giovedì 5 marzo 2009

qualcuno era comunista


Il pathos rivoluzionario, l'Ottobre rosso, Lenin, sono stati per me sempre fantasmi lontani, fatti successi una volta, irrevocabili quanto irripetibili. Ero entrato nella problematica del comunismo al tempo di Stalin ma per motivi di storia italiana, e dovevo fare un continuo sforzo per fare entrare nel mio quadro l'Unione Sovietica. Delle democrazie occidentali m'ero fatto abbastanza presto l'idea d'un passaggio quanto mai sforzato e artificiale e imposto dal di fuori e dall'alto. Per l'URSS pensavo che fosse diverso, che il comunismo, passati gli anni delle prove più dure, fosse diventato una specie di stato naturale, avesse raggiunto una spontaneità, una serenità, una matura saggezza. Proiettavo sulla realtà la semplificazione rudimentale della mia concezione politica, per la quale lo scopo finale era di ritrovare, dopo aver attraversato tutte le storture e le ingiustizie e i massacri, un equilibrio naturale al di là della storia, al di là della lotta di classe, al di là dell'ideologia, al di là del socialismo e del comunismo.
Per questo nel Diario di un viaggio in URSS, che pubblicai nel '52 sull' "Unità", annotavo quasi esclusivamente osservazioni minime di vita quotidiana, aspetti rasserenanti, tranquillizzanti, atemporali, apolitici. Questo modo non monumentale di presentare l'URSS mi pareva il meno conformista. Invece la mia vera colpa di stalinismo è stata proprio questa: per difendermi da una realtà che non conoscevo, ma in qualche modo presentivo e a cui non volevo dare un nome, collaboravo col mio linguaggio non ufficiale che all'ipocrisia ufficiale presentava come sereno e sorridente ciò che era dramma e tensione e strazio. Lo stalinismo era anche una maschera melliflua e bonaria che nascondeva la tragedia storica in atto.
I rombi di tuono del '56 dissolsero tutte le maschere e gli schermi.
Italo Calvino, Sono stato stalinista anch'io?
"La Repubblica", 16-17 dicembre 1979

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