domenica 23 agosto 2009

altrove


Da: Viaggio in Gran Garabagna

Gli Hac si danno da fare per tirar su ogni anno qualche bambino martire, a cui fanno subire dei maltrattamenti e delle palesi ingiustizie, inventando ragioni e complicazioni ingannevoli, tutte fatte di menzogne, in una atmosfera di terrore e di mistero.
Vengono preposti a tale compito degli uomini dal cuore duro, dei bruti, comandati da capi abili e crudeli.
In tal modo hanno allevato dei grandi artisti, dei poeti, ma anche degli assassini, degli anarchici (c'è sempre qualcoa che va storto), e soprattutto dei riformatori, degli oltranzisti inauditi.
Nei costumi e nel regime sociale, ogni volta che fu introdotto un mutamento, ciò avvenne grazie a costoro; e se, nonostante il loro esercito ridotto, gli Hac non hanno nulla da temere, anche questo lo devono a loro; e se nella loro lingua così nitida sono stati innestati dei bagliori di collera, rispetto ai quali le migliori astuzie degli scrittori stranieri appaiono insipide, anche questo lo debbono a loro: a pochi fanciulli straccioni, miserabili e disperati.
Opera d'altronde in permanenza, contro chi si ritrovi a far l'uomo celebre, una Società per la persecuzione degli artisti.

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L'UGLABO

Impiegato come bestia da tiro presso gli Emangloni, l'uglabo ha un aspetto ancora più brutto dello gnu africano.
Al di fuori delle corna e dei denti, in lui tutto è misero (denti piccoli da infante, derisione della forza).
Però la sua sporca testa è senza dubbio alta e resistente. Con lo sguardo si percorre la sua superficie ruvida da stuoino, e proprio quando si disperava d'incontrarci qualche piccola traccia di vita, s'incontra l'occhio all'ombra d'un orecchio da pulcinella.
Quello è l'occhio di un abbrutito, incapace di fare, incapace di ricevere. E se guardate l'altro occhio, confronto inutile: fa il paio con quell'altro come numero 2.
Che bisogno ha di noi? È un erbivoro, e chinando verso il suolo, nei terreni a maggese, il suo essere mal spazzolato, si rallegra tranquillamente, linfaticamente, d'appartenere proprio a quella terra, dove lui manda, e non invano, la lingua in cerca d'erba, felice di non essere come tanti viventi, stranieri dappertutto e che non sanno quello che vogliono.

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Il dio delle acque sta sdraiato. E per lui alzarsi è fuori questione. Le preghiere degli uomini non gli interessano granché, e neanche i giuramenti e i voti. Poco gli cale d'un sacrificio. Prima di tutto è il dio dell'acqua.
Non ha mai fatto caso ai raccolti dei Gauri marciti dalle piogge, ai loro greggi portati via dalle inondazioni. Prima di tutto è il dio dell'acqua. Con tutto che ci sono certi preti bene istruiti: ma non ne sanno abbastanza per riuscire a lusingarlo. Studiano, spulciano le tradizioni, digiunano, meditano, ed è anche possibile che alla lunga in questo modo riescano a giungere fino a lui e coprire la voce delle acque, che gli è tanto cara.

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Gli Hiviniziki

Sempre di fretta, in anticipo su se stessi, correndo di qua e di là, febbrili e indaffarati, si perderebbero perfino le loro mani. Impossibile dare loro una soddisfazione un po' prolungata.
Entusiasti, impetuosi e sempre “sulla battuta”, ma per poco tempo, diplomatici-farfalloni, mettono dappertutto dei picchetti che poi dimenticano, con una polizia e uno stato maggiore che possiede decine di codici segreti estremamente ingegnosi, di cui non sanno mai quale usare, e che cambiano e si falsificano sempre di nuovo senza sosta.
Giocatori d'azzardo (dalla mattina alla sera occupati a giocarsi ai dadi le loro fortune, che passano di mano in mano da un momento all'altro, tanto che non si sa più chi sia l'indebitato e chi il creditore), illusionisti, bidonari, pasticcioni, non per confusione o nebbia mentale, ma per una folla di idee chiare che vengono fuori a sproposito, logici sfrenati, ma crivellati da intuizioni fugaci, ti dimostrano col ragionamento l'esistenza e la non-esistenza di qualsiasi cosa, distratti ma furbacchioni e quasi infaticabili, entrano nel letto e nel sonno ad un tempo (ma per poche ore), uscendone allo stesso modo, come una porta che uno apre e chiude, adirandosi per un niente, distratti dalla collera per men che niente, per una mosca che vola, come vele in balia di tutti i venti, tutti in lacrime al capezzale del padre malato, ma appena ha chiuso gli occhi precipitandosi sul testamento, discutendo sull'eredità seduti sul letto ancora caldo, e seppellendolo in un batter d'occhio (meglio così, altrimenti se lo scorderebbero finché non puzza).
Si prosternano davanti al loro dèi come congegni meccanici caricati fino in fondo, centinaia e centinaia di volte, poi ripartono con un balzo, senza voltarsi indietro; facendo l'amore nello stesso modo, in fretta, con ardore, “e poi non se ne parla più”. Si sposano senza premeditazione, lì per lì, per un incontro casuale, e divorziano ugualmente, lavorando e facendo mercato e facendo un mestiere per strada, in mezzo alla polvere e al vento e ai calci dei cavalli, parlando a mitraglia; a cavallo più che possono e al galoppo, oppure, se vanno a piedi, con le braccia in avanti, come se andassero davvero a liberare e disboscare quest'Universo pieno di difficoltà e d'accidenti che si presenta senza posa davanti a loro.

(Henri Michaux, Altrove, Quodlibet 2005)

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