Non che sia necessario essere d'accordo con qualcuno. Ma se proprio devo esserlo, preferisco che sia con gente che stimo.
Che opinione ha di Allevi come esecutore?
«In altri tempi non sarebbe stato ammesso al Conservatorio».
Ricordo la sensazione che qualcosa (provvisoriamente chiamato “prima Repubblica” o “guerra fredda” o tout-court “storia”) stesse per finire e qualcosa di nuovo per cominciare.
Poi è andata come è andata. Discese in campo, e tutto il resto.
Ma quello che volevo dire è che sono l'ultima persona al mondo a poter credere nel marxismo o nel socialismo reale, del quale ho visto la fine ingloriosa. Però mi rimangono alcune convinzioni che in mancanza di un termine migliore si potrebbero definire “di sinistra”.
Nella fattispecie:
che gli uomini nascano liberi e uguali, senza differenze di razza, sesso, religione o nazionalità;
che nessuna forma di totalitarismo, di qualunque marca o colore, sia accettabile;
che lo Stato abbia il dovere di occuparsi in primo luogo dei più deboli e indifesi;
che la vita sociale debba essere cooperazione e solidarietà reciproca, non sopravvivenza del più forte;
che il definirsi “essere umano” sia più nobile e necessario che definirsi “italiano”, “pugliese”, “juventino”, “milanista”, “comunista”, “fascista”, “uomo”, “donna”, “eterosessuale”, “omosessuale”, “cattolico”, “ateo”, “musulmano” e via dicendo;
che il rifiuto della violenza e della sopraffazione, in ogni sua forma, sia il cardine di ogni possibile morale;
che ognuno abbia il diritto di vivere la propria vita privata come meglio crede, senza che nessuno si senta in dovere di insegnargli nulla, tranne il rispetto per gli altri, per chiunque altro;
che per la vita civile sia indispensabile un sano laicismo, che consiste non in un anticlericalismo datato, preconcetto, idiota, ma in una doverosa separazione delle sfere di competenza;
che essere onesti sia più importante che essere ricchi, belli, famosi, potenti, persino più importante che essere felici.
Ho detto convinzioni “di sinistra”, chissà perché. Se qualcuno vede a sinistra qualcosa del genere, per favore mi faccia un fischio.
Fin quando si è giovani – o comunque, fin quando si ha la responsabilità solo di se stessi, che è più o meno la stessa cosa – ci si rappresenta come il segmento di una semiretta che parte dalla propria nascita e punta verso il futuro. Non si pensa mai a se stessi come punto medio, o peggio ancora come termine di un processo.
Avere un figlio ti mette davanti alla necessità di trasmettere qualcosa: o, come si dice comunemente, educare. Trasmettere che cosa? Come? Questo è il problema. Ma soprattutto ci si rende conto di quanta parte di se stessi derivi da ciò che è stato prima, di come si tenda sempre a replicare stampi preesistenti, insomma di quanto si sia incastonati in un continuum che c'era prima di noi e che proseguirà dopo.
Edipo insegna che, se si uccide il padre, è sempre per poi prenderne il posto.
Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati. Giunto a Foligno incominciai a conoscere le prime difficoltà del mestiere: non trovai alcuno che volesse vendermi il legname necessario per rizzare la forca e dovetti andar la notte a sfondare la porta d'un magazzino per provvedermelo. Ma non per questo mi scoraggiai e in quattr'ore di lavoro assiduo ebbi preparata la brava forca e le quattro scale che mi servivano. Nicola Gentilucci frattanto, a due ore di notte, dopo avergli rasata la barba e datogli a vestire una candida camicia di bucato e un paio di calzoni nuovi, venne condotto coi polsi stretti da leggere manette, nella gran sala comunale, poiché volevasi dare la massima solennità all'esecuzione, stante la gravità del suo delitto, superiore a qualsiasi altro, trattandosi dell'uccisione di un curato e di due frati. La compagnia dei Penitenti Bianchi in abito di cerimonia, col cappuccio calato sul volto, schierata in due file, dalla porta all'estremità opposta l'attendeva. In faccia alla porta era stato collocato un grande crocifisso con due confrati ai lati, e una schiera di religiosi, invitati a confortare il paziente. Il bargello e gli sbirri che lo conducevano, giunti alla porta della sala, bussarono e questa venne aperta. Quella scena commosse vivamente il Gentilucci, nondimeno entrò. Non appena ebbe fatti pochi passi il balio, aiutante del cancelliere, che ne porta gli emblemi, gli presentò una carta dicendogli:
- Nicola Gentilucci, io ti cito a morte per domattina.
Il complimento poco gentile impressionò il condannato per modo che si lasciò sfuggire di mano la carta, e sarebbe caduto egli stesso svenuto, se non lo avessero sorretto il confessore e i confortatori, i quali lo condussero poi in una sala vicina, dove, sdraiato su di un materasso posto per terra, lo lasciarono dormire. Due ore innanzi lo spuntare del giorno susseguente lo svegliarono per fargli ascoltare la messa: il confessore gli parlò e gli impartì l'assoluzione e l'indulgenza in articulo mortis che il papa soleva concedere in tali circostanze. Confessato e comunicato, i confortatori gli apprestarono l'asciolvere. Gentilucci mangiò, bevve e si trovò alquanto rinfrancato d'animo. Nondimeno il confessore lo confortò ancora, assicurandolo che egli stava per avviarsi al cielo. Il condannato avrebbe forse desiderato di differire d'un altro mezzo secolo il viaggio, ma assicurato che non avrebbe che differita la sua felicità, si preparò a farlo allegramente. Mi presentai in quel mentre e togliendomi il cappello ossequiosamente offersi una moneta al Gentilucci, come di rito, perché facesse celebrare una messa per la sua anima. Quindi, ricopertomi il capo, gli legai le mani e le braccia in modo che non potesse fare alcun movimento tenendone i capi nelle mie mani per di dietro. La Confraternita della Morte aperse il corteo. I confrati indossavano il loro saio ed avevano il viso coperto. Essi salmodiavano in tetro tono il Miserere. Venivano poi i Penitenti Azzurri, ultimi i Penitenti Bianchi ai quali era serbato il posto d'onore: cantavano pur essi nel medesimo tono il salmo stesso, seguendo gli uni agli altri, per non interrompersi, di guisa che quando gli uni cantavano gli altri tacevano.
Dopo le confraternite v'erano i bargelli delle città vicine e gli sbirri in grande uniforme, e a questi teneva dietro il paziente, condotto pei capi della fune da me stesso, - umile ma pur raggiante in tanta gloria - circondato dai confortatori e dal confessore. Giunto sulla spianata ove doveva aver luogo l'esecuzione, Nicola Gentilucci fu fatto avvicinare ad un piccolo altare eretto di fronte alla forca e quivi recitò un'ultima preghiera. Poi, rialzatosi, lo condussi verso il patibolo a reni volte, perché non lo vedesse e fatto salire su una delle scale, mentre io ascendevo per un'altra vicinissima. Giunto alla richiesta altezza, passai intorno al collo del paziente due corde, già previamente attaccate alla forca, una più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la quale doveva servire se mai s'avesse a rompere la più piccola, detta mortale, perché è questa che effettivamente strozza il delinquente. Il confessore e i confortatori intanto, saliti sulle due scale laterali, gli prodigavano le loro consolanti parole. Gli altri confortatori in ginocchio recitavano ad alta voce il Pater noster e l'Ave Maria e il Gentilucci rispondeva. Ma appena ebbe pronunziato l'ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette. La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione. Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d'una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l'addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari. Avevo allora diciassette anni compiti, e l'animo mio non provò emozione alcuna."Disse cosí, e gli fece nascere brama di piangere il padre:
allora gli prese la mano e scostò piano il vecchio;
entrambi pensavano e uno piangeva Ettore massacratore
a lungo, rannicchiandosi ai piedi d’Achille,
ma Achille piangeva il padre, e ogni tanto
anche Patroclo; s’alzava per la dimora quel pianto.
Ma quando Achille glorioso si fu goduto i singhiozzi,
passò dal cuore e dalle membra la brama,
s’alzò dal seggio a un tratto e rialzò il vecchio per mano,
commiserando la testa canuta, il mento canuto,
e volgendosi a lui parlò parole fugaci..."
(Iliade, libro XXIV)
Rileggendo quelle pagine, mi sono trovato a pensare che l'immagine in fondo abbia un valore allegorico.
L'etimologia non mente: “emergenza” è deverbale di “emergere”, che deriva dal latino ex (fuori) + mergere (tuffarsi), quindi “tuffarsi fuori”. Se ci si tuffa “fuori”, significa che prima ci si è tuffati “dentro”, ci si è immersi (in + mergere). In questo senso l'italiano è portatore di un'ambiguità semanticamente feconda, perché ad esempio in inglese l'atto dell'emergere (emergence) è indicato da una parola distinta rispetto all'emergenza (emergency). In italiano invece la parola è la stessa.
Dove voglio arrivare? È presto detto. L'Italia è il paese dell'emergenza. Tutto è un'emergenza: la sanità, la droga, il maltempo, la neve, la siccità, il Vesuvio, il bullismo, la questione morale, i rifiuti, il buco nel bilancio, le slavine d'inverno, la siccità d'estate, il traffico e lo smog in qualunque stagione.
Siamo un paese che vive sull'orlo di una crisi di nervi, dal quale ogni tanto sale lo stridore di una nuova emergenza. Però poi tutto s'azzitta. E c'è un motivo: quei problemi non sono affatto emergenze, anzi sono fatti usuali, che hanno cause ben precise, prevedibili nel lungo termine. È normale che ci sia la neve d'inverno, che piova poco d'estate, che le auto generino smog, che i rifiuti non smaltiti finiscano per accumularsi nelle strade. Solo che nessuno si preoccupa di risolvere i problemi, di troncarne le radici prima che diventino troppo robuste e profonde.
E qui si inserisce l'ambiguità di cui parlavo: l'emergenza/emersione è tale perché, prima, qualcuno ha sommerso il problema, ha evitato di risolverlo, l'ha occultato. Sperando, forse, che la patata bollente scottasse le mani di qualcun altro.
Quando poi l'emergenza scoppia, non si prendono provvedimenti sostanziali, ma ci si limita ai palliativi, o si invocano interventi palingenetici, che dovrebbero risolvere il problema all'istante, ora e sempre, e nessuno dovrà più preoccuparsene.
Un esempio classico di emergenza è la scuola: che in Italia è sempre, costantemente in emergenza. Emergenza bullismo, emergenza precari, emergenza analfabetismo di ritorno, emergenza nelle conoscenze matematiche, emergenza perché mancano i fondi o perché i muri sono pieni di fessure.
Le soluzioni sarebbero semplici ma impegnative: monitorare la qualità della scuolain maniera costante e onesta; premiare i più bravi; cacciare gli incapaci; distribuire fondi con criteri ragionevoli; trasformare i professori da reietti sociali con deficit d'autostima, o missionari sempre impegnati a combattere sulla trincea con le unghie e con i denti, in professionisti seri, preparati, orgogliosi del proprio lavoro; migliorare i contatti tra scuole, provveditorati e ministeri; far tenere i corsi d'aggiornamento a gente in gamba e non a grigi e inetti funzionari; ridurre la burocrazia; assicurare ai docenti un posto fisso e non decenni di precariato; far sì che i professori si aggiornino, invece di mummificarsi sulle cattedre.
E invece si preferisce ricorrere alle grandi riforme, che – si promette – saneranno una volta per tutte la disastrata scuola italiana. Salvo che poi la montagna partorisce il topolino, il quale di volta in volta si chiama “riforma Moratti” o “riforma Gelmini”.
Dopodiché, l'emergenza si sommergerà nuovamente. I controsoffitti continueranno a scricchiolare, ma la speranza è sempre che cadano in testa a qualcun altro.
Articolo comparso il 10 gennaio 1973 sul giornale inglese “Punch”. Queste pagine sono l'unico stralcio sopravvissuto dell'autobiografia che Paul Desmond avrebbe voluto scrivere, e che si sarebbe dovuta intitolare “In quanti siete nel quartetto?”. (La traduzione è mia, l'originale è qui).
Alba. Una station wagon si ferma davanti all'ufficio di uno sperduto motel nel New Jersey. Tre uomini entrano: faccia di gesso, occhi pesti, bocca chiusa (questi sono i loro nomi). Una perfetta scena d'apertura, prima dei titoli di testa, per un B-movie su una rapina in banca? Sbagliato. Il Dave Brubeck Quartet, qualche anno fa, sul punto di cominciare una giornata di lavoro.
Oggi abbiamo un contratto (un'offerta che avremmo dovuto rifiutare) per due concerti alla fiera dell'Orange County a Middletown. Uno alle due del pomeriggio, l'altro alle otto di sera. A Brubeck piace essere presto al lavoro.
Quindi ci fermiamo dietro questo questo camion carico di fieno intorno a mezzogiorno, e alla fine rintracciamo il tizio che ha firmato il contratto. Massiccio, con il collo rosso, modi ruvidi e aria infastidita (dal vecchio omonimo studio legale del New Jersey), e chiaramente più a suo agio nel giudicare il bestiame che nell'ingaggiare gruppi jazz, scruta dentro la station wagon, che contiene quattro musicisti, il contrabbasso, la batteria e bagagli assortiti, e per la prima e unica volta nei nostri diciassette anni di vagabondaggi in giro per il mondo ci sentiamo rivolgere la domanda: “Dov'è il pianoforte?”.
Lasciamo Brubeck a sbrogliare la questione e ci dirigiamo in città per prendere un sandwich e dare un'occhiata. Dato che i sandwich prendono più tempo dell'occhiata, mi procuro una copia del “Middleton Record” e le cose cominciano a farsi più chiare. IL GIORNO DEGLI ADOLESCENTI ALLA FIERA DELL'ORANGE COUNTY, dice il titolo sulle due pagine centrali (scelta azzardata, poiché il giornale ha quattro pagine in tutto). Questi poveracci, e in particolare il tipo che giudica il bestiame (al quale probabilmente è stata appioppata l'organizzazione degli intrattenimenti) hanno pensato che noi fossimo una grande attrazione per adolescenti, e il Signore è testimone che non lo siamo mai stati. Il nostro pubblico tipico inizia con decrepiti vecchietti dai ventitre anni in su.
Eppure eccoci qui, spiattellati su questa pubblicità insieme alle altre attrazioni della giornata: esibizioni di judo, dimostrazioni di pompieri, uno show del selvaggio West e l'Animalorama (che potrebbe essere un semplice errore di battitura). E proprio in cima, nelle prime due colonne a sinistra, c'è questa foto dei denti di Brubeck e di buona parte della sua faccia, insieme al seguente testo, che parafraso solo leggermente. ASCOLTATE LA MUSICA CHE FA ECCITARE TUTTI GLI ADOLESCENTI, così comincia. ASCOLTATE LA MUSICA CHE HA FATTO IMPAZZIRE NEWPORT RHODE ISLAND (citazione infelice, dato che poche settimane prima il festival di Newport aveva assistito alla sua prima rissa). ASCOLTATE DAVE BRUBECK CANTARE E SUONARE I SUOI FAMOSI SUCCESSI, TRA I QUALI “JAZZ GOES TO COLLEGE”, “JAZZ IN EUROPE” e “TANGERINE”.
Perciò, essendoci resi conto – secondo una pungente espressione campagnola tipica di Brubeck – della parte da cui pende il buco, torniamo verso la fiera dove ci si presenta più o meno questa scena: c'è una minuscola, quasi miniaturizzata pista da corse ellittica. (Non sono sicuro di quanto sia lungo esattamente un furlong [antica unità di misura inglese corrispondente a circa 200 metri, oggi usata soprattutto per misurare le piste per le corse di cavalli. NdT], ma non mi pare che qui ce ne siano molti a disposizione). Su un lato dell'ellisse c'è la tribuna, costruita per accogliere circa 2000 spettatori, occupata per il momento da otto o nove vecchietti che hanno chiaramente pagato per sedere all'ombra e sventolarsi, e non certo per un ardente desiderio di ascoltare la musica che fa eccitare tutti i loro nipoti adolescenti.
Sul lato opposto della pista c'è il nostro palcoscenico: una piattaforma di legno alta circa tre metri e immensa. È evidente che in tutta Orange County non si è riusciti a rintracciare un pianoforte, perché le uniche attrezzature sul palco sono un vecchissimo organo elettrico e un microfono. Dietro di noi c'è un tendone di discrete dimensioni, dove si sta svolgendo una gara di equitazione per adolescenti: che, come non tardiamo a scoprire, continuerà durante tutto il nostro concerto. È un bel problema, soprattutto perché il loro sistema di amplificazione è di gran lunga più potente del nostro.
Quindi attacchiamo con il nostro brano di apertura per le situazioni disperate, “St. Louis Blues”. Brubeck, che in vita sua non ha passato più di dieci minuti a suonare un organo elettrico, e ancora meno a suonare quello che ha davanti adesso, produce suoni simili a quelli dei primi sintetizzatori Atwater-Kent. (Più tardi fa alcuni importanti progressi, ad esempio localizza il pedale che controlla il volume e capisce che scuotendo la mano destra ottiene un effetto di tremolo simile a quello di Jimmy Smith, con uno strascico finale, ma non è di grande aiuto). Eugene Wright, il nostro nobile contrabbassista, ed io ci diamo il cambio a trascinare il microfono avanti e indietro dall'uno all'altro per suonare qualche infelice, maledetto chorus, ma l'unico suono che riusciamo a udire viene dai nostri amabili vicini della gara di equitazione.
“GALOPPO”, ruggisce l'altoparlante. “CANTER... TROTTO... E LA VINCITRICE NELLA CATEGORIA DEI DODICENNI È... JACQUELINE HIGGINS!”.
Come sempre, in situazioni difficili come questa, ci affidiamo alla nostra star, il virtuoso del gruppo, la Maria Callas della batteria, Joe Morello, che ci ha salvati dai disastri da Grand Forks, North Dakota, fino a Rajkot, India.
“È tutta tua”, gli diciamo, “allargati pure”, che in genere è come procurare un biglietto aereo a un dirottatore. E, a suo eterno merito, Morello supera se stesso. Tutti i piatti tintinnano, tutti i piedi lavorano. (Morello ne ha parecchi. Non sono in molti a saperlo). Ora sta sgranando terzine sul tom-tom, che ha fatto tremare dalle fondamenta le sale dall'Odeon Hammersmith alla Free Trade Hall e ha reso Buddy Rich ancor più verde del solito per l'invidia.
All'improvviso l'esibizione di cavalli tace. Lo sventolamento in tribuna si è a poco a poco arrestato.
All'improvviso una figura emerge dal tendone dei cavalli, si precipita accanto al palcoscenico e urla a Brubeck: “Per amor del cielo, potete dire al batterista di non suonare così forte? Sta terrorizzando i cavalli”.
Poiché siamo sempre stati una band capace di accettare sportivamente una disfatta, suoniamo una sorta di Muzak per un tempo conveniente e poi sbaracchiamo.
Quando ritorniamo alle otto, tutto è cambiato. È stato trovato un pianoforte, la tribuna è affollata del nostro seguito geriatrico di venticinquenni e oltre, e suoniamo un concerto del tutto rispettabile.
Eppure, anche così la scena ci viene rubata dal gran finale della fiera: la dimostrazione dei pompieri. Un gruppo di residenti del luogo è stato bendato e truccato in modo da farli apparire come se fossero appena saltati giù dall'Hindenburg e fossero prossimi all'estrema unzione. Ma invece di restarsene discretamente dietro le quinte fino all'entrata in scena, si mescolano in maniera del tutto informale con amici e vicini di casa fra il pubblico durante la serata, sorseggiando birra, masticando popcorn, dando una bizzarra aria felliniana all'accolita e abbassando in misura considerevole l'impatto della loro apparizione finale.
Dopo la loro sfilata, arriva l'evento principale della fiera, che è stato chiaramente preparato per mesi: uno scontro di auto in fiamme, seguito da uno scontro di aerei in fiamme, entrambi destinati ad essere gestiti con fulminea efficienza dal corpo di pompieri di Middleton. A una estremità dell'ellisse c'è un'automobile in equilibrio precario; all'altra estremità, un modello della struttura di un aereo monomotore, davvero impressionante, con la coda per aria. A metà strada, nell'occhio del ciclone, il furgone dei pompieri di Middleton, irto di scale e pompe e straripante di volontari.
Una serie di “shhh” passa per la tribuna. A un segnale del capo dei pompieri, viene dato fuoco all'automobile. Il furgone la raggiunge in due o tre secondi, tempo durante il quale il fuoco è più o meno equivalente a quello creato da una sigaretta caduta sul sedile posteriore per due o tre secondi. Un sacco di uomini lo spengono con parecchie pompe.
Un brusio passa per la tribuna. Il capo dei pompieri, con la dolorosa consapevolezza che il suo gran momento è in gioco, dà il segnale di incendiare l'aereo, e allo stesso tempo raccomanda al furgone di prendersela comoda, in modo che il fuoco sia in pieno vigore al suo arrivo. Il furgone si avvia, con l'andatura di un taxi in cerca di clienti. L'aereo dà un WOOOSH simile a quello di un lampo al magnesio, e quando il placido furgone arriva il fuoco si è ridotto a un bel focherello da campo, grande abbastanza per arrostirci toffolette.
Più tardi, quattro uomini dalle facce di gesso e dagli occhi pesti si pigiano in una station wagon e vanno via. Non sarà come rapinare banche, ma ci si guadagna da vivere.