“Gomorra” si chiude con un'immagine biblica. Nelle campagne del napoletano è scesa una pioggia torrenziale, che ha smosso la terra e ha fatto riemergere tutto ciò che vi era contenuto: tonnellate di rifiuti, seppelliti abusivamente dalla camorra.
Rileggendo quelle pagine, mi sono trovato a pensare che l'immagine in fondo abbia un valore allegorico.
L'etimologia non mente: “emergenza” è deverbale di “emergere”, che deriva dal latino ex (fuori) + mergere (tuffarsi), quindi “tuffarsi fuori”. Se ci si tuffa “fuori”, significa che prima ci si è tuffati “dentro”, ci si è immersi (in + mergere). In questo senso l'italiano è portatore di un'ambiguità semanticamente feconda, perché ad esempio in inglese l'atto dell'emergere (emergence) è indicato da una parola distinta rispetto all'emergenza (emergency). In italiano invece la parola è la stessa.
Dove voglio arrivare? È presto detto. L'Italia è il paese dell'emergenza. Tutto è un'emergenza: la sanità, la droga, il maltempo, la neve, la siccità, il Vesuvio, il bullismo, la questione morale, i rifiuti, il buco nel bilancio, le slavine d'inverno, la siccità d'estate, il traffico e lo smog in qualunque stagione.
Siamo un paese che vive sull'orlo di una crisi di nervi, dal quale ogni tanto sale lo stridore di una nuova emergenza. Però poi tutto s'azzitta. E c'è un motivo: quei problemi non sono affatto emergenze, anzi sono fatti usuali, che hanno cause ben precise, prevedibili nel lungo termine. È normale che ci sia la neve d'inverno, che piova poco d'estate, che le auto generino smog, che i rifiuti non smaltiti finiscano per accumularsi nelle strade. Solo che nessuno si preoccupa di risolvere i problemi, di troncarne le radici prima che diventino troppo robuste e profonde.
E qui si inserisce l'ambiguità di cui parlavo: l'emergenza/emersione è tale perché, prima, qualcuno ha sommerso il problema, ha evitato di risolverlo, l'ha occultato. Sperando, forse, che la patata bollente scottasse le mani di qualcun altro.
Quando poi l'emergenza scoppia, non si prendono provvedimenti sostanziali, ma ci si limita ai palliativi, o si invocano interventi palingenetici, che dovrebbero risolvere il problema all'istante, ora e sempre, e nessuno dovrà più preoccuparsene.
Un esempio classico di emergenza è la scuola: che in Italia è sempre, costantemente in emergenza. Emergenza bullismo, emergenza precari, emergenza analfabetismo di ritorno, emergenza nelle conoscenze matematiche, emergenza perché mancano i fondi o perché i muri sono pieni di fessure.
Le soluzioni sarebbero semplici ma impegnative: monitorare la qualità della scuolain maniera costante e onesta; premiare i più bravi; cacciare gli incapaci; distribuire fondi con criteri ragionevoli; trasformare i professori da reietti sociali con deficit d'autostima, o missionari sempre impegnati a combattere sulla trincea con le unghie e con i denti, in professionisti seri, preparati, orgogliosi del proprio lavoro; migliorare i contatti tra scuole, provveditorati e ministeri; far tenere i corsi d'aggiornamento a gente in gamba e non a grigi e inetti funzionari; ridurre la burocrazia; assicurare ai docenti un posto fisso e non decenni di precariato; far sì che i professori si aggiornino, invece di mummificarsi sulle cattedre.
E invece si preferisce ricorrere alle grandi riforme, che – si promette – saneranno una volta per tutte la disastrata scuola italiana. Salvo che poi la montagna partorisce il topolino, il quale di volta in volta si chiama “riforma Moratti” o “riforma Gelmini”.
Dopodiché, l'emergenza si sommergerà nuovamente. I controsoffitti continueranno a scricchiolare, ma la speranza è sempre che cadano in testa a qualcun altro.
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