qualcuno era comunista


Il pathos rivoluzionario, l'Ottobre rosso, Lenin, sono stati per me sempre fantasmi lontani, fatti successi una volta, irrevocabili quanto irripetibili. Ero entrato nella problematica del comunismo al tempo di Stalin ma per motivi di storia italiana, e dovevo fare un continuo sforzo per fare entrare nel mio quadro l'Unione Sovietica. Delle democrazie occidentali m'ero fatto abbastanza presto l'idea d'un passaggio quanto mai sforzato e artificiale e imposto dal di fuori e dall'alto. Per l'URSS pensavo che fosse diverso, che il comunismo, passati gli anni delle prove più dure, fosse diventato una specie di stato naturale, avesse raggiunto una spontaneità, una serenità, una matura saggezza. Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell'ideologia, al di là del socialismo e del comunismo.
Per questo nel Diario di un viaggio in URSS, che pubblicai nel '52 sull' "Unità", annotavo quasi esclusivamente osservazioni minime di vita quotidiana, aspetti rasserenanti, tranquillizzanti, atemporali, apolitici. Questo modo non monumentale di presentare l'URSS mi pareva il meno conformista. Invece la mia vera colpa di stalinismo è stata proprio questa: per difendermi da una realtà che non conoscevo, ma in qualche modo presentivo e a cui non volevo dare un nome, collaboravo col mio linguaggio non ufficiale che all'ipocrisia ufficiale presentava come sereno e sorridente ciò che era dramma e tensione e strazio. Lo stalinismo era anche una maschera melliflua e bonaria che nascondeva la tragedia storica in atto.
I rombi di tuono del '56 dissolsero tutte le maschere e gli schermi.
Italo Calvino, Sono stato stalinista anch'io?
"La Repubblica", 16-17 dicembre 1979

martedì 3 marzo 2009

tanti auguri a me


Il mio prof di disegno, al liceo, era un semianalfabeta. Ma sul serio: in cinque anni non credo di averlo mai sentito pronunciare una frase in italiano corretto. Questo, però, gli conferiva doti di inventiva linguistica sconosciute a noi alfabetizzati: da qualche parte dovrei ancora avere la raccolta delle sue perle più splendenti, veri e propri calembour dadaisti, tanto più belli in quanto del tutto inconsapevoli e involontari.
Si va dall'aggiornamento dell'anagrafe edilizia ("c'è una cattedrale in Germania, che adesso non mi ricordo il cognome...") a inedite connessioni ipertestuali fra la realizzazione delle ombre portate e le tecniche di macellazione dei bovidi ("se dobbiamo fare l'ombra, per tagliare la testa al toro usiamo un raggio a quarantacinque gradi"), fino a spericolate nominalizzazioni di entità geometriche ("prendiamo un punto A e chiamiamolo B", che entrò ufficialmente nella storia del liceo) o a surreali ricreazioni di proverbi e modi di dire ("oggi dobbiamo prendere il coraggio a quattro mani").
Una volta che qualcuno di noi aveva fatto non so più che cosa, se ne uscì con un magnifico: "chiunque sia stato, abbia il coraggio barbaro di mostrarsi".
E allora il coraggio barbaro voglio averlo anch'io: oggi sono 34. Anni, intendo. E per fortuna sono ancora nell'età in cui gli anniversari si accolgono volentieri.
Quindi, tanto per mostrarmi in modo ancor più barbaro, mi auto-dedico una delle canzoni che amo di più e che più mi riportano agli anni dolci e amari dell'adolescenza.
Perché, come dice Pino, "è forse bello avere un anno in più".
E po' che fa...



E po' che fa
se resto a dire quel che non vorrei
se presti tutto non respiri più
ma po' faje pace e nun ce puo' passà
pecchè 'int'a vita nun se po' maje sapè.

E po' che fa
a parte tutto ricomincerei
è forse bello avere un anno in più
partire in fretta e non trovarsi mai
le cose che servivano di più.

Ma allora si putesse fa
chello ca me vene je t'appicciasse ccà
ma po' nun vale 'a pena.
Si putesse fa...
'a capa nun m'aiuta je mo nun stevo ccà
mannaggia a me e quando so' asciuto...

E po' che fa
nascondi sempre addosso troppi guai
fra tanta gente non sai mai chi è
che mette gli occhi sopra quel che fai
pienz' 'a salute 'o riesto va pe' sé.

E po' che fa
se resto a dire quel che pagherei
fra tanta gente non sai mai chi è
che grida forte resta come sei
pecchè 'int'a vita nun se po' maje sapè...

PS: anzi, la dedica voglio farmela doppia. Guardate qui: è una vera chicca.

jazz news

Un po' di news sparse.

Iniziamo con la notizia che le prime due annate di Musica Jazz (1945-1946) sono disponibili per la consultazione online; è materiale di incomparabile importanza per la storia e la storiografia del jazz, non solo italiano. Si tratta di un'iniziativa del benemerito Centro di Studi sul Jazz intitolato ad Arrigo Polillo, che ha sede a Siena, presso la fondazione Siena Jazz.
Oltretutto, la fondazione conserva uno dei più grandi archivi di pubblicazioni jazzistiche in Italia.

Poi, dal blog Mondo Jazz, la notizia che negli Stati Uniti sta per uscire un'emissione di monete da 25 centesimi che porteranno l'effigie di Duke Ellington.
Niente da commentare, tranne: era ora!

Infine, sempre da Mondo Jazz, la segnalazione di un'interessante collana di audiolibri per i più piccoli, dedicata alle grandi figure del jazz, a cura di Roberto Piumini e Claudio Codini (editore Curci Young).
I titoli finora usciti:
Il treno per Paradise - John Coltrane
Il giro di Eddy - Duke Ellington
Il lampione preferito di Mister Voodoo - Thelonious Monk
Ogni volume (32 pagine, formato 19,5x19,5, prezzo 14,90 euro) contiene una narrazione in forma di fiaba e un cd, corredate da illustrazioni.
Destinatari i bimbi da 7 anni in su, ma qualcosa mi dice che li prenderò per la mia bambina che ha un anno e mezzo e già balla felice sulla musica di Jelly Roll Morton.

lunedì 2 marzo 2009

metafisica di sanremo


Sanremo di quest’anno è stato un avvenimento di portata quasi metafisica. L’ha vinto un cantante che non esiste, se non in forma catodica. E’ fisicamente insignificante, non ha alcun talento, cantava una delle canzoni più brutte del festival, ma è bastata la sua forza mediatica (anche senza tirare in ballo inciuci e call-center comprati) a farlo vincere.
Se qualcuno aveva ancora dubbi circa il fatto che la TV contemporanea non imita né riproduce la realtà, ma semplicemente la sostituisce, credo che questa ne sia la prova definitiva, l’experimentum crucis.

domenica 1 marzo 2009

saudade

Se c'è una parola intraducibile, in portoghese, è saudade. Che non è semplicemente "nostalgia" o "rimpianto", e nemmeno esattamente "tristezza", ma è quella particolare specie di malinconia che si prova quando si è - o si è stati - molto felici, quando nell'allegria di insinua un sottile sapore di amaro. E' la percezione acuta, lancinante, che la felicità non dura più di un attimo. O, come scrive Vinicius De Moraes,

A felicidade è como a gota
de orvalho numa petala de flor:
brilha tranquila,
depois de leve oscila
e cai como uma lagrima de amor


("la felicità è come la goccia / di rugiada sul petalo di un fiore: / brilla tranquilla, / poi oscilla un poco / e cade come una lacrima d'amore").


Una delle più struggenti esplicazioni di che cosa sia la saudade è A banda di Chico Buarque.
Tutti conosciamo la versione di Mina, allegra e solare (la traduzione è di Antonio Amurri), che però banalizza nella forma e nel contenuto gli splendidi versi originali, ricchi di sottili giochi linguistici, assonanze, rime interne, ma soprattutto di annotazioni argute e insieme sottilmente malinconiche.
Il finale, poi: la versione italiana si chiude con l'euforico "la banda suona per me, la banda suona per te...", quella portoghese con la constatazione che tutto finisce, che dopo i momenti di festa il dolore ritorna, e che ognuno, terminata la danza, andrà a rifugiarsi nel suo angolo solitario, in compagnia dei problemi di ogni giorno.
La versione italiana trasmette allegria, quella portoghese - allo stesso tempo - allegria e tristezza: ossia, saudade.
Ecco un video con Chico che canta A banda dal vivo (di seguito la traduzione italiana). Lo accompagna Nara Leão, una delle muse della bossa nova e uno dei miti della canzone brasiliana.
E' il 1966, da due anni il Brasile è sotto la cappa della dittatura militare e vi rimarrà fino al 1985. All'inizio Chico, con le sue liriche eleganti e raffinate, viene considerato un innocuo poeta; ma i militari non tarderanno ad accorgersi di quanta umanità, quanta realtà, quanta indignazione si celi sotto quei versi così teneri ed elegiaci (però lo aveva già capito il pubblico, che infatti lo acclama con una vera e propria ovazione e canta insieme a lui in un coro fragoroso).
Nel 1968 Buarque sarà arrestato, trascorrerà due anni di auto-esilio in Italia e, tornato in Brasile, gli verrà impedito in tutti i modi di pubblicare.
Per un dittatore, niente è più pericoloso di due occhi aperti e di una bocca che dice la verità.



Non avevo uno scopo nella vita
il mio amore mi chiamò
per vedere la banda che passava
cantando cose d'amore

La mia gente che soffriva
mise da parte il dolore
per vedere la banda che passava
cantando cose d'amore

L'uomo serio che contava i soldi si fermò
il fanfarone che raccontava vanterie si fermò
l'innamorata che contava le stelle
si fermò per vedere, ascoltare e far passare

La ragazza triste che viveva in silenzio sorrise
la rosa triste che viveva nascosta si aprì
e tutti i bambini si scatenarono
per vedere la banda che passava
cantando cose d'amore

Il vecchio pieno di acciaccchi si dimenticò della stanchezza e pensò
di essere ancora un ragazzino da salire in terrazza e danzò
la ragazza brutta si affacciò alla finestra
pensando che la banda suonasse per lei

La marcia allegra si sparse per la strada e insistette
la luna piena che viveva nascosta sorse
tutta la mia città si addobbò
per vedere la banda che passava
cantando cose d'amore

Ma con mia delusione
quel che era dolce finì
tutto riprese il suo posto
dopo che la banda fu passata

E ciascuno nel suo cantuccio
in ogni cantuccio un dolore
dopo che la banda fu passata
cantando cose d'amore