lunedì 31 agosto 2009
sorprese
Sapete qual è la cosa più mortificante per un critico musicale? Ascoltare un disco e, dopo due o tre minuti, sapere già che cosa conterranno i prossimi pezzi. Purtroppo capita spesso, troppo spesso.
Per questo, quando si incontra qualcosa di sorprendente, è sempre una boccata d'aria fresca.
A me è capitato con gli AlasNoAxis, uno dei tanti gruppi di quel genio della batteria che è Jim Black. Il loro ultimo disco, "Houseplant", appena uscito per la Winter&Winter, è una delle cose più belle degli ultimi mesi.
Riuscite a immaginare qualcosa a metà tra il jazz e i Sigur Ros?
Se non ci riuscite, ascoltate qua:
dilettanti
Ho rischiato seriamente di fare il critico letterario.
Subito dopo la laurea, decisi di provare un dottorato in Italianistica. Ce n'era uno consorziato tra Perugia e Siena, e io feci domanda senza neanche pensarci troppo su. A dirla tutta, nemmeno mi preparai un progetto di ricerca. E a dirla proprio tutta tutta, non feci neanche quel che una persona con un minimo di comprensione delle logiche accademiche (dote che a me è sempre mancata e continua a mancare) avrebbe fatto: ossia non avvertii nemmeno il docente con cui mi ero laureato, il quale insegnava nello stesso dipartimento dove si sarebbe svolto l'esame di dottorato.
Insomma, ci andai e basta. Feci lo scritto (su Svevo). Poi feci l'orale, in cui improvvisai su due piedi un progetto di ricerca basato sulla mia tesi di laurea. Passai entrambi.
Alla fine, uscirono i risultati. I posti disponibili erano quattro: tre (appresi dopo) riservati ad altrettanti candidati portati dal docente di Siena (non ho difficoltà a dirne il nome: Romano Luperini). Il quarto in graduatoria ero io, senonché la quinta, che aveva quattro punti meno di me, aveva presentato una pubblicazione che le venne valutata cinque punti. A farla breve, mi scavalcò per un solo punto.
Quando si dice il battito d'ali di farfalla: sarebbe bastato che quella candidata non avesse avuto quella pubblicazione. Oppure sarebbe bastato che io avessi detto due paroline al relatore della mia tesi di laurea (me lo disse lui, esplicitamente, quando in seguito lo incontrai: "Pasquandrea, lei è stato ingenuo, e le ingenuità si pagano").
Poi successe che mi misi a insegnare, e poi finii, per ragioni che non sto qui a riassumere, a vincere un dottorato di ricerca in Linguistica. E a fare il critico letterario non ci pensai più.
Rimpianti? Neanche per sogno. Con gli anni ho capito che la letteratura mi piace troppo per farne il mio mestiere. Preferisco pubblicare qui le mie ruminazioni, leggere quel che mi pare quando mi pare e scriverne come mi pare, senza doverne rendere conto a nessuno.
Questa catena di pensieri deriva dalla lettura, negli ultimi giorni, di un dibattito scoppiato su Nazione Indiana. Tutto è partito da un articolo di una ricercatrice universitaria di nome Gilda Policastro (che, ho scoperto poi, ha vinto nel 2003 proprio lo stesso dottorato che non avevo vinto io tre anni prima, e ora lavora proprio qui a Perugia), intitolato Critica letteraria di nomi e di cose e pubblicato venerdì 28 agosto scorso.
L'articolo è, a mio parere, del tutto illeggibile: per lo stile, tortuoso e involuto fino all'inverosimile; per i contenuti, che sono il trionfo dell'autoreferenzialità e delle polemiche da parrocchietta travestite da discussione sui massimi sistemi; e per il tono, trombonesco e supponente. Però ha ricevuto due altri articoli di risposta: uno di Francesco Forlani, lieve e ironico com'è suo solito, e uno di Gianni Biondillo, legittimamente e sanguignamente incazzato.
Ma soprattutto, intorno ai tre articoli si è scatenata una mastodontica discussione, trasformatasi ormai in un'indegna gazzarra di insulti personali, sputi metaforici ed effusioni di intellettualismo onanistico. Tanto per dare un'idea, mentre scrivo queste righe i commenti ai tre articoli sono arrivati rispettivamente a 116 (Policastro), 22 (Forlani) e 56 (Biondillo).
Centonovantaquattro commenti per una discussione sull'aria fritta.
Se questa è la critica letteraria, qui, oggi, allora non posso che confermare: sono contento di essere un dilettante, e mi prendo il solenne impegno di restarlo.
Subito dopo la laurea, decisi di provare un dottorato in Italianistica. Ce n'era uno consorziato tra Perugia e Siena, e io feci domanda senza neanche pensarci troppo su. A dirla tutta, nemmeno mi preparai un progetto di ricerca. E a dirla proprio tutta tutta, non feci neanche quel che una persona con un minimo di comprensione delle logiche accademiche (dote che a me è sempre mancata e continua a mancare) avrebbe fatto: ossia non avvertii nemmeno il docente con cui mi ero laureato, il quale insegnava nello stesso dipartimento dove si sarebbe svolto l'esame di dottorato.
Insomma, ci andai e basta. Feci lo scritto (su Svevo). Poi feci l'orale, in cui improvvisai su due piedi un progetto di ricerca basato sulla mia tesi di laurea. Passai entrambi.
Alla fine, uscirono i risultati. I posti disponibili erano quattro: tre (appresi dopo) riservati ad altrettanti candidati portati dal docente di Siena (non ho difficoltà a dirne il nome: Romano Luperini). Il quarto in graduatoria ero io, senonché la quinta, che aveva quattro punti meno di me, aveva presentato una pubblicazione che le venne valutata cinque punti. A farla breve, mi scavalcò per un solo punto.
Quando si dice il battito d'ali di farfalla: sarebbe bastato che quella candidata non avesse avuto quella pubblicazione. Oppure sarebbe bastato che io avessi detto due paroline al relatore della mia tesi di laurea (me lo disse lui, esplicitamente, quando in seguito lo incontrai: "Pasquandrea, lei è stato ingenuo, e le ingenuità si pagano").
Poi successe che mi misi a insegnare, e poi finii, per ragioni che non sto qui a riassumere, a vincere un dottorato di ricerca in Linguistica. E a fare il critico letterario non ci pensai più.
Rimpianti? Neanche per sogno. Con gli anni ho capito che la letteratura mi piace troppo per farne il mio mestiere. Preferisco pubblicare qui le mie ruminazioni, leggere quel che mi pare quando mi pare e scriverne come mi pare, senza doverne rendere conto a nessuno.
Questa catena di pensieri deriva dalla lettura, negli ultimi giorni, di un dibattito scoppiato su Nazione Indiana. Tutto è partito da un articolo di una ricercatrice universitaria di nome Gilda Policastro (che, ho scoperto poi, ha vinto nel 2003 proprio lo stesso dottorato che non avevo vinto io tre anni prima, e ora lavora proprio qui a Perugia), intitolato Critica letteraria di nomi e di cose e pubblicato venerdì 28 agosto scorso.
L'articolo è, a mio parere, del tutto illeggibile: per lo stile, tortuoso e involuto fino all'inverosimile; per i contenuti, che sono il trionfo dell'autoreferenzialità e delle polemiche da parrocchietta travestite da discussione sui massimi sistemi; e per il tono, trombonesco e supponente. Però ha ricevuto due altri articoli di risposta: uno di Francesco Forlani, lieve e ironico com'è suo solito, e uno di Gianni Biondillo, legittimamente e sanguignamente incazzato.
Ma soprattutto, intorno ai tre articoli si è scatenata una mastodontica discussione, trasformatasi ormai in un'indegna gazzarra di insulti personali, sputi metaforici ed effusioni di intellettualismo onanistico. Tanto per dare un'idea, mentre scrivo queste righe i commenti ai tre articoli sono arrivati rispettivamente a 116 (Policastro), 22 (Forlani) e 56 (Biondillo).
Centonovantaquattro commenti per una discussione sull'aria fritta.
Se questa è la critica letteraria, qui, oggi, allora non posso che confermare: sono contento di essere un dilettante, e mi prendo il solenne impegno di restarlo.
domenica 30 agosto 2009
altrove - 3
da: Qui Poddema
Stanza degli aloni.
Una lastra. L'uomo che ci passa davanti deve lasciare un alone grande o piccolo, a seconda della propria importanza grande o piccola.
Già un bambino di cinque anni vi lascia apparire un alone notevole.
Io non riuscii a farne apparire neanche uno. E' come se fossi stato assente. Confuso, me ne andai meditando vagamente su un ritorno più fortunato che mai avvenne. Non spuntava mai nulla su quella lastra, con me davanti.
Me ne andavo, affranto, portando sempre con me l'incresciosa consapevolezza di un uomo senza alone, che sa di essere senza alone. Giacché, quale consolazione si può offrire a qualcuno che ha preso coscienza di non apparire?
Impressione che porta immancabilmente al suicidio. Abbandonai quindi il paese d'Addema per quello d'Ariddema, dove nessuno si preoccupa dell'alone né di apparire davanti a una lastra-giudice, e dove la stanza dei ricordi affliggenti è inutilizzata e pressoché sconosciuta.
Una lastra. L'uomo che ci passa davanti deve lasciare un alone grande o piccolo, a seconda della propria importanza grande o piccola.
Già un bambino di cinque anni vi lascia apparire un alone notevole.
Io non riuscii a farne apparire neanche uno. E' come se fossi stato assente. Confuso, me ne andai meditando vagamente su un ritorno più fortunato che mai avvenne. Non spuntava mai nulla su quella lastra, con me davanti.
Me ne andavo, affranto, portando sempre con me l'incresciosa consapevolezza di un uomo senza alone, che sa di essere senza alone. Giacché, quale consolazione si può offrire a qualcuno che ha preso coscienza di non apparire?
Impressione che porta immancabilmente al suicidio. Abbandonai quindi il paese d'Addema per quello d'Ariddema, dove nessuno si preoccupa dell'alone né di apparire davanti a una lastra-giudice, e dove la stanza dei ricordi affliggenti è inutilizzata e pressoché sconosciuta.
*
A Ariddema, vantaggio impareggiabile, c'è la comodità delle case sobrie, ma straordinarie, musicali.
Ogni casa è sistemata in un buco stretto e profondo della roccia, sorta d'astuccio. Terminata la giornata, lasciano cadere una goccia dal centro del soffitto, aperto all'uopo in un punto calcolato, poi un'altra goccia, poi ancora una nuova goccia, gocce all'infinito in una piccola stanza isolata e chiusa ermeticamente, se si eccettua il buco nel soffitto.
Le gocce cadendo producono, per la compressione dell'aria o per qualche altra causa, un suono celeste, cristallino.
Questo flauto magico, voglio dire questa stanza chiusa, vogliodire anche la stanza vicina, voglio dire tutta la casa invasa dalla vibrazione miracolosa e contenuta, scuote l'essere, che se ne va alla deriva, perso, in un'ebbrezza sonora.
Quel suono continuo, ma non senza alti e bassi, va (come intensità) dal mormorio lamentoso del vento tra ic anneti al boato formidabile delle onde che a colpi d'ariete entrano di colpo in una grotta a metà sottomarina, urtandovi disordinatamente, massa sonora, infima o enorme, ma sempre celeste e cristallina; e in quel suono unico e radioso, nel quale però si crede di udirne mille, la casa si addormenta.
Cosa sia questa musica per gli Ariddemani è indicibile. E' la loro madre e il loro padre; la loro culla.
Ogni casa è sistemata in un buco stretto e profondo della roccia, sorta d'astuccio. Terminata la giornata, lasciano cadere una goccia dal centro del soffitto, aperto all'uopo in un punto calcolato, poi un'altra goccia, poi ancora una nuova goccia, gocce all'infinito in una piccola stanza isolata e chiusa ermeticamente, se si eccettua il buco nel soffitto.
Le gocce cadendo producono, per la compressione dell'aria o per qualche altra causa, un suono celeste, cristallino.
Questo flauto magico, voglio dire questa stanza chiusa, vogliodire anche la stanza vicina, voglio dire tutta la casa invasa dalla vibrazione miracolosa e contenuta, scuote l'essere, che se ne va alla deriva, perso, in un'ebbrezza sonora.
Quel suono continuo, ma non senza alti e bassi, va (come intensità) dal mormorio lamentoso del vento tra ic anneti al boato formidabile delle onde che a colpi d'ariete entrano di colpo in una grotta a metà sottomarina, urtandovi disordinatamente, massa sonora, infima o enorme, ma sempre celeste e cristallina; e in quel suono unico e radioso, nel quale però si crede di udirne mille, la casa si addormenta.
Cosa sia questa musica per gli Ariddemani è indicibile. E' la loro madre e il loro padre; la loro culla.
*
Le noie (che hanno con i Poddemani nel vaso) li hanno portati a coltivare alcune specie sedentarie, fissate a un muro, àpodi, con il tronco in un bagno alimentare, e che lavorano di braccia.
Alcuni ricchi, con la corruzione derivante dai troppi piacere e troppe possibilità, possiedono dei Poddemani nel vaso soltanto per ornamento delle loro dimore e per propria distrazione.
Con questi Poddemani coltivati come una pianta a spalliera, occorre seguire delle regole ben precise. Io non le conosco tutte. Le loro braccia numerose non sono tutte ugualmente sane e capaci di sopravvivere a lungo. In certe epoche bisogna persino sacrificarne alcune di proposito, capitozzare un primo braccio sul secondo, questo sul terzo, così di seguito fino al nono, al fine di assicurarsi un solido braccio per la prossima stagione di germogliazione.
Quanto alle estremità, è soprattutto lo spazio a disposizione che vi guida. E inoltre, il gusto dell'armonia nelle masse.
La maggior parte di queste specie sono cannibali. Quasi tutte sono felicemente cieche, prodotte cieche di proposito. Anche così, fissate al serbatoio nutritivo, costituiscono un pericolo.
Certi furbetti vengono a stringere la mano a quei ciechi. E' il grande gioco. Quel gioco è affascinante per i Poddemani nervosi (o sportivi). Ma è pericoloso.
L'intelligenza di quelle creature in parte immerse è un'intellienza sorniona. Un individuo piantato come un albero a spalliera può fingere a lungo di avere solo poca forza di contrazione e lasciarsi stringere le proprie molli mani senza opporre resistenza, poi all'improvviso, sentendo una mano più debole nella propria, la stringe con una stretta dura e sovrumana, la serra, la stritola, l'attira irresistibilmente a sé, mangiando anche il volto, o perlomeno quel che riesce ad afferrare, il naso, le orecchie, persino guance, se un intervento non trae in salvo la sfortunata vittima. I bambini in fasce, i bambini piccoli, li mangerà quasi interi... se un caso fortunato glieli lascia in balia. Ecco il rischio. Ma gli abitanti lo corrono. Sembra tuttavia che l'usanza sia in via di estinzione. Una certa vergogna, forse. Ma presso i Kanidìs questa vergogna è sconosciuta. Passerebbe persino per morbosa.
Alcuni ricchi, con la corruzione derivante dai troppi piacere e troppe possibilità, possiedono dei Poddemani nel vaso soltanto per ornamento delle loro dimore e per propria distrazione.
Con questi Poddemani coltivati come una pianta a spalliera, occorre seguire delle regole ben precise. Io non le conosco tutte. Le loro braccia numerose non sono tutte ugualmente sane e capaci di sopravvivere a lungo. In certe epoche bisogna persino sacrificarne alcune di proposito, capitozzare un primo braccio sul secondo, questo sul terzo, così di seguito fino al nono, al fine di assicurarsi un solido braccio per la prossima stagione di germogliazione.
Quanto alle estremità, è soprattutto lo spazio a disposizione che vi guida. E inoltre, il gusto dell'armonia nelle masse.
La maggior parte di queste specie sono cannibali. Quasi tutte sono felicemente cieche, prodotte cieche di proposito. Anche così, fissate al serbatoio nutritivo, costituiscono un pericolo.
Certi furbetti vengono a stringere la mano a quei ciechi. E' il grande gioco. Quel gioco è affascinante per i Poddemani nervosi (o sportivi). Ma è pericoloso.
L'intelligenza di quelle creature in parte immerse è un'intellienza sorniona. Un individuo piantato come un albero a spalliera può fingere a lungo di avere solo poca forza di contrazione e lasciarsi stringere le proprie molli mani senza opporre resistenza, poi all'improvviso, sentendo una mano più debole nella propria, la stringe con una stretta dura e sovrumana, la serra, la stritola, l'attira irresistibilmente a sé, mangiando anche il volto, o perlomeno quel che riesce ad afferrare, il naso, le orecchie, persino guance, se un intervento non trae in salvo la sfortunata vittima. I bambini in fasce, i bambini piccoli, li mangerà quasi interi... se un caso fortunato glieli lascia in balia. Ecco il rischio. Ma gli abitanti lo corrono. Sembra tuttavia che l'usanza sia in via di estinzione. Una certa vergogna, forse. Ma presso i Kanidìs questa vergogna è sconosciuta. Passerebbe persino per morbosa.
(Henri Michaux, Altrove, Quodlibet 2005)
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sabato 29 agosto 2009
lampi - 9
ethan iverson su lester young
Il 2009 cadevano un sacco di anniversari e compleanni, ma almeno tre riguardavano Lester Young: i cent'anni dalla nascita (29 agosto 1909), i cinquant'anni dalla morte (15 marzo 1959) e i cinquanta dalla morte della sua anima gemella, Billie Holiday (17 luglio1959).
Il 2009, quindi, è stato pieno di omaggi a Lester Young: ma il più bello, secondo me, l'ha fatto Ethan Iverson, il pianista dei Bad Plus, dedicando sul suo blog un'intera serie di post a Young, con trascrizioni, interviste, riflessioni, brani da ascoltare e molto altro ancora.
A proposito: il blog di Iverson si chiama DoTheMath. Fra tutti siti ad argomento jazzistico presenti sulla rete, è uno dei più acuti, intelligenti e penetranti. E, spesso, anche divertenti.
Vivamente consigliato.
la fine del mondo
Sylvia Plath, Finisterre
(da "Crossing the Water", 1961)
(da "Crossing the Water", 1961)
Questa era la fine del mondo: le ultime dita, nocchiute e reumatiche,
contratte sul nulla. Nere
rupi ammonitrici, e il mare che esplode
senza fondo, o nulla sull’altra sponda,
sbiancato dai volti degli annegati
Ora è soltanto buio, un ammasso di rocce.
Soldati scaricati da vecchie, caotiche guerre.
Il mare gli cannoneggia nelle orecchie, ma non indietreggiano.
Altre rocce celano rancori sotto le acque.
Le rupi sono orlate di trifogli, stelle e campanule
come ricamate da dita vicine alla morte,
quasi troppo piccole perché le nebbie se ne diano pensiero.
Le nebbie sono parti dell’antico armamentario.
Anime, cullate nel fragore apocalittico del mare.
Strappano le rocce all’esistenza, poi le fanno risorgere.
Salgono senza speranza, come sospiri.
Le attraverso, mi riempiono la bocca di ovatta.
Quando mi liberano, sono imperlata di lacrime.
Nostra Signora dei Naufraghi incede verso l’orizzonte,
la gonna di marmo gonfiata in due ali rosate.
Un marinaio di marmo si inginocchia costernato ai suoi piedi, e ai piedi di lui
una contadina vestita di nero
prega il monumento del marinaio che prega.
Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale,
le labbra dolci di divinità (1).
Non sente ciò che dicono il marinaio o la contadina.
Ama la bellezza informe del mare.
Fiocchi color gabbiano sventolano alla brezza marina
accanto ai chioschi delle cartoline.
I contadini li ancorano con le conchiglie. Ti dicono:
“Ecco i graziosi ninnoli che il mare nasconde.
Piccoli gusci trasformati in collane e bamboline.
Non vengono dalla Baia dei Morti, laggiù,
ma da un altro luogo, azzurro e tropicale,
dove non siamo mai stati.
Ecco le nostre crêpes. Mangiàtele prima che si freddino”.
--------
(1) Gioco di parole: “divinity” è anche il nome di un dolce simile al torrone.
venerdì 28 agosto 2009
guida al jazz di new orleans
Segnalo, sul portale www.jazz.com, la "Storia del jazz di New Orleans in 100 brani", curata dal noto critico americano Ted Gioia.
La prima metà della discografia commentata si può leggere qui; spazia dalla musica creola di metà Ottocento (L. M. Gottschalk, E. Dedè) alle prime forme di jazz, fino ad arrivare al rock'n'roll di Fats Domino e Little Richard (ebbene sì, New Orleans è stata anche una delle culle del rock) e al jump di Louis Prima.
Un percorso ricco sia di titoli noti, sia di gemme poco note o del tutto sconosciute. Consigliato agli esperti come ai neofiti.
altrove - 2
da: Nel paese della Magia
Di colpo ci si sente toccati. Però, niente di ben chiaro che ti venga contro, soprattutto se il giorno non è più perfettamente luminoso, alla fine della giornata (ora in cui quelle là escono).
Ci si sente a disagio. Si va a chiudere porte e finestre. Pare allora che un essere tenti di passare dalla finestra che oppone resistenza alla vostra spinta, un essere trasparente, massiccio, elastico, un essere nell'aria a tutti gli effetti, così come la Medusa è insieme nell'acqua e fatta d'acqua. È entrata una Medusa d'aria!
Naturalmente si cerca di farsene una ragione. Ma l'insopportabile impressione cresce in modo spaventoso, allora si esce gridando: “Mjà!” e ci si lancia per strada di corsa.
Ci si sente a disagio. Si va a chiudere porte e finestre. Pare allora che un essere tenti di passare dalla finestra che oppone resistenza alla vostra spinta, un essere trasparente, massiccio, elastico, un essere nell'aria a tutti gli effetti, così come la Medusa è insieme nell'acqua e fatta d'acqua. È entrata una Medusa d'aria!
Naturalmente si cerca di farsene una ragione. Ma l'insopportabile impressione cresce in modo spaventoso, allora si esce gridando: “Mjà!” e ci si lancia per strada di corsa.
*
Là, ai malfattori colti in flagrante gli si strappa il viso sul posto. Il Mago-boia arriva immediatamente.
Ci vuole un'incredibile forza di volontà per cavare via un viso, abituato com'è al suo uomo.
Poco a poco la faccia cede, viene via.
Il boia raddoppia gli sforzi, s'inarca tutto, respira possentemente.
Infine, la strappa.
Se l'operazione è ben fatta, si stacca l'insieme, fronte, occhi, guance, tutto il davanti della testa, come ripulito da non so quale spugna corrosiva.
Un sangue spesso e scuro sgorga dai pori generosamente aperti dovunque.
Il giorno dopo, un enorme, rotondo grumo crostoso si è formato, che può ispirare soltanto terrore.
Chi ne ha visto uno se lo ricorda per sempre. Ha i suoi incubi per ricordarselo.
Se l'operazione non è fatta bene, in casi di particolare robustezza del malfattore, si riesce a strappargli via soltanto il naso e gli occhi. È già un buon risultato, essendo lo strappo puramente magico, infatti le dita del boia non possono toccare e nemmeno sfiorare il volto da estirpare.
Ci vuole un'incredibile forza di volontà per cavare via un viso, abituato com'è al suo uomo.
Poco a poco la faccia cede, viene via.
Il boia raddoppia gli sforzi, s'inarca tutto, respira possentemente.
Infine, la strappa.
Se l'operazione è ben fatta, si stacca l'insieme, fronte, occhi, guance, tutto il davanti della testa, come ripulito da non so quale spugna corrosiva.
Un sangue spesso e scuro sgorga dai pori generosamente aperti dovunque.
Il giorno dopo, un enorme, rotondo grumo crostoso si è formato, che può ispirare soltanto terrore.
Chi ne ha visto uno se lo ricorda per sempre. Ha i suoi incubi per ricordarselo.
Se l'operazione non è fatta bene, in casi di particolare robustezza del malfattore, si riesce a strappargli via soltanto il naso e gli occhi. È già un buon risultato, essendo lo strappo puramente magico, infatti le dita del boia non possono toccare e nemmeno sfiorare il volto da estirpare.
*
Sanguinante sul muro, viva, rossa o mezza infetta, è la piaga di un uomo; di un Mago che ce l'ha messa. Perché? Per ascesi, per soffrirne meglio; poiché, su di sé, non potrebbe fare a meno di guarirla in virtù del suo potere taumaturgico, in lui naturale, al punto d'essere totalmente inconsapevole.
Ma, in quel modo, lui la conserva a lungo senza che si chiuda. Questo procedimento è corrente.
Strane piaghe che si incontrano con fastidio e nausea, sofferenti su muri deserti...
Ma, in quel modo, lui la conserva a lungo senza che si chiuda. Questo procedimento è corrente.
Strane piaghe che si incontrano con fastidio e nausea, sofferenti su muri deserti...
*
Chi dunque voleva la sua perdizione?
L'uomo girato a metà verso di me, stava in piedi su un pendio. Poi cadde.
Cadde soltanto dall'altezza del suo corpo, che tuttavia giunto a terra si trovò completamente schiacciato. Di più: con le ossa rotte, spappolato, come se fosse caduto dalla cime di un'immensa scarpata di quattrocento metri, quando invece, con la sua caduta, era rotolato soltanto da un insignificante rialzo.
L'uomo girato a metà verso di me, stava in piedi su un pendio. Poi cadde.
Cadde soltanto dall'altezza del suo corpo, che tuttavia giunto a terra si trovò completamente schiacciato. Di più: con le ossa rotte, spappolato, come se fosse caduto dalla cime di un'immensa scarpata di quattrocento metri, quando invece, con la sua caduta, era rotolato soltanto da un insignificante rialzo.
*
I Maghi odiano i nostri pensieri scoppiettanti. Amano restare concentrati su un oggetto di meditazione. Questi oggetti portano il più intimo, più denso, più magico senso del mondo.
I primi, non i principali, sono in numero di dodici, vale a dire:
I primordiali crepuscolari.
La catena molle e il numero nebuloso.
Il caos nutrito dalla scala.
Lo spazio pesce e lo spazio oceano.
Il trapezio incalcolabile.
Il carro di nervi.
L'orco eterico.
Il raggio di paglia.
Lo scorpione-limite e lo scorpione completo.
Lo spirito degli astri morenti.
I signori del circolo.
La reincarnazione d'ufficio.
Senza queste elementari nozioni di base, nessuna vera comunicazione con la gente di quel paese.
I primi, non i principali, sono in numero di dodici, vale a dire:
I primordiali crepuscolari.
La catena molle e il numero nebuloso.
Il caos nutrito dalla scala.
Lo spazio pesce e lo spazio oceano.
Il trapezio incalcolabile.
Il carro di nervi.
L'orco eterico.
Il raggio di paglia.
Lo scorpione-limite e lo scorpione completo.
Lo spirito degli astri morenti.
I signori del circolo.
La reincarnazione d'ufficio.
Senza queste elementari nozioni di base, nessuna vera comunicazione con la gente di quel paese.
(Henri Michaux, Altrove, Quodlibet 2005)
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giovedì 27 agosto 2009
aveva ragione tzara (soluzione)
Avete indovinato di chi erano le poesie del post di ieri? No?
Beh, ve lo dico io: di nessuno.
Sono tutte generate da questo programma. Cliccandoci su, si può generare un numero praticamente infinito di haiku, ognuno diverso dagli altri.
Aveva proprio ragione Tristan Tzara:
Prendete un giornale.
Prendete le forbici.
Scegliete nel giornale un articolo della lunghezza che desiderate per la vostra poesia.
Ritagliate l'articolo.
Ritagliate poi accuratamente ognuna delle parole che compongono l'articolo e mettetele in un sacco.
Agitate delicatamente.
Tirate poi fuori un ritaglio dopo l'altro disponendoli nell'ordine in cui sono usciti dal sacco.
Copiate scrupolosamente.
La poesia vi assomiglierà.
Ed eccovi divenuto uno scrittore infinitamente originale e di squisita sensibilità,
benchè incompreso dal volgo."
(Tristan Tzara, "Per fare una poesia dadaista", 1920)
lester left town
Giusto cent'anni fa, il 27 agosto 1909, nasceva quest'uomo.
Un po' meno di cinquant'anni dopo, il 15 marzo 1959, quest'uomo moriva, completamente alcoolizzato, incapace di parlare, ridotto a una larva.
In quei cinquant'anni, ci sono alcuni degli assolo di sax più belli della storia del jazz.
Buon centesimo compleanno, Prez.
mercoledì 26 agosto 2009
aveva ragione tzara (quiz poetico)
Discorsi e risa nel cortile
Negli spazi del buio intenso
Si chiudono tra le tue labbra...appagati
* * *
Frammenti di un'infanzia
Non si potrebbe fare di meglio
In cerca del dolce palpitare d'un fiore
* * *
Gusci di noce sparsi in terra
Gemme preziose nei tuoi occhi
L'aria di giglio d'un tremore
* * *
Sonno come piombo
Quieto blaterare del traffico cittadino
I miei occhi non possono mentirti
Negli spazi del buio intenso
Si chiudono tra le tue labbra...appagati
* * *
Frammenti di un'infanzia
Non si potrebbe fare di meglio
In cerca del dolce palpitare d'un fiore
* * *
Gusci di noce sparsi in terra
Gemme preziose nei tuoi occhi
L'aria di giglio d'un tremore
* * *
Sonno come piombo
Quieto blaterare del traffico cittadino
I miei occhi non possono mentirti
Carine, vero? Riuscite a indovinare di chi sono?
La risposta domani, sempre su questo blog.
La risposta domani, sempre su questo blog.
lampi - 8
martedì 25 agosto 2009
serendipity
lunedì 24 agosto 2009
domenica 23 agosto 2009
altrove
Da: Viaggio in Gran Garabagna
Gli Hac si danno da fare per tirar su ogni anno qualche bambino martire, a cui fanno subire dei maltrattamenti e delle palesi ingiustizie, inventando ragioni e complicazioni ingannevoli, tutte fatte di menzogne, in una atmosfera di terrore e di mistero.
Vengono preposti a tale compito degli uomini dal cuore duro, dei bruti, comandati da capi abili e crudeli.
In tal modo hanno allevato dei grandi artisti, dei poeti, ma anche degli assassini, degli anarchici (c'è sempre qualcoa che va storto), e soprattutto dei riformatori, degli oltranzisti inauditi.
Nei costumi e nel regime sociale, ogni volta che fu introdotto un mutamento, ciò avvenne grazie a costoro; e se, nonostante il loro esercito ridotto, gli Hac non hanno nulla da temere, anche questo lo devono a loro; e se nella loro lingua così nitida sono stati innestati dei bagliori di collera, rispetto ai quali le migliori astuzie degli scrittori stranieri appaiono insipide, anche questo lo debbono a loro: a pochi fanciulli straccioni, miserabili e disperati.
Opera d'altronde in permanenza, contro chi si ritrovi a far l'uomo celebre, una Società per la persecuzione degli artisti.
Vengono preposti a tale compito degli uomini dal cuore duro, dei bruti, comandati da capi abili e crudeli.
In tal modo hanno allevato dei grandi artisti, dei poeti, ma anche degli assassini, degli anarchici (c'è sempre qualcoa che va storto), e soprattutto dei riformatori, degli oltranzisti inauditi.
Nei costumi e nel regime sociale, ogni volta che fu introdotto un mutamento, ciò avvenne grazie a costoro; e se, nonostante il loro esercito ridotto, gli Hac non hanno nulla da temere, anche questo lo devono a loro; e se nella loro lingua così nitida sono stati innestati dei bagliori di collera, rispetto ai quali le migliori astuzie degli scrittori stranieri appaiono insipide, anche questo lo debbono a loro: a pochi fanciulli straccioni, miserabili e disperati.
Opera d'altronde in permanenza, contro chi si ritrovi a far l'uomo celebre, una Società per la persecuzione degli artisti.
*
L'UGLABO
L'UGLABO
Impiegato come bestia da tiro presso gli Emangloni, l'uglabo ha un aspetto ancora più brutto dello gnu africano.
Al di fuori delle corna e dei denti, in lui tutto è misero (denti piccoli da infante, derisione della forza).
Però la sua sporca testa è senza dubbio alta e resistente. Con lo sguardo si percorre la sua superficie ruvida da stuoino, e proprio quando si disperava d'incontrarci qualche piccola traccia di vita, s'incontra l'occhio all'ombra d'un orecchio da pulcinella.
Quello è l'occhio di un abbrutito, incapace di fare, incapace di ricevere. E se guardate l'altro occhio, confronto inutile: fa il paio con quell'altro come numero 2.
Che bisogno ha di noi? È un erbivoro, e chinando verso il suolo, nei terreni a maggese, il suo essere mal spazzolato, si rallegra tranquillamente, linfaticamente, d'appartenere proprio a quella terra, dove lui manda, e non invano, la lingua in cerca d'erba, felice di non essere come tanti viventi, stranieri dappertutto e che non sanno quello che vogliono.
Al di fuori delle corna e dei denti, in lui tutto è misero (denti piccoli da infante, derisione della forza).
Però la sua sporca testa è senza dubbio alta e resistente. Con lo sguardo si percorre la sua superficie ruvida da stuoino, e proprio quando si disperava d'incontrarci qualche piccola traccia di vita, s'incontra l'occhio all'ombra d'un orecchio da pulcinella.
Quello è l'occhio di un abbrutito, incapace di fare, incapace di ricevere. E se guardate l'altro occhio, confronto inutile: fa il paio con quell'altro come numero 2.
Che bisogno ha di noi? È un erbivoro, e chinando verso il suolo, nei terreni a maggese, il suo essere mal spazzolato, si rallegra tranquillamente, linfaticamente, d'appartenere proprio a quella terra, dove lui manda, e non invano, la lingua in cerca d'erba, felice di non essere come tanti viventi, stranieri dappertutto e che non sanno quello che vogliono.
*
Il dio delle acque sta sdraiato. E per lui alzarsi è fuori questione. Le preghiere degli uomini non gli interessano granché, e neanche i giuramenti e i voti. Poco gli cale d'un sacrificio. Prima di tutto è il dio dell'acqua.
Non ha mai fatto caso ai raccolti dei Gauri marciti dalle piogge, ai loro greggi portati via dalle inondazioni. Prima di tutto è il dio dell'acqua. Con tutto che ci sono certi preti bene istruiti: ma non ne sanno abbastanza per riuscire a lusingarlo. Studiano, spulciano le tradizioni, digiunano, meditano, ed è anche possibile che alla lunga in questo modo riescano a giungere fino a lui e coprire la voce delle acque, che gli è tanto cara.
Non ha mai fatto caso ai raccolti dei Gauri marciti dalle piogge, ai loro greggi portati via dalle inondazioni. Prima di tutto è il dio dell'acqua. Con tutto che ci sono certi preti bene istruiti: ma non ne sanno abbastanza per riuscire a lusingarlo. Studiano, spulciano le tradizioni, digiunano, meditano, ed è anche possibile che alla lunga in questo modo riescano a giungere fino a lui e coprire la voce delle acque, che gli è tanto cara.
*
Gli Hiviniziki
Sempre di fretta, in anticipo su se stessi, correndo di qua e di là, febbrili e indaffarati, si perderebbero perfino le loro mani. Impossibile dare loro una soddisfazione un po' prolungata.
Entusiasti, impetuosi e sempre “sulla battuta”, ma per poco tempo, diplomatici-farfalloni, mettono dappertutto dei picchetti che poi dimenticano, con una polizia e uno stato maggiore che possiede decine di codici segreti estremamente ingegnosi, di cui non sanno mai quale usare, e che cambiano e si falsificano sempre di nuovo senza sosta.
Giocatori d'azzardo (dalla mattina alla sera occupati a giocarsi ai dadi le loro fortune, che passano di mano in mano da un momento all'altro, tanto che non si sa più chi sia l'indebitato e chi il creditore), illusionisti, bidonari, pasticcioni, non per confusione o nebbia mentale, ma per una folla di idee chiare che vengono fuori a sproposito, logici sfrenati, ma crivellati da intuizioni fugaci, ti dimostrano col ragionamento l'esistenza e la non-esistenza di qualsiasi cosa, distratti ma furbacchioni e quasi infaticabili, entrano nel letto e nel sonno ad un tempo (ma per poche ore), uscendone allo stesso modo, come una porta che uno apre e chiude, adirandosi per un niente, distratti dalla collera per men che niente, per una mosca che vola, come vele in balia di tutti i venti, tutti in lacrime al capezzale del padre malato, ma appena ha chiuso gli occhi precipitandosi sul testamento, discutendo sull'eredità seduti sul letto ancora caldo, e seppellendolo in un batter d'occhio (meglio così, altrimenti se lo scorderebbero finché non puzza).
Si prosternano davanti al loro dèi come congegni meccanici caricati fino in fondo, centinaia e centinaia di volte, poi ripartono con un balzo, senza voltarsi indietro; facendo l'amore nello stesso modo, in fretta, con ardore, “e poi non se ne parla più”. Si sposano senza premeditazione, lì per lì, per un incontro casuale, e divorziano ugualmente, lavorando e facendo mercato e facendo un mestiere per strada, in mezzo alla polvere e al vento e ai calci dei cavalli, parlando a mitraglia; a cavallo più che possono e al galoppo, oppure, se vanno a piedi, con le braccia in avanti, come se andassero davvero a liberare e disboscare quest'Universo pieno di difficoltà e d'accidenti che si presenta senza posa davanti a loro.
Entusiasti, impetuosi e sempre “sulla battuta”, ma per poco tempo, diplomatici-farfalloni, mettono dappertutto dei picchetti che poi dimenticano, con una polizia e uno stato maggiore che possiede decine di codici segreti estremamente ingegnosi, di cui non sanno mai quale usare, e che cambiano e si falsificano sempre di nuovo senza sosta.
Giocatori d'azzardo (dalla mattina alla sera occupati a giocarsi ai dadi le loro fortune, che passano di mano in mano da un momento all'altro, tanto che non si sa più chi sia l'indebitato e chi il creditore), illusionisti, bidonari, pasticcioni, non per confusione o nebbia mentale, ma per una folla di idee chiare che vengono fuori a sproposito, logici sfrenati, ma crivellati da intuizioni fugaci, ti dimostrano col ragionamento l'esistenza e la non-esistenza di qualsiasi cosa, distratti ma furbacchioni e quasi infaticabili, entrano nel letto e nel sonno ad un tempo (ma per poche ore), uscendone allo stesso modo, come una porta che uno apre e chiude, adirandosi per un niente, distratti dalla collera per men che niente, per una mosca che vola, come vele in balia di tutti i venti, tutti in lacrime al capezzale del padre malato, ma appena ha chiuso gli occhi precipitandosi sul testamento, discutendo sull'eredità seduti sul letto ancora caldo, e seppellendolo in un batter d'occhio (meglio così, altrimenti se lo scorderebbero finché non puzza).
Si prosternano davanti al loro dèi come congegni meccanici caricati fino in fondo, centinaia e centinaia di volte, poi ripartono con un balzo, senza voltarsi indietro; facendo l'amore nello stesso modo, in fretta, con ardore, “e poi non se ne parla più”. Si sposano senza premeditazione, lì per lì, per un incontro casuale, e divorziano ugualmente, lavorando e facendo mercato e facendo un mestiere per strada, in mezzo alla polvere e al vento e ai calci dei cavalli, parlando a mitraglia; a cavallo più che possono e al galoppo, oppure, se vanno a piedi, con le braccia in avanti, come se andassero davvero a liberare e disboscare quest'Universo pieno di difficoltà e d'accidenti che si presenta senza posa davanti a loro.
(Henri Michaux, Altrove, Quodlibet 2005)
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sabato 22 agosto 2009
bravi ragazzi
da Nazione Indiana:
La nazionale di cricket under 15 ha conquistato il titolo di campione europeo battendo la squadra dell’isola di Man per 163 a 59 nella finale. Il presidente della Federcricket, Simone Gambino, ha dedicato la vittoria a Umberto Bossi, visto che quasi tutti i ragazzi sono figli di immigrati pakistani, indiani, bengalesi e dello Sri Lanka.
La nazionale di cricket under 15 ha conquistato il titolo di campione europeo battendo la squadra dell’isola di Man per 163 a 59 nella finale. Il presidente della Federcricket, Simone Gambino, ha dedicato la vittoria a Umberto Bossi, visto che quasi tutti i ragazzi sono figli di immigrati pakistani, indiani, bengalesi e dello Sri Lanka.
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prima e dopo dio
Mi è capitato, ultimamente, di chiedermi quando e perché ho smesso credere in Dio (ad esempio me lo sono chiesto dopo aver letto questo bel post su La poesia e lo spirito).
Non saprei, onestamente. Mi pare di ricordare che almeno fin verso i 15-16 anni ci credevo; ma non sono sicuro, dovrei recuperare i miei diari di allora, che saranno ancora a casa dei miei, in fondo a qualche cassetto.
Però ho l'impressione che il processo sia stato lungo e che sia difficile individuare un preciso punto di svolta. E che le cause siano tante, ognuna impossibile da districare e distinguere rispetto alle altre.
Certo, la mia esperienza infantile ha contato molto. Ho conosciuto un cristianesimo vacuo, esteriore, teatralizzato; si adoravano statue di santi, Madonne in lacrime con il cuore trafitto, si portavano in processione Cristi alla colonna. Un trionfo di patetismo cimiteriale, paganeggiante.
Un cristianesimo anche cupo, arido, formalistico, intimidatorio, prescrittivo, oppressivo. Leggevamo la lista dei peccati, mentre il vecchio parroco dalle mani nodose ci aspettava per la confessione, in fondo alla chiesa buia, e infuriato faceva echeggiare le volte altissime. E la catechista che, senza preavviso, mentre sedevo in attesa della Messa, mi arrivò alle spalle e mi mollò un ceffone sulla nuca. Perché non andavo all'Azione Cattolica. Ricordo la mia umiliazione, le risate dei compagni.
Solo questo? No, ricordo il fervore delle novene, un missionario passionista che ci faceva cantare tutti in coro, le preghierine che scrivevo. Ma quelle urla, quegli schiaffi, hanno lasciato cicatrici molto più profonde.
Ricordo gli anni dell'adolescenza. Chi mi aveva fatto quel corpo, chi aveva fatto sì che, quando la compagna di banco si abbassava per prendere lo zaino e dimenticandosi di non avere il reggipetto lasciava intravedere un magnifico tenerissimo capezzolo, il sangue affluisse in una zona che, secondo quanto insegnavano a dottrina, era sede degli impulsi più diabolici?
E ricordo la sensazione di vivere sospeso, senza appigli, la paralisi della volontà, l'oppressione della vita di provincia, il disprezzo per chi viveva imbestiandosi in quel brago morale. L'assurdo. Dov'era Dio? Nessuno rispondeva.
E ricordo poi il primo interesse per la politica, la sensazione di essere finalmente io ad affrontare il mondo, senza gli schermi pietistici della religione e del catechismo. Offrire il petto nudo a un universo vuoto, non ripararlo dietro un santino o uno scapolare, costruirsi il senso, non acquistarlo già precotto (“quando hai smesso di credere?”, mi chiese una volta mia suocera, e io: “quando ho cominciato a pensare con la mia testa”; lo so, sono stato stronzo, e credo che lei ci sia rimasta male, povera donna).
E ricordo, infine, V. che mi diceva di credere in Dio perché “lo sentiva nel cuore”, e io che sardonico le rispondevo che quella casomai era tachicardia.
Ecco, avessi conosciuto preti diversi; avessi vissuto l'adolescenza altrove, diversamente; avessi disprezzato meno le sensazioni e creduto un po' meno nella logica; forse oggi andrei ancora a Messa.
Di certo mi sono reso conto che chi ci va non è, come ho pensato a lungo, un patetico idiota che si nasconde sotto le gonnelle di un idolo. Che non ci si guadagna il rispetto con il disprezzo. E che in fondo le mie risposte esistenziali (agnostiche, razionaliste, nichiliste) sono solo mie, e non è detto che siano le migliori.
E poi amo mia moglie, e mia figlia. E questo è quanto di più simile a Dio ci sia nella mia vita.
venerdì 21 agosto 2009
musica per biciclette
giovedì 20 agosto 2009
recensioni in pillole 27 - "L'invenzione di Morel"
Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel, Bompiani 1966 (144 pp.)
In una celebre prefazione, Borges scrisse che questo racconto dell'amico Bioy Casares disponeva di una trama perfetta ("ho discusso con l'autore i particolari della sua trama, l'ho riletta; non mi sembra un'imprecisione o un'iperbole qualificarla di perfetta"); usò poi questa definizione come cavallo di Troia per una polemica contro il romanzo psicologico, che "tende ad essere informe", e per una difesa del romanzo basato su un intreccio rigoroso, impeccabile ("immaginazione ragionata", come lui la definisce).
Con tutto il rispetto per il Gran Veggente, a me pare che il maggior merito di questo racconto lungo (o romanzo breve che dir si voglia, ma la prima definizione mi pare più esatta) sia proprio nel riuscire a creare cento e più pagine di suspense su una trama virtualmente inesistente. Sempre per riprendere le parole di Borges, Bioy Casares "dispiega un'Odissea di prodigi che non sembrano ammettere altra chiave che l'allucinazione o il simbolo, e pienamente li decifra mediante un singolo postulato fantastico ma non soprannaturale".
Detto in maniera meno criptica, l'idea è questa: il protagonista, un ergastolano fuggiasco, si è rifugiato su un'isola deserta, coperta da paludi e da una vegetazione semiputrefatta. Unico segno di vita umana, delle strane costruzioni ormai abbandonate e dei generatori elettrici che si alimentano con l'energia delle maree.
Un giorno, cominciano inquietanti apparizioni: uomini, donne, navi, che compaiono e scompaiono senza spiegazione apparente. Quando il fuggiasco cerca di entrare in contatto con loro, questi personaggi nemmeno si accorgono di lui, anzi sembrano ripetere ossessivamente le stesse azioni. Che cosa sono? Fantasmi, allucinazioni, esseri di altri mondi?
Tutto il libro consiste nel progressivo disvelamento dell'enigma. Attraverso il monologo del protagonista, Bioy Casares crea un'atmosfera di lucida, febbrile follia, e insieme intesse una sottile (e attualissima) riflessione sul rapporto tra realtà e immagine.
(P.S.: ovviamente l'edizione del 1966 è quella che ho letto io: trovata - c'è bisogno di ripeterlo? - su una bancarella dell'usato; la copertina riprodotta nell'immagine è invece quella dell'edizione in commercio).
In una celebre prefazione, Borges scrisse che questo racconto dell'amico Bioy Casares disponeva di una trama perfetta ("ho discusso con l'autore i particolari della sua trama, l'ho riletta; non mi sembra un'imprecisione o un'iperbole qualificarla di perfetta"); usò poi questa definizione come cavallo di Troia per una polemica contro il romanzo psicologico, che "tende ad essere informe", e per una difesa del romanzo basato su un intreccio rigoroso, impeccabile ("immaginazione ragionata", come lui la definisce).
Con tutto il rispetto per il Gran Veggente, a me pare che il maggior merito di questo racconto lungo (o romanzo breve che dir si voglia, ma la prima definizione mi pare più esatta) sia proprio nel riuscire a creare cento e più pagine di suspense su una trama virtualmente inesistente. Sempre per riprendere le parole di Borges, Bioy Casares "dispiega un'Odissea di prodigi che non sembrano ammettere altra chiave che l'allucinazione o il simbolo, e pienamente li decifra mediante un singolo postulato fantastico ma non soprannaturale".
Detto in maniera meno criptica, l'idea è questa: il protagonista, un ergastolano fuggiasco, si è rifugiato su un'isola deserta, coperta da paludi e da una vegetazione semiputrefatta. Unico segno di vita umana, delle strane costruzioni ormai abbandonate e dei generatori elettrici che si alimentano con l'energia delle maree.
Un giorno, cominciano inquietanti apparizioni: uomini, donne, navi, che compaiono e scompaiono senza spiegazione apparente. Quando il fuggiasco cerca di entrare in contatto con loro, questi personaggi nemmeno si accorgono di lui, anzi sembrano ripetere ossessivamente le stesse azioni. Che cosa sono? Fantasmi, allucinazioni, esseri di altri mondi?
Tutto il libro consiste nel progressivo disvelamento dell'enigma. Attraverso il monologo del protagonista, Bioy Casares crea un'atmosfera di lucida, febbrile follia, e insieme intesse una sottile (e attualissima) riflessione sul rapporto tra realtà e immagine.
(P.S.: ovviamente l'edizione del 1966 è quella che ho letto io: trovata - c'è bisogno di ripeterlo? - su una bancarella dell'usato; la copertina riprodotta nell'immagine è invece quella dell'edizione in commercio).
mercoledì 19 agosto 2009
musica dall'altro emisfero
Si chiamano Aca Seca, sono argentini ma non fanno tango. La loro musica sta da qualche parte fra Egberto Gismonti, Milton Nascimento, il jazz, la musica classica, il Pat Metheny Group, la nueva cancion.
Sono in tre, chitarra piano e percussioni, e cantano anche, tutti e tre. Secondo me sono bravissimi.
Ascoltare per credere.
Sono in tre, chitarra piano e percussioni, e cantano anche, tutti e tre. Secondo me sono bravissimi.
Ascoltare per credere.
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faccialibro
"Mi contraddico?", scriveva Walt Whitman, "Ebbene sì, mi contraddico. Sono vasto, contengo moltitudini".
Io vasto non sono (tutt'al più mi estendo parecchio in verticale) e faccio fatica a contenere me stesso, figuriamoci se ospitassi moltitudini. Però mi contraddico lo stesso.
Pochi giorni fa avevo affermato di non esserci, né di volerci essere; ora devo rettificare.
Alla fine, mi sono materializzato anch'io su Facebook.
Ho resistito il più possibile, ho aperto un account, l'ho chiuso, e infine l'ho riaperto, perché ormai erano in troppi ad avermelo chiesto.
Non tanto gli amici, perché quelli con cui voglio tenermi in contatto li trovo comunque (mentre quelli che non vedo da dieci anni... beh, ci sarà pure un motivo), quanto piuttosto colleghi, giornalisti, musicisti eccetera eccetera.
Vedremo se durerà. Cercherò di usarlo nella maniera più razionale possibile (leggi: cercherò non farlo diventare un vizio e non diffondere inutilmente dati personali o riservati). Cercherò, almeno. Non è detto che ci riesca.
Insomma, se qualcuno mi cerca, sono (anche) lì. Almeno per il momento.
Io vasto non sono (tutt'al più mi estendo parecchio in verticale) e faccio fatica a contenere me stesso, figuriamoci se ospitassi moltitudini. Però mi contraddico lo stesso.
Pochi giorni fa avevo affermato di non esserci, né di volerci essere; ora devo rettificare.
Alla fine, mi sono materializzato anch'io su Facebook.
Ho resistito il più possibile, ho aperto un account, l'ho chiuso, e infine l'ho riaperto, perché ormai erano in troppi ad avermelo chiesto.
Non tanto gli amici, perché quelli con cui voglio tenermi in contatto li trovo comunque (mentre quelli che non vedo da dieci anni... beh, ci sarà pure un motivo), quanto piuttosto colleghi, giornalisti, musicisti eccetera eccetera.
Vedremo se durerà. Cercherò di usarlo nella maniera più razionale possibile (leggi: cercherò non farlo diventare un vizio e non diffondere inutilmente dati personali o riservati). Cercherò, almeno. Non è detto che ci riesca.
Insomma, se qualcuno mi cerca, sono (anche) lì. Almeno per il momento.
martedì 18 agosto 2009
a testa in giù
Il mondo alla rovescia: il Pd difende gli inquisiti, Famiglia Cristiana fa opposizione a Berlusconi.
Io non ci capisco più niente.
Anzi, forse capisco tutto, ma non voglio crederci.
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ciao gianni
Bei tempi, quando Mamma RAI mandava in onda roba come questa.
Gianni Basso ci ha lasciati ieri. Grande musicista, grande gentleman.
Buona ultima jam-session, e divertiti, che lassù sei in buona compagnia.
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lampi - 4
Ha capito che le grandi domande della vita ti trovano sempre in mutande.
Lui, per esempio, era in bagno, davanti allo specchio, in procinto di farsi la barba, in quello stato di comunione con il tutto che solo un'evacuazione ben riuscita può dare. E proprio in quel momento la domanda si è affacciata: ma perché sono fatto così a cazzo?
lunedì 17 agosto 2009
recensioni in pillole 26 - "E adesso, pover'uomo?"
Hans Fallada, E adesso, pover'uomo?, Sellerio 2008 (577 pp., 15 €)
Il titolo originale è Kleiner Mann, was nun?, letteralmente "piccolo uomo, e adesso?", privo quindi di quella sfumatura patetica che c'è nell'italiano "pover'uomo". Ed è senza patetismi che Fallada racconta le vite dei suoi piccoli uomini, stritolati dagli ingranaggi di una società avida e spietata.
Siamo nella Germania dei primi anni Trenta: ultimi sgoccioli della Repubblica di Weimar, inflazione, disoccupazione, crisi economica, le squadracce naziste che si affacciano sinistramente sulla scena. Ma Fallada lascia tutto ciò sullo sfondo e si concentra sul protagonista, Johannes Pinneberg. All'inizio è un uomo qualunque, un giovane impiegatuccio piccoloborghese, fidanzato con la candida Emma, detta Lämmchen ("agnellino"), figlia di operai. Quando lei rimane incinta, i due decidono di sposarsi, con l'allegra incoscienza della gioventù.
Ovviamente le cose non andranno bene, anzi andranno di male in peggio. Johannes rimarrà disoccupato, i Pinneberg scivoleranno nella povertà; perduta la posizione sociale, arriveranno le umiliazioni, verranno meno la dignità, i diritti più elementari.
Fallada adotta uno stile svelto, concreto, privo di fronzoli, riesce a trovare persino accenti di commedia che fanno risaltare ancor di più gli episodi drammatici (la scena con l'attore al negozio di vestiti è di una crudeltà lancinante).
Alla fine sarà solo l'amore tra Johannes e Lämmchen a farli sopravvivere; ed è proprio lei, Lämmchen, l'unica vera luce del romanzo, con la sua invincibile bontà, il suo amore incondizionato, ma anche con la sua incrollabile, proletaria caparbietà davanti alle disgrazie. Lämmchen che ha la tessera del Partito Socialista (ma anche "una certa simpatia per i comunisti") e che enuncia le parole più limpide e attuali:
Come si fa a ridere di cuore, in un mondo come questo, in cui i responsabili dell'economia han potuto risanare se stessi, pur avendo commesso mille errori, e la gente che sta in basso viene umiliata e calpestata, pur avendo fatto sempre del suo meglio?
Non sarebbe male, se in queste cose ci fosse un po' più di giustizia, pensa Lämmchen.
Ma Lämmchen non trova risposta; Johannes, indeciso e sostanzialmente apolitico, nemmeno. L'unica risposta è la loro povera casetta, il loro bimbo, il loro amore che non si spegne mai.
Il libro uscì nel 1932. Un anno dopo, un omino coi baffi sarebbe arrivato a dimostrare che, forse, quella risposta non bastava.
Il titolo originale è Kleiner Mann, was nun?, letteralmente "piccolo uomo, e adesso?", privo quindi di quella sfumatura patetica che c'è nell'italiano "pover'uomo". Ed è senza patetismi che Fallada racconta le vite dei suoi piccoli uomini, stritolati dagli ingranaggi di una società avida e spietata.
Siamo nella Germania dei primi anni Trenta: ultimi sgoccioli della Repubblica di Weimar, inflazione, disoccupazione, crisi economica, le squadracce naziste che si affacciano sinistramente sulla scena. Ma Fallada lascia tutto ciò sullo sfondo e si concentra sul protagonista, Johannes Pinneberg. All'inizio è un uomo qualunque, un giovane impiegatuccio piccoloborghese, fidanzato con la candida Emma, detta Lämmchen ("agnellino"), figlia di operai. Quando lei rimane incinta, i due decidono di sposarsi, con l'allegra incoscienza della gioventù.
Ovviamente le cose non andranno bene, anzi andranno di male in peggio. Johannes rimarrà disoccupato, i Pinneberg scivoleranno nella povertà; perduta la posizione sociale, arriveranno le umiliazioni, verranno meno la dignità, i diritti più elementari.
Fallada adotta uno stile svelto, concreto, privo di fronzoli, riesce a trovare persino accenti di commedia che fanno risaltare ancor di più gli episodi drammatici (la scena con l'attore al negozio di vestiti è di una crudeltà lancinante).
Alla fine sarà solo l'amore tra Johannes e Lämmchen a farli sopravvivere; ed è proprio lei, Lämmchen, l'unica vera luce del romanzo, con la sua invincibile bontà, il suo amore incondizionato, ma anche con la sua incrollabile, proletaria caparbietà davanti alle disgrazie. Lämmchen che ha la tessera del Partito Socialista (ma anche "una certa simpatia per i comunisti") e che enuncia le parole più limpide e attuali:
Come si fa a ridere di cuore, in un mondo come questo, in cui i responsabili dell'economia han potuto risanare se stessi, pur avendo commesso mille errori, e la gente che sta in basso viene umiliata e calpestata, pur avendo fatto sempre del suo meglio?
Non sarebbe male, se in queste cose ci fosse un po' più di giustizia, pensa Lämmchen.
Ma Lämmchen non trova risposta; Johannes, indeciso e sostanzialmente apolitico, nemmeno. L'unica risposta è la loro povera casetta, il loro bimbo, il loro amore che non si spegne mai.
Il libro uscì nel 1932. Un anno dopo, un omino coi baffi sarebbe arrivato a dimostrare che, forse, quella risposta non bastava.
domenica 16 agosto 2009
altri tempi
Il primo ricordo che ho di mia nonna è: io e lei appoggiati ai vetri del balcone, in un pomeriggio di fine anni Settanta. Potevo avere forse quattro o cinque anni. Aspettavamo che tornassero a casa i miei, che a quel tempo per tirare avanti facevano il doppio lavoro. Io osservavo le lettere sull'insegna del negozio dall'altro lato della strada e poi le ricopiavo, in ordine rigorosamente casuale, nelle caselle del cruciverba di mio nonno.
Mia nonna si chiamava Italia Palma Addolorata Delle Fave, coniugata Tota. Italia perché era del '16 e l'Italia era appena entrata in guerra; Palma perché era nata il 16 aprile, la Domenica delle Palme; Addolorata, credo, per qualche devozione familiare alla Madonna Addolorata (per ragioni consimili, mia madre si è ritrovata a chiamarsi Maria Rosaria Pompea).
Tutti la chiamavano comare Italia, ma dei suoi tre nomi era il terzo, Addolorata, quello che le si addiceva di più. Aveva una visione prettamente tragica dell'esistenza: tutto era fatale, inevitabile, votato al fallimento. L'altro ricordo che ho di lei è di quando mi portava ad accendere ceri e recitare rosari sotto la statua di Santa Rita (la santa degli impossibili: chi altri?), nella chiesa di San Nicola, che per me rimane tuttora la chiesa di Santa Rita. Nelle foto, anche quando sorride, sembra il ritratto dell'afflizione. Fin da quando ero piccolissimo, ricordo di averla sentita ripetere che ormai era vecchia e per lei era tempo di morire. Doveva essere una forma di scongiuro. La sua esclamazione tipica era "Oh Dio misericordia!", esalata tutta d'un fiato, in un sospiro, come un geyser che ogni tanto aveva necessità di eruttare.
Per cinquant'anni il suo tenace pessimismo fu stoicamente sopportato da mio nonno Paolo (Pavulù, Paoluccio, come lo chiamava lei). Mia madre mi raccontò che si sposarono per accordo tra le famiglie, ma lei non voleva assolutamente farsi vedere prima del matrimonio. Un giorno lui trovò un pretesto per salire a casa sua e lei si chiuse in bagno, strillando e rifiutando di uscire. Mio nonno lo ricordo vecchio e calvo, ma da giovane doveva essere stato un bell'uomo, biondo, alto, slanciato, con gli occhi celesti. Era un ex-ferroviere, raccontava sempre che il giorno che gli Alleati bombardarono la stazione di Foggia lui aveva appena finito il turno e si salvò per miracolo. Mi accompagnava all'asilo in bicicletta, in un sedile montato sopra il manubrio, e il pomeriggio andavamo in stazione a guardar passare i treni, oppure io fingevo di leggergli i libri di favole, che in realtà avevo imparato a memoria. Quando cominciai a suonare il pianoforte, i miei misero lo strumento nello studio di mio padre, una stanza arredata con massicci, minacciosi mobili in legno scuro; io ero terrorizzato da quella stanza, così lui doveva sempre farmi compagnia mentre facevo i miei esercizi. Mia sorella, invece, lo sfruttava come figurante nelle complesse rappresentazioni teatrali che allestiva (il suo ruolo tipico era il lupo in Cappuccetto Rosso).
Mia nonna passava i pomeriggi al balcone, a chiacchierare con le comari, oppure passeggiava instancabilmente (cossa longa, "gambalunga", la chiamava mio padre). A un certo punto litigò con l'altra mia nonna e non si parlarono per anni, finché non scoprirono che nessuna delle due ricordava la causa del litigio. Conobbi anche sua madre, la mia bisnonna Antonietta, nata Capotosto, che morì vecchissima quando io avevo pochi anni (se la portò via un tumore al seno, che aveva rifiutato di farsi curare perché "ormai, alla mia età..."; invece sopravvisse quasi quindici anni). La bisnonna abitava proprio sopra di noi, insieme a un'amica rimasta zitella, alla quale un cancro aveva mangiato buona parte del setto nasale. Ricordo che, per qualche motivo, le portavo sempre uova sode in un pentolino.
Mia nonna aveva studiato fino alla terza elementare, poi si era messa a fare la sarta. Leggeva compitando e scriveva con grosse lettere tremolanti da scolaretta. Parlava solo dialetto. Però i suoi figli erano tutti laureati (quelli sopravvissuti, almeno: prima di mia madre ebbe altre due bambine, vissute una pochi mesi, l'altra un anno e mezzo; erano gli anni Quaranta, succedeva).
Aveva cresciuto due o tre dei suoi molti fratelli e sorelle (sette? otto?), dei quali conobbi solo una sorella, che aveva una rivendita all'ingrosso di bibite e quando la andavamo a trovare mi offriva sempre l'aranciata.
In una famiglia di spilungoni, era l'unica minuscola, credo poco più di un metro e cinquanta. Aveva dei begli occhi grigio-verdi, che oggi mi sembra di rivedere in quelli di mia figlia. E aveva anche una naturale disposizione verso il patetico. Ogni occasione era buona per versare fiumi di lacrime; di un film, il massimo complimento per lei era dire "ho pianto", e dagli anni Ottanta divenne una vorace consumatrice di telenovelas.
Nel 2006, a novant'anni suonati, si sobbarcò cinque ore di automobile fino a Perugia per assistere al mio matrimonio. Si era fatta la messa in piega e, fino alla fine del pranzo, rifiutò di indossare alcunché sulla testa (la giornata era fresca, nonostante fossimo in giugno), per non guastare il lavoro del parrucchiere.
Abitava in una vecchissima casa del centro storico, a cinque minuti di strada da casa mia. Per arrivarci si attraversava un vicolo (ci viveva uno scugnizzo torvo e riccioluto che ogni volta mi minacciava di tremende punizioni se avessi osato ripassare di lì) e poi si passava davanti all'enorme portone di un magazzino (almeno, io lo visualizzo enorme, nero, buio), dove viveva un cane di cui ricordo solo gli occhi feroci, l'abbaiare furioso, il tintinnio della catena.
A casa di mia nonna gli scalini erano altissimi e strettissimi. Era piena di cose, cianfrusaglie vecchie di decenni: un modellino di gondola (ricordo del viaggio di nozze?) con il remo sostituito da una cannuccia; un pupo siciliano in miniatura; un indefinibile oggettino di ceramica con su scritto “Souvenir di Sulmona”; una grande foto incorniciata del mio bisnonno Felice, morto nella Grande Guerra; libri per bambini degli anni Cinquanta e Sessanta, di quando erano piccoli mia madre e i miei zii (chissà che fine avrà fatto quell'edizione del libro Cuore; e I ragazzi della via Paal; e I figli di Jo; e Ventimila leghe sotto i mari; e quel libro su Pompei, con le foto degli scavi e i fogli di cellophane trasparente da sovrapporre, che rivelavano la forma originale degli edifici...); una bomba a mano vuota, reperto di chissà quale guerra; una cyclette comprata da mio zio e mai usata; una sedia a sdraio vecchissima e cigolante; una Madonna di Lourdes in plastica trasparente, piena di acqua benedetta; un meccano; una scacchiera per la dama; un lume da comò con il globo biancastro, lattescente; un armadio nel sottotetto, pieno di valigie di cartone; un cavallino di bronzo, pesantissimo. Per me, un paradiso.
In cucina c'era sempre una gabbia con un canarino. Uno di questi canarini lo feci morire io, perché gli diedi da mangiare l'impasto che mia nonna aveva preparato per le orecchiette domenicali. In un angolo c'erano delle mele cotogne messe a seccare. Accanto alla cucina c'era una dispensa a cui si accedeva salendo tre o quattro scalini, e da lì partiva una scala che dopo pochi metri finiva, misteriosamente, contro una parete. Ricordo anche l'androne, altissimo, con un lucernario dai vetri rotti, tappati con il cartone. C'era una radio anni Cinquanta e un televisore in bianco e nero, credo uno degli ultimi esemplari sopravvissuti al mondo.
Ma il mio regno era la soffitta, nera di penombra e di polvere incrostata, con il pavimento di mattoni grezzi, dove i miei nonni ogni estate si ritiravano per giorni a cuocere e imbottigliare la salsa. Lì giocavo a freccette con un vecchio bersaglio ormai bucherellato come un gruviera, oppure tentavo invano di allargare una molla da ginnastica completamente arrugginnita, o giocavo a bocce sul terrazzo. Il terrazzo dava sui tetti di San Severo, le tegole erano piene di licheni e millepiedi, e in un angolo c'era un pollaio ormai vuoto, sempre chiuso.
Mia nonna praticava fedelmente una parsimonia d'altri tempi. Scendeva le scale al buio per non sprecare la luce, a rischio di rompersi l’osso del collo. Aveva la carta da parati tutta pezzata, perché da sempre riparava gli strappi con ritagli di colori vagamente simili (e non comprava nemmeno la colla: impastava acqua e farina). Credo non avesse fatto un solo lavoro in casa negli ultimi trent’anni: i muri erano verdi d’umidità, i tubi dell’acqua talmente arrugginiti che mio zio, che viveva con lei (era il figlio più piccolo, rimasto scapolo, il cruccio della sua vita), si beccò la legionella.
Conosceva proverbi ormai dimenticati, parole che nessuno più capiva, e ricordava a memoria tutti gli scongiuri contro il malocchio. Apparteneva a una razza longeva: tutte le donne della famiglia avevano sfiorato il secolo. Lei stessa resse bene fino a un paio d'anni fa; poi, come succede spesso, ebbe un rapido collasso, tutto in una volta. Quando si ammalò, nessuno sapeva dove tenesse i risparmi (erano in serbo per il sempre sperato matrimonio del figlio, ovviamente). Per convincerla a tenere la badante, mia madre le disse che la pagava cento euro al mese. Lei ci credette, o finse di crederci.
L’ultima volta che l’ho vista era un mucchietto d’ossa e pelle, la faccia sepolta in un dedalo di rughe. Non parlava più, ma mi riconobbe e pianse.
E’ morta un anno fa, il giorno dopo Ferragosto, a novantadue anni. Aveva attraversato buona parte del Novecento e anche uno scorcio di questo nuovo secolo. Al quale, chiaramente, non apparteneva.
Mia nonna si chiamava Italia Palma Addolorata Delle Fave, coniugata Tota. Italia perché era del '16 e l'Italia era appena entrata in guerra; Palma perché era nata il 16 aprile, la Domenica delle Palme; Addolorata, credo, per qualche devozione familiare alla Madonna Addolorata (per ragioni consimili, mia madre si è ritrovata a chiamarsi Maria Rosaria Pompea).
Tutti la chiamavano comare Italia, ma dei suoi tre nomi era il terzo, Addolorata, quello che le si addiceva di più. Aveva una visione prettamente tragica dell'esistenza: tutto era fatale, inevitabile, votato al fallimento. L'altro ricordo che ho di lei è di quando mi portava ad accendere ceri e recitare rosari sotto la statua di Santa Rita (la santa degli impossibili: chi altri?), nella chiesa di San Nicola, che per me rimane tuttora la chiesa di Santa Rita. Nelle foto, anche quando sorride, sembra il ritratto dell'afflizione. Fin da quando ero piccolissimo, ricordo di averla sentita ripetere che ormai era vecchia e per lei era tempo di morire. Doveva essere una forma di scongiuro. La sua esclamazione tipica era "Oh Dio misericordia!", esalata tutta d'un fiato, in un sospiro, come un geyser che ogni tanto aveva necessità di eruttare.
Per cinquant'anni il suo tenace pessimismo fu stoicamente sopportato da mio nonno Paolo (Pavulù, Paoluccio, come lo chiamava lei). Mia madre mi raccontò che si sposarono per accordo tra le famiglie, ma lei non voleva assolutamente farsi vedere prima del matrimonio. Un giorno lui trovò un pretesto per salire a casa sua e lei si chiuse in bagno, strillando e rifiutando di uscire. Mio nonno lo ricordo vecchio e calvo, ma da giovane doveva essere stato un bell'uomo, biondo, alto, slanciato, con gli occhi celesti. Era un ex-ferroviere, raccontava sempre che il giorno che gli Alleati bombardarono la stazione di Foggia lui aveva appena finito il turno e si salvò per miracolo. Mi accompagnava all'asilo in bicicletta, in un sedile montato sopra il manubrio, e il pomeriggio andavamo in stazione a guardar passare i treni, oppure io fingevo di leggergli i libri di favole, che in realtà avevo imparato a memoria. Quando cominciai a suonare il pianoforte, i miei misero lo strumento nello studio di mio padre, una stanza arredata con massicci, minacciosi mobili in legno scuro; io ero terrorizzato da quella stanza, così lui doveva sempre farmi compagnia mentre facevo i miei esercizi. Mia sorella, invece, lo sfruttava come figurante nelle complesse rappresentazioni teatrali che allestiva (il suo ruolo tipico era il lupo in Cappuccetto Rosso).
Mia nonna passava i pomeriggi al balcone, a chiacchierare con le comari, oppure passeggiava instancabilmente (cossa longa, "gambalunga", la chiamava mio padre). A un certo punto litigò con l'altra mia nonna e non si parlarono per anni, finché non scoprirono che nessuna delle due ricordava la causa del litigio. Conobbi anche sua madre, la mia bisnonna Antonietta, nata Capotosto, che morì vecchissima quando io avevo pochi anni (se la portò via un tumore al seno, che aveva rifiutato di farsi curare perché "ormai, alla mia età..."; invece sopravvisse quasi quindici anni). La bisnonna abitava proprio sopra di noi, insieme a un'amica rimasta zitella, alla quale un cancro aveva mangiato buona parte del setto nasale. Ricordo che, per qualche motivo, le portavo sempre uova sode in un pentolino.
Mia nonna aveva studiato fino alla terza elementare, poi si era messa a fare la sarta. Leggeva compitando e scriveva con grosse lettere tremolanti da scolaretta. Parlava solo dialetto. Però i suoi figli erano tutti laureati (quelli sopravvissuti, almeno: prima di mia madre ebbe altre due bambine, vissute una pochi mesi, l'altra un anno e mezzo; erano gli anni Quaranta, succedeva).
Aveva cresciuto due o tre dei suoi molti fratelli e sorelle (sette? otto?), dei quali conobbi solo una sorella, che aveva una rivendita all'ingrosso di bibite e quando la andavamo a trovare mi offriva sempre l'aranciata.
In una famiglia di spilungoni, era l'unica minuscola, credo poco più di un metro e cinquanta. Aveva dei begli occhi grigio-verdi, che oggi mi sembra di rivedere in quelli di mia figlia. E aveva anche una naturale disposizione verso il patetico. Ogni occasione era buona per versare fiumi di lacrime; di un film, il massimo complimento per lei era dire "ho pianto", e dagli anni Ottanta divenne una vorace consumatrice di telenovelas.
Nel 2006, a novant'anni suonati, si sobbarcò cinque ore di automobile fino a Perugia per assistere al mio matrimonio. Si era fatta la messa in piega e, fino alla fine del pranzo, rifiutò di indossare alcunché sulla testa (la giornata era fresca, nonostante fossimo in giugno), per non guastare il lavoro del parrucchiere.
Abitava in una vecchissima casa del centro storico, a cinque minuti di strada da casa mia. Per arrivarci si attraversava un vicolo (ci viveva uno scugnizzo torvo e riccioluto che ogni volta mi minacciava di tremende punizioni se avessi osato ripassare di lì) e poi si passava davanti all'enorme portone di un magazzino (almeno, io lo visualizzo enorme, nero, buio), dove viveva un cane di cui ricordo solo gli occhi feroci, l'abbaiare furioso, il tintinnio della catena.
A casa di mia nonna gli scalini erano altissimi e strettissimi. Era piena di cose, cianfrusaglie vecchie di decenni: un modellino di gondola (ricordo del viaggio di nozze?) con il remo sostituito da una cannuccia; un pupo siciliano in miniatura; un indefinibile oggettino di ceramica con su scritto “Souvenir di Sulmona”; una grande foto incorniciata del mio bisnonno Felice, morto nella Grande Guerra; libri per bambini degli anni Cinquanta e Sessanta, di quando erano piccoli mia madre e i miei zii (chissà che fine avrà fatto quell'edizione del libro Cuore; e I ragazzi della via Paal; e I figli di Jo; e Ventimila leghe sotto i mari; e quel libro su Pompei, con le foto degli scavi e i fogli di cellophane trasparente da sovrapporre, che rivelavano la forma originale degli edifici...); una bomba a mano vuota, reperto di chissà quale guerra; una cyclette comprata da mio zio e mai usata; una sedia a sdraio vecchissima e cigolante; una Madonna di Lourdes in plastica trasparente, piena di acqua benedetta; un meccano; una scacchiera per la dama; un lume da comò con il globo biancastro, lattescente; un armadio nel sottotetto, pieno di valigie di cartone; un cavallino di bronzo, pesantissimo. Per me, un paradiso.
In cucina c'era sempre una gabbia con un canarino. Uno di questi canarini lo feci morire io, perché gli diedi da mangiare l'impasto che mia nonna aveva preparato per le orecchiette domenicali. In un angolo c'erano delle mele cotogne messe a seccare. Accanto alla cucina c'era una dispensa a cui si accedeva salendo tre o quattro scalini, e da lì partiva una scala che dopo pochi metri finiva, misteriosamente, contro una parete. Ricordo anche l'androne, altissimo, con un lucernario dai vetri rotti, tappati con il cartone. C'era una radio anni Cinquanta e un televisore in bianco e nero, credo uno degli ultimi esemplari sopravvissuti al mondo.
Ma il mio regno era la soffitta, nera di penombra e di polvere incrostata, con il pavimento di mattoni grezzi, dove i miei nonni ogni estate si ritiravano per giorni a cuocere e imbottigliare la salsa. Lì giocavo a freccette con un vecchio bersaglio ormai bucherellato come un gruviera, oppure tentavo invano di allargare una molla da ginnastica completamente arrugginnita, o giocavo a bocce sul terrazzo. Il terrazzo dava sui tetti di San Severo, le tegole erano piene di licheni e millepiedi, e in un angolo c'era un pollaio ormai vuoto, sempre chiuso.
Mia nonna praticava fedelmente una parsimonia d'altri tempi. Scendeva le scale al buio per non sprecare la luce, a rischio di rompersi l’osso del collo. Aveva la carta da parati tutta pezzata, perché da sempre riparava gli strappi con ritagli di colori vagamente simili (e non comprava nemmeno la colla: impastava acqua e farina). Credo non avesse fatto un solo lavoro in casa negli ultimi trent’anni: i muri erano verdi d’umidità, i tubi dell’acqua talmente arrugginiti che mio zio, che viveva con lei (era il figlio più piccolo, rimasto scapolo, il cruccio della sua vita), si beccò la legionella.
Conosceva proverbi ormai dimenticati, parole che nessuno più capiva, e ricordava a memoria tutti gli scongiuri contro il malocchio. Apparteneva a una razza longeva: tutte le donne della famiglia avevano sfiorato il secolo. Lei stessa resse bene fino a un paio d'anni fa; poi, come succede spesso, ebbe un rapido collasso, tutto in una volta. Quando si ammalò, nessuno sapeva dove tenesse i risparmi (erano in serbo per il sempre sperato matrimonio del figlio, ovviamente). Per convincerla a tenere la badante, mia madre le disse che la pagava cento euro al mese. Lei ci credette, o finse di crederci.
L’ultima volta che l’ho vista era un mucchietto d’ossa e pelle, la faccia sepolta in un dedalo di rughe. Non parlava più, ma mi riconobbe e pianse.
E’ morta un anno fa, il giorno dopo Ferragosto, a novantadue anni. Aveva attraversato buona parte del Novecento e anche uno scorcio di questo nuovo secolo. Al quale, chiaramente, non apparteneva.
sabato 15 agosto 2009
sulle panchine (ora che è estate)
venerdì 14 agosto 2009
lampi - 3
giovedì 13 agosto 2009
recensioni in pillole 25 - "Un altro mondo"
James Baldwin, Un altro mondo, Le Lettere 2004 (443 pp., € 16,50)
New York, fine degli anni '50. Rufus Scott è un batterista jazz, bello, sicuro di sé, stronzo quanto basta. Almeno finché non incontra Leona, appena arrivata dal Sud, con alle spalle una storia di alcoolismo e violenze familiari. Tra i due scoppierà un amore che porterà entrambi all'autodistruzione. Perché Rufus è nero, Leona è bianca. E questo, nell'America di quegli anni, vuol dire ancora molto.
Ma è solo l'inizio, le prime cento pagine su oltre quattrocento. Nel resto del romanzo i protagonisti sono gli amici di Rufus che, dopo il suo suicidio, si trovano a chiedersene le ragioni e, allo stesso tempo, ad affrontare se stessi: sua sorella Ida, bellissima e fiera, decisa a trovare nella musica il riscatto dall'emarginazione; ma soprattutto i bianchi: Vivaldo, scrittore in crisi, debole e irresoluto; Cass, altoborghese delusa dal proprio matrimonio; Eric, attore omosessuale, appena tornato in America dopo anni di autoesilio in Francia.
Baldwin adotta uno stile narrativo ricco di flashback e monologhi interiori, lento, circolare (quello che sembrava il protagonista muore a pag. 91, mentre uno dei principali coprotagonisti fa la sua comparsa a pag. 181, quasi a metà libro). Tallona i suoi personaggi nelle loro giornate e, soprattutto, nelle loro notti, indaga nei loro pensieri, nelle loro vite sbandate, li osserva vagabondare per il Village o per Harlem, parlare, fare l'amore (nel romanzo si fa molto sesso, sia etero sia omosessuale). E intanto disegna una New York sporca, cinica, solitaria. Tutti sono disperatamente soli, chi ama prima o poi è tradito o abbandonato; non soltanto tra i bianchi e i neri c'è un muro di pregiudizi e rancore, ma ognuno sembra vivere in "un altro mondo" (ma il titolo originale è ancora più preciso e pregnante: Another Country, un altro paese, con tutte le implicazioni politiche del caso).
Baldwin era nero, omosessuale, di sinistra (insomma, ce le aveva proprio tutte); iniziò il romanzo a New York a fine anni '40, ci lavorò per tutti gli anni '50, quando era già espatriato in Francia (e la Francia è una delle poche oasi di felicità in queste pagine) e lo terminò nel 1961 durante un soggiorno in Turchia.
Another Country è il suo sguardo di esule sull'America, duro, rabbioso e disperato. Che però si chiude con una nota - tenue, ambigua, ma significativa - di speranza. Forse, per qualcuno, l'America può essere ancora la terra promessa.
(Peccato per l'antiquata traduzione di Attilio Veraldi. I dialoghi, soprattutto, sono una vera piaga, fra improbabili arcaismi e goffi tentativi di rendere lo slang originale).
(Peccato per l'antiquata traduzione di Attilio Veraldi. I dialoghi, soprattutto, sono una vera piaga, fra improbabili arcaismi e goffi tentativi di rendere lo slang originale).
mercoledì 12 agosto 2009
jazz people 6 - mad professor
Chiariamo subito: qui si parla di un grande. Di uno di quelli fondamentali, uno che il jazz ce l'ha tutto sulla punta delle dita. Una vera enciclopedia vivente. E anche simpatico, quando arrivi a conoscerlo, un romanaccio di quelli veraci.
Però è un pazzo scatenato.
La mia prima esperienza con lui fu a un corso di musicologia. La lezione cominciava alle nove; lui alle otto e trentacinque entra in classe e mette su un disco di musica contemporanea (credo fosse Ligeti). Poi rimane venticinque minuti ad ascoltarlo perfettamente immobile, con gli occhi semichiusi. L'atmosfera della stanza era quella di una sala frigorifera. La gente arrivava e andava a sedersi in punta di piedi, timorosa persino di far cadere una penna.
Alle nove in punto, MP riapre gli occhi, legge l'elenco delle persone iscritte al corso e constata che ne mancano due. Va in paranoia. “Non capisco, non capisco. Non capisco proprio perché mai queste persone non siano ancora arrivate. Non capisco”. Dopo qualche minuto, qualcuno gli chiede timidamente se per caso non si poteva cominciare lo stesso.
“No”, risponde lui. “Perché in questo corso sentirete cose che non potrete più sentire da nessun'altra parte. Ogni parola che vi dirò è indispensabile”.
Devo dire, onestamente, che aveva ragione. Il soggetto del corso (circa dodici ore, divise in tre o quattro giornate) fu: una teoria unificante che spiegava e analizzava tutta la musica di tutti i paesi del mondo dal Paleolitico ai giorni nostri. Con diramazioni in campi come la psicologia cognitiva, la neuropsichiatria, la linguistica chomskiana, la teoria degli universali linguistici, l'etnografia, l'antropologia, la biologia evoluzionista e la genetica.
Non so quanti siano sopravvissuti.
Ho sentito dire che una volta, durante un corso a Roma, MP dovette assentarsi dall'aula per qualche minuto. Uscì e chiuse a chiave, dall'esterno.
MP è un fanatico delle tecnologie di registrazione. Possiede praticamente ogni incisione jazz realizzata dal 1917 ad oggi, quasi sempre nel formato originale. Ha tutti i più moderni software di editing sonoro e una collezione di giradischi, mangianastri e lettori capaci di far suonare qualunque supporto discografico prodotto da Edison in poi.
Conosce a memoria le discografie di tutti i musicisti jazz, compresi quelli che hanno inciso cinque tracce su un 78 giri nel 1924 e poi sono morti alcoolizzati; però non è in grado di ricordare una faccia, neanche dopo averla vista per dieci volte di seguito.
Le ultime notizie che ho di lui sono che ha mollato tutto e se n'è andato in Messico, a studiare non so più che cosa.
Però è un pazzo scatenato.
La mia prima esperienza con lui fu a un corso di musicologia. La lezione cominciava alle nove; lui alle otto e trentacinque entra in classe e mette su un disco di musica contemporanea (credo fosse Ligeti). Poi rimane venticinque minuti ad ascoltarlo perfettamente immobile, con gli occhi semichiusi. L'atmosfera della stanza era quella di una sala frigorifera. La gente arrivava e andava a sedersi in punta di piedi, timorosa persino di far cadere una penna.
Alle nove in punto, MP riapre gli occhi, legge l'elenco delle persone iscritte al corso e constata che ne mancano due. Va in paranoia. “Non capisco, non capisco. Non capisco proprio perché mai queste persone non siano ancora arrivate. Non capisco”. Dopo qualche minuto, qualcuno gli chiede timidamente se per caso non si poteva cominciare lo stesso.
“No”, risponde lui. “Perché in questo corso sentirete cose che non potrete più sentire da nessun'altra parte. Ogni parola che vi dirò è indispensabile”.
Devo dire, onestamente, che aveva ragione. Il soggetto del corso (circa dodici ore, divise in tre o quattro giornate) fu: una teoria unificante che spiegava e analizzava tutta la musica di tutti i paesi del mondo dal Paleolitico ai giorni nostri. Con diramazioni in campi come la psicologia cognitiva, la neuropsichiatria, la linguistica chomskiana, la teoria degli universali linguistici, l'etnografia, l'antropologia, la biologia evoluzionista e la genetica.
Non so quanti siano sopravvissuti.
Ho sentito dire che una volta, durante un corso a Roma, MP dovette assentarsi dall'aula per qualche minuto. Uscì e chiuse a chiave, dall'esterno.
MP è un fanatico delle tecnologie di registrazione. Possiede praticamente ogni incisione jazz realizzata dal 1917 ad oggi, quasi sempre nel formato originale. Ha tutti i più moderni software di editing sonoro e una collezione di giradischi, mangianastri e lettori capaci di far suonare qualunque supporto discografico prodotto da Edison in poi.
Conosce a memoria le discografie di tutti i musicisti jazz, compresi quelli che hanno inciso cinque tracce su un 78 giri nel 1924 e poi sono morti alcoolizzati; però non è in grado di ricordare una faccia, neanche dopo averla vista per dieci volte di seguito.
Le ultime notizie che ho di lui sono che ha mollato tutto e se n'è andato in Messico, a studiare non so più che cosa.
martedì 11 agosto 2009
lunedì 10 agosto 2009
recensioni in pillole 24 - "La cretese"
Robinson Jeffers, La Cretese (dall'Ippolito di Euripide), Scheiwiller/All'insegna del pesce d'oro, 1967 (112 pp.)
Un'altra delle mie trouvailles. Un'edizione Scheiwiller in tiratura limitata (mille copie numerate, questa è la numero 800), pescata sugli scaffali di una libreria dell'usato.
Di Robinson Jeffers ho già parlato; qui dimostra tutta la sua cultura classica, tessendo una variazione sul mito di Fedra. La storia, trattata da Euripide, Seneca, Racine, D'Annunzio e infiniti altri, è ben nota: Ippolito, figlio di Teseo, è un giovane bellissimo ma altero, che ama solo la caccia e disprezza l'amore delle donne. Per punirlo, Afrodite fa nascere nella sua matrigna Fedra (la "Cretese" del titolo) una passione folle e illecita, che porterà entrambi alla rovina.
Jeffers rispetta il mito classico, pur concedendosi qualche licenza (elimina ad esempio la rivalità tra Afrodite e Artemide e disegna Ippolito come esplicitamente omofilo); costruisce una tragedia con tanto di coro (tre povere mendicanti), che rispetta le unità aristoteliche (tutto si svolge in poche ore, davanti alla reggia di Teseo) e mette in scena anche una teofania (Afrodite appare a metà e alla fine della rappresentazione). Echeggia modi e misure dell'esametro greco, pur in una maggior libertà metrica, e con qualche tocco di realismo. Mette in bocca alla cretese Fedra un'ironica descrizione dei Greci come "piccole tribù / Di [...] feroci assassini, che sanno soltanto odiare e uccidere. / E amano le tragedie! Noi Cretesi / Amiamo luce e risa...".
Soprattutto, centra tutta la tragedia sulla forza ineluttabile dell'amore, maledizione divina che travolge il cuore dell'uomo senza possibile resistenza. Anche Ippolito, fautore del libero arbitrio, soccombe alla terribile vendetta di Afrodite, che chiude la tragedia con il suo impassibile sorriso:
Non ci rammarichiamo troppo dei guai degli uomini.
In cielo ridiamo.
Camminiamo nell'olimpo e negli alti cieli, il fulmine latra ai nostri piedi come un cane:
Ciò che ci piace, facciamo. (Sorride) Io sono il potere d'amore.
(Pensosa sorride)
Nel futuro gli uomini diverranno così potenti
da aver controllo sui cieli e sulla terra,
Da capire le stelle e tutte le scienze -
Ma stiano in guardia. Qualcosa sta in agguato.
C'è sempre una lama tra i fiori. Oltre i fuochi sta sempre un leone.
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domenica 9 agosto 2009
polvere
Mi chiedo perché mai continuo ad evitare l'attualità editoriale e a leggere vecchi libri, recuperandoli sulle bancarelle dell'usato e riempiendo la casa di volumi polverosi, con le copertine lacere e macchiate, le coste giallognole che sanno di fradicio.
E dire che il materiale contemporaneo non mi mancherebbe: solo negli ultimi mesi avevo pensato di leggere, o perlomeno di comprare, Davide di Carlo Coccioli, Il tempo materiale di Giorgio Vasta, L'ubicazione del bene di Giorgio Falco, Stabat Mater di Tiziano Scarpa, Il dolore secondo Matteo di Veronica Raimo, e un bel po' di altre cosette. E invece niente.
Continuo a pescare fra le centinaia di libri che mi aspettano sugli scaffali da anni, a volte da decenni, e magari andrà a finire che i "contemporanei" li comprerò nel 2015 o nel 2018, usati, lisi, sdruciti e scarabocchiati.
Forse c'entra lo smarrimento di fronte al caos dell'editoria, l'attesa del tranquillizzante setaccio del tempo, che separerà il grano dalla crusca.
Oppure il sottile piacere di sentirsi inattuale, che ormai ho imparato ad accettare come uno dei tratti dominanti del mio carattere. (Tanto per dire, sono uno dei pochi abitanti del mondo civilizzato a non avere un account attivo su FaceBook; probabilmente mi deciderò ad averlo quando FB sarà ormai fuori moda).
O forse l'imprinting olfattivo delle ore e ore passate, da ragazzo, a sfogliare i libri impilati negli armadi di mia nonna, edizioni degli anni '40 e '50 che mi lasciavano le dita nere di polvere. Quell'odore stantìo, muffito, mi dava un piacevole stordimento. Era un piacere aggiunto al piacere della lettura.
Li sfogliavo per trovarci una firma, una dedica, un petalo secco, un pezzo di scotch applicato chissà quando da chissà chi. Mi facevano sentire meno solo, durante quell'attività da solitari che è la lettura.
sabato 8 agosto 2009
segnalazione (e scusate il ritardo)
Come la topografia può cambiarci la vita.
Io abito in una bella villetta sul fianco di una collina, a Ferro di Cavallo, quartiere a dieci minuti d'auto dal centro di Perugia. La zona è carina, ben collegata, ricca di verde; la casa è nostra, l'abbiamo potuta comprare grazie a una serie di occasioni e dando fondo ai rispettivi conti in banca, con un aiutino dei miei genitori e senza dover prendere mutui (per fortuna).
Le finestre del soggiorno si affacciano su un vialetto alberato, poi su un declivio coperto di prati, quindi su un fondovalle con orti e un piccolo rivoletto d'acqua circondato da salici; a circa un chilometro corre la superstrada E45 (celata, per fortuna, dagli alberi). Infine, proprio di fronte a noi, c'è la collina di Lacugnana, fitta di boschi, che occupa una discreta porzione di cielo. E qui veniamo al punto.
Perché quella dannata collina ci oscura buona parte dei segnali TV e radio. Praticamente prendiamo solo Rai1, Rai2 (con qualche disturbo), Canale5, Italia1 (ora sì ora no) e La7, più qualche emittente privata locale. Rete4 va e viene. Rai3 manco a parlarne. Avevamo un decoder satellitare che si è rotto e che non abbiamo più ricomprato.
Ma il peggio, per me, è la radio: non si prende Radio3, che per anni è stata la compagna fedele delle mie giornate. Certo, potrei prenderla in streaming sul computer, ma il fatto è che in genere quando sono al computer studio, o ascolto musica per il giornale, quindi non posso ascoltare la radio in contemporanea.
Tutto ciò per dire che anche quest'anno è ricominciato "Il dottor Djembé", e io non me ne sono accorto. Anzi, a dire il vero è anche quasi finito, dato che va in onda dal 20 giugno al 30 agosto.
"Il dottor Djembé" è una trasmissione condotta da tre intelligenze folli e deviate che rispondono ai nomi di Stefano Bollani, David Riondino e Mirko Guerrini. Se non la conoscete, sintonizzatevi su Radio3, il sabato e la domenica alle 13: è una delle cose più divertenti (anzi, diciamolo, esilaranti) e intelligenti che si possano ascoltare in giro.
E se, come me, vi siete persi le puntate precedenti, potete scaricare il podcast in mp3 dal sito di Radio3.
Ne vale la pena. Fa bene al cuore e al cervello, e si sente tanta bella musica.
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un anno
Un anno da blogger, intendo.
Tecnicamente, il primo post lo pubblicai il 27 giugno dell'anno scorso, ma solo dall'8 agosto 2008 (08/08/08, mi accorgo adesso che sembra una data da ultima sigaretta sveviana) ho cominciato ad aggiornare quotidianamente il blog.
Nel frattempo è diventato un'abitudine piacevole. O, se vogliamo dirla con un cantautore che detesto dal più profondo dell'anima, "un vizio che non voglio smettere".
Un grazie al mio nume tutelare, che da un anno campeggia in cima alla pagina web e al cui genio rendo un altro devoto omaggio.
E un grazie ai miei lettori, a quelli occasionali e a quelli assidui, i più affezionati.
Continuate a seguirmi.
Prometto che non vi annoierò. O almeno cercherò di non farlo apposta.
venerdì 7 agosto 2009
giovedì 6 agosto 2009
jazz people 5 - l'uomo solo
Lo invitai a lungo ad una conferenza che stavo organizzando.
Mi rispondeva sempre di non potermi dare conferma, perché “in quel periodo sono solo in redazione e non posso assentarmi”.
Alla fine, avendo necessità di comunicare un programma definitivo, invitai altre persone.
Però, poche settimane prima dell'evento, gli mandai un ultimo invito, dicendo che mi avrebbe fatto piacere se avesse comunque partecipato a una tavola rotonda che avrebbe chiuso la conferenza.
L'Uomo Solo mi rispose con una mail molto piccata, in cui affermava di non aver intenzione di venire “perché, a quanto vedo, non mi viene richiesto alcun contributo di rilevanza scientifica”. Contributo che io gli avevo chiesto, invano, per mesi e mesi.
“Capirà”, continuava, “che non posso certo spostarmi per una semplice tavola rotonda”.
Il mio “vaffanculo”, purtroppo, rimase nella tastiera.
Mi rispondeva sempre di non potermi dare conferma, perché “in quel periodo sono solo in redazione e non posso assentarmi”.
Alla fine, avendo necessità di comunicare un programma definitivo, invitai altre persone.
Però, poche settimane prima dell'evento, gli mandai un ultimo invito, dicendo che mi avrebbe fatto piacere se avesse comunque partecipato a una tavola rotonda che avrebbe chiuso la conferenza.
L'Uomo Solo mi rispose con una mail molto piccata, in cui affermava di non aver intenzione di venire “perché, a quanto vedo, non mi viene richiesto alcun contributo di rilevanza scientifica”. Contributo che io gli avevo chiesto, invano, per mesi e mesi.
“Capirà”, continuava, “che non posso certo spostarmi per una semplice tavola rotonda”.
Il mio “vaffanculo”, purtroppo, rimase nella tastiera.
mercoledì 5 agosto 2009
ancora su calvino
Qualche tempo fa citavo "Palomar", e lo definivo il vero libro di Calvino. Ripensandoci, credo proprio che sia uno dei libri in cui Calvino si è più messo a nudo, senza schermi e senza filitri.
L'altro, strano a dirsi, è "Il castello dei destini incrociati", il suo libro più rigoroso e matematico, e insieme il più cupo, apocalittico, pieno di oscure emergenze inconsce.
martedì 4 agosto 2009
lampi
Mentre la musica passa sopra le loro teste, lui la guarda con occhio critico: un dente storto, troppo ossuta, seno piccolo, brutti piedi, una cicatrice bianca a zig-zag sul polpaccio, un modo sgraziato di piegare la testa parlando.
All'improvviso si rende conto di esserne innamorato, follemente.
Darebbe qualunque cosa pur di stringerla, baciarla dai denti alla punta dei piedi. Quella cicatrice, poi, lo fa impazzire dal desiderio.
lunedì 3 agosto 2009
canzoniere brasiliano 2 - il poeta e il giullare
Ma come si fa a non amare il Brasile, quando si incontrano due personaggi come Cartola e Noel Rosa? Due figure non si sa se più tragiche o pittoresche, e insieme così piene di umanità e gioia di vivere. Entrambi sono considerati tra i padri fondatori del samba moderno, eppure ebbero vite e personalità contrastanti: uno visse a lungo, l’altro morì giovanissimo, uno era un poeta tenero e romantico, l’altro un comico irriverente e dissacratore.
Ma forse è meglio fare prima un passo indietro.
Già a metà Ottocento in Brasile si erano sviluppate forme di musica autoctona, che attingevano alla tradizione portoghese (modinhas, serestas), al folklore degli schiavi africani (lundu, maxixe) o alle danze in voga in Europa (polka, valzer, mazurka), negli Stati Uniti (cake-walk) o nel resto dell’America centro-meridionale (habanera, tango).
Negli anni Ottanta dell’Ottocento il compositore Ernesto Nazareth (1863-1934) aveva creato il tango brasileiro, un genere che fondeva il ritmo autoctono del maxixe con influenze della musica da camera europea, e verso il 1870 era nato anche lo choro, il genere popolare che è il diretto antecedente del samba. Tra fine Ottocento e primi del Novecento si affermarono anche vari autori di canzoni che conobbero un vasto successo popolare: Chiquinha Gonzaga (1847-1935, una delle prime donne brasiliane a dedicarsi a tempo pieno all’attività musicale), Càtulo Cearense (1866-1946), João Pernambuco (1883-1947).
Sempre a metà Ottocento, a Rio de Janeiro ci sono le prime notizie di cortei mascherati organizzati in occasione del Carnevale, con accompagnamento di strumenti vari tra i quali le percussioni avevano un ruolo centrale.
All’inizio del nuovo secolo, da questo calderone musicale nacque il samba. [...]
(continua su Nazione Indiana)
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domenica 2 agosto 2009
lost in translation
Volantino trovato in un McDonald. E' tutto autentico, giuro.
In grassetto il testo originale, in corsivo la traduzione, privata di quella smaltata ipocrisia euforizzante che fa tanto "ammeregàno".
Succede solo da McDonald's...
McDONALD'S PIACE TANTO ANCHE A CHI CI LAVORA
McDONALD'S E' UN BEST WORKPLACE
Che cosa vuol dire essere un Best Workplace? Vuol dire essere una delle migliori aziende italiane per qualità del lavoro e opportunità di crescita. Nel 2009 McDonald's ha ottenuto il riconoscimento di Best Workplaces 2009, classificandosi tra le prime 35 aziende nell'indagine che Great Place to Work Institute Italia ha effettuato su oltre 100 aziende italiane
Lavorate da noi. Siamo bravi. Siamo ganzi. Lo dice anche il Great Place to Work Institute. Chi è? E che ve frega? E' pure scritto in inglese, che non vi fidate? Siamo tra i primi 35 in mezzo a oltre 100 aziende. A che posto di preciso, dite? E tra quali aziende? E che ve frega a voi?
PERCHE' McDONALD'S E' UN OTTIMO POSTO DI LAVORO?
Perché da oltre 20 anni offriamo a migliaia di persone l'opportunità di entrare nel mondo del lavoro mettendo a disposizione solide prospettive per il futuro. Formazione, flessibilità e contratti di lavoro a misura del singolo collaboratore, sono solo alcuni degli strumenti che utilizziamo per rispondere alle esigenze dei nostri dipendenti e, allo stesso tempo, per valorizzarne le caratteristiche e potenzialità.
Vieni a lavorare da noi: ti offriamo un solido futuro come friggitore di patatine. Non chiederci contratti sindacali, minimi salariali o altri simili reperti archeologici. Noi facciamo tutto su misura. Prima di farti il contratto ti prendiamo le misure. Quelle per la bara. Intanto, sii flessibile. Flettiti. A 90 gradi, se possibile.
LAVORO DI SQUADRA
Essere parte di un team per noi significa credere nel gruppo, nell'importanza del lavoro di ciascuno per il raggiungimento di un obiettivo comune. McDonald's fa squadra con i suoi dipendenti, sostenendoli e incentivandoli nei momenti più impegnativi del lavoro e supportando la loro crescita professionale. Il lavoro di squadra ci permette di condividere successi e soddisfazioni.
Fai il tuo lavoro e non rompere i coglioni. Conta la squadra, non tu che non conti un cazzo.
FORMAZIONE
Come ogni squadra che vuole tenere affiatato il suo gruppo, McDonald's investe sul suo personale offrendo periodici corsi di formazione, diversificati in base ai ruoli e alle posizioni occupate. Ogni membro dello staff dei ristoranti partecipa a un programma di training sul posto di lavoro. La formazione inizia con un programma di più settimane presso il ristorante e prosegue con vari corsi di specializzazione. McDonald's Italia eroga 2000 ore di formazione all'anno.
Vieni ai nostri corsi di specializzazione: puoi scegliere tra farcitore di panini, scolatore di olio o battitore di tasti sulla cassa. Abbiamo (dati estratti dal volantino stesso, NdA) 13mila dipendenti. 2000 ore di formazione, fanno una media di 10 minuti di formazione all'anno a cranio. E che volete di più?
OPPORTUNITA' DI CRESCITA
McDonald's incoraggia e promuove la crescita professionale all'interno dell'azienda, dal ristorante agli uffici amministrativi. Il 39% degli addetti degli uffici amministrativi proviene dai ristoranti e un terzo del nostro top management ha iniziato la nostra carriera lavorando come crew. Anche Jim Skinner ha iniziato lavorando in un ristorante ed ora è Chief Executive Office di McDonald's Corporation. Le pari opportunità sono un fatto concreto. Le donne rappresentano più della metà del totale dipendenti e ricoprono spesso ruoli di responsabilità.
Comincia da crew, diventa top management o persino chief executive office. Uozzameriga aggannauescion. Se sei una donna, potrai ricoprire spesso ruoli di responsabilità. Come, quali ruoli? Ruoli. Come, quanto spesso? Spesso.
CONTRATTI DI LAVORO: PART-TIME E FULL TIME
Stabilità, trasparenza e rispetto delle esigenze reciproche sono alla base del rapporto che McDonald's costruisce con i suoi dipendenti. A cominciare dal contratto di lavoro: l'83% dei contratti sono a tempo indeterminato, il restante 17% sono contratti di apprendistato che nell'oltre il 90% dei casi vengono trasformati in contratti a tempo indeterminato. Il 75% dei dipendenti sceglie il part-time, mentre il 25% lavora a tempo pieno ricoprendo le cariche più alte: responsabili operativi, manager, assistenti amministrativi. Avere un orario su misura è una delle opportunità che McDonald's offre a tutti i dipendenti che affiancano al lavoro gli impegni personali. Lo staff dei ristoranti è infatti composto da persone con esigenze diverse, fra cui molte madri e studenti che, grazie a un contratto part-time, riescono a conciliare il lavoro con la famiglia e lo studio.
La soddisfazione dei nostri clienti passa sempre dalla soddisfazione dei nostri dipendenti.
Assumiamo soprattutto gente che ha bisogno di soldi e non può trovare lavori di altro tipo. Ti facciamo lavorare anche di notte, se vuoi, basta che lavori. Anche a tempo indeterminato. Come? Lo stipendio? E che te frega, tu intanto lavora.
LA SQUADRA McDONALD'S
13000 dipendenti
Migliaia di assunzioni all'anno: 3000 dal 2007 ad oggi e circa 1200 previste per il 2009
34 posti di lavoro
in media ad ogni apertura di nuovi ristoranti
La squadra di ogni nostro ristorante
è composta da: 70% di crew, 10% di hostess, 20% di manager.
Il 50% dei nostri dipendenti
è composto da studenti lavoratori e madri di famiglia.
Le donne rappresentano il 61%
dei nostri dipendenti e il 44% dei direttori di ristoranti.
Sì, ma quanto si guadagna? Quanto, di grazia?
In grassetto il testo originale, in corsivo la traduzione, privata di quella smaltata ipocrisia euforizzante che fa tanto "ammeregàno".
Succede solo da McDonald's...
McDONALD'S PIACE TANTO ANCHE A CHI CI LAVORA
McDONALD'S E' UN BEST WORKPLACE
Che cosa vuol dire essere un Best Workplace? Vuol dire essere una delle migliori aziende italiane per qualità del lavoro e opportunità di crescita. Nel 2009 McDonald's ha ottenuto il riconoscimento di Best Workplaces 2009, classificandosi tra le prime 35 aziende nell'indagine che Great Place to Work Institute Italia ha effettuato su oltre 100 aziende italiane
Lavorate da noi. Siamo bravi. Siamo ganzi. Lo dice anche il Great Place to Work Institute. Chi è? E che ve frega? E' pure scritto in inglese, che non vi fidate? Siamo tra i primi 35 in mezzo a oltre 100 aziende. A che posto di preciso, dite? E tra quali aziende? E che ve frega a voi?
PERCHE' McDONALD'S E' UN OTTIMO POSTO DI LAVORO?
Perché da oltre 20 anni offriamo a migliaia di persone l'opportunità di entrare nel mondo del lavoro mettendo a disposizione solide prospettive per il futuro. Formazione, flessibilità e contratti di lavoro a misura del singolo collaboratore, sono solo alcuni degli strumenti che utilizziamo per rispondere alle esigenze dei nostri dipendenti e, allo stesso tempo, per valorizzarne le caratteristiche e potenzialità.
Vieni a lavorare da noi: ti offriamo un solido futuro come friggitore di patatine. Non chiederci contratti sindacali, minimi salariali o altri simili reperti archeologici. Noi facciamo tutto su misura. Prima di farti il contratto ti prendiamo le misure. Quelle per la bara. Intanto, sii flessibile. Flettiti. A 90 gradi, se possibile.
LAVORO DI SQUADRA
Essere parte di un team per noi significa credere nel gruppo, nell'importanza del lavoro di ciascuno per il raggiungimento di un obiettivo comune. McDonald's fa squadra con i suoi dipendenti, sostenendoli e incentivandoli nei momenti più impegnativi del lavoro e supportando la loro crescita professionale. Il lavoro di squadra ci permette di condividere successi e soddisfazioni.
Fai il tuo lavoro e non rompere i coglioni. Conta la squadra, non tu che non conti un cazzo.
FORMAZIONE
Come ogni squadra che vuole tenere affiatato il suo gruppo, McDonald's investe sul suo personale offrendo periodici corsi di formazione, diversificati in base ai ruoli e alle posizioni occupate. Ogni membro dello staff dei ristoranti partecipa a un programma di training sul posto di lavoro. La formazione inizia con un programma di più settimane presso il ristorante e prosegue con vari corsi di specializzazione. McDonald's Italia eroga 2000 ore di formazione all'anno.
Vieni ai nostri corsi di specializzazione: puoi scegliere tra farcitore di panini, scolatore di olio o battitore di tasti sulla cassa. Abbiamo (dati estratti dal volantino stesso, NdA) 13mila dipendenti. 2000 ore di formazione, fanno una media di 10 minuti di formazione all'anno a cranio. E che volete di più?
OPPORTUNITA' DI CRESCITA
McDonald's incoraggia e promuove la crescita professionale all'interno dell'azienda, dal ristorante agli uffici amministrativi. Il 39% degli addetti degli uffici amministrativi proviene dai ristoranti e un terzo del nostro top management ha iniziato la nostra carriera lavorando come crew. Anche Jim Skinner ha iniziato lavorando in un ristorante ed ora è Chief Executive Office di McDonald's Corporation. Le pari opportunità sono un fatto concreto. Le donne rappresentano più della metà del totale dipendenti e ricoprono spesso ruoli di responsabilità.
Comincia da crew, diventa top management o persino chief executive office. Uozzameriga aggannauescion. Se sei una donna, potrai ricoprire spesso ruoli di responsabilità. Come, quali ruoli? Ruoli. Come, quanto spesso? Spesso.
CONTRATTI DI LAVORO: PART-TIME E FULL TIME
Stabilità, trasparenza e rispetto delle esigenze reciproche sono alla base del rapporto che McDonald's costruisce con i suoi dipendenti. A cominciare dal contratto di lavoro: l'83% dei contratti sono a tempo indeterminato, il restante 17% sono contratti di apprendistato che nell'oltre il 90% dei casi vengono trasformati in contratti a tempo indeterminato. Il 75% dei dipendenti sceglie il part-time, mentre il 25% lavora a tempo pieno ricoprendo le cariche più alte: responsabili operativi, manager, assistenti amministrativi. Avere un orario su misura è una delle opportunità che McDonald's offre a tutti i dipendenti che affiancano al lavoro gli impegni personali. Lo staff dei ristoranti è infatti composto da persone con esigenze diverse, fra cui molte madri e studenti che, grazie a un contratto part-time, riescono a conciliare il lavoro con la famiglia e lo studio.
La soddisfazione dei nostri clienti passa sempre dalla soddisfazione dei nostri dipendenti.
Assumiamo soprattutto gente che ha bisogno di soldi e non può trovare lavori di altro tipo. Ti facciamo lavorare anche di notte, se vuoi, basta che lavori. Anche a tempo indeterminato. Come? Lo stipendio? E che te frega, tu intanto lavora.
LA SQUADRA McDONALD'S
13000 dipendenti
Migliaia di assunzioni all'anno: 3000 dal 2007 ad oggi e circa 1200 previste per il 2009
34 posti di lavoro
in media ad ogni apertura di nuovi ristoranti
La squadra di ogni nostro ristorante
è composta da: 70% di crew, 10% di hostess, 20% di manager.
Il 50% dei nostri dipendenti
è composto da studenti lavoratori e madri di famiglia.
Le donne rappresentano il 61%
dei nostri dipendenti e il 44% dei direttori di ristoranti.
Sì, ma quanto si guadagna? Quanto, di grazia?
sabato 1 agosto 2009
vita trasparente
"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio"
(Matteo, 5,8)
(Matteo, 5,8)
Di notte continui a baciarmi anche dormendo
se solo ti sfioro la guancia
e questo tuo aderire all’inevitabile
con l’allegria di chi abita
il tuorlo del tempo – senza mai
stancarti del Natale o dei pavimenti puliti –
come se tutto quel che accade davvero ti riguardasse
questa vita trasparente
è ciò che cerco e rifiuto da una vita.
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