Sergio Garufi, Il nome giusto, Ponte alle Grazie 2011 (234 pp., € 16)
Se proprio dev'esserci un'altra vita - e io onestamente preferirei di no: una mi basta e avanza -, ma se proprio dev'esserci, non sarebbe poi tanto male se fosse come se la immagina Sergio Garufi in questo romanzo. Il protagonista-narratore muore già nelle prime righe, per un incidente stradale, e il suo fantasma continua a vagare intorno agli unici oggetti che in vita avevano occupato davvero la sua attenzione: i libri. Ora la sua biblioteca è stata venduta a un libraio e, man mano che uno dei volumi trova un acquirente, il narratore fa emergere un frammento del suo passato che ad esso è in qualche modo legato. Tessera per tessera, va a comporsi il mosaico di una biografia.
Garufi non sviluppa in alcun modo le implicazioni metafisiche della sua idea. Quel che gli interessa, piuttosto, è fare del protagonista (nel quale vi è un fortissimo transfer autobiografico, e quindi anche un'altrettanto forte componente metanarrativa: ma a me, se devo essere onesto, ciò importa molto poco) una metafora dello sguardo: lo sguardo dello scrittore-voyeur, che osserva non visto i suoi personaggi, ma anche lo sguardo del personaggio-narratore, che ha sempre vissuto la sua vita passivamente, in un angolo, con un senso di inadeguatezza che le circostanze biografiche spiegano solo in parte. Forse, come ha già detto qualcuno prima di me, la vita o la vivi, o la scrivi.
Non ricordo di chi sia la citazione, né ho voglia di ricordarlo, ma per un libro come questo, che si nutre cannibalicamente di altri libri e si innerva di citazioni più o meno esplicite, mi sembrava la conclusione più adatta.
J. L. Borges, Il manoscritto di Brodie, La Biblioteca di Repubblica 2002 (94 pp.)
Chi si aspettasse, da questi racconti della vecchiaia borgesiana, le vertigini metafisiche de “L'Aleph” o de “La biblioteca di Babele”, resterà deluso. Le undici storie brevi del volume, le più lunghe delle quali sfiorano appena la decina di pagine, sono testi asciutti, lineari, perlopiù realistici (per quanto può esserlo un racconto: Nabokov insegna che la parola “realtà” andrebbe messa sempre tra virgolette).
Borges li fa precedere da una prefazione piena di modestia sorniona, nella quale ironizza sui propri topoi letterari (“pochi argomenti mi hanno ossessionato nel corso del tempo; sono decisamente monotono”) e sui propri vezzi stilistici (“per molti anni ho creduto che sarei riuscito a ottenere una buona pagina mediante variazioni e novità; oggi, compiuti i settanta, credo di aver trovato la mia voce. […] L'età ormai avanzata mi ha insegnato la rassegnazione di essere Borges”).
I protagonisti e gli ambienti sono quasi sempre quelli dell'Argentina di fine Ottocento-primi del Novecento: gauchos, piccoli delinquentelli di periferia, oppure aristocratici bonaerensi del tempo che fu. Storie di coltelli, duelli, vendette, tradimenti; solo negli ultimi due racconti si apre qualche tenue spiraglio fantastico.
A conti fatti, direi: è proprio il Borges che mi piace di più.
mercoledì 30 novembre 2011
martedì 29 novembre 2011
lunedì 28 novembre 2011
lampi - 161
domenica 27 novembre 2011
sabato 26 novembre 2011
il nome dello splendore
È senz’altro pensabile che lo splendore della vita circondi chiunque e sempre nella sua intera pienezza, accessibile ma velato, nel profondo, invisibile, molto lontano. Però esso sta lì, non ostile, non riluttante, non sordo. Se si chiama con le parole giuste, con il nome giusto, allora viene.
Franz Kafka
venerdì 25 novembre 2011
giovedì 24 novembre 2011
giocattoli
mercoledì 23 novembre 2011
fuori dal tunnel
http://www.youtube.com/watch?v=jx8GhXm-HcA
L'altro giorno ho aperto l'armadio e ho constatato che il mucchio di panni in attesa di stiratura stava pericolosamente aumentando la propria tendenza alla lievitazione.
E chissenefrega, direte voi.
Fatto sta che, dopo cena, abbiamo raggiunto un compromesso. Mia moglie si è portata i bimbi in camera da letto, al piano di sopra, e io sono rimasto in cucina a stirare; come succede spesso, d'altronde.
Mentre stiravo ho acceso la televisione e sono incappato nel programma di Fiorello, "Il più grande spettacolo dopo il weekend". Tre ore buone, seguite da un'intera puntata di "Porta a porta", che sviluppava il tema: quant'è bravo Fiorello, quanto ci piace Fiorello, viva Fiorello, Fiorello erede del grande varietà, Fiorello santo subito.
Ora, non voglio dire negare che Fiorello abbia una notevole abilità di entertainer: canta discretamente, regge la scena, sa come bucare il video, conosce i tempi comici, oltre al fatto di aver dietro una squadra di autori che gli scrive i testi. Insomma, è l'ultima ruota di un ingranaggio congegnato per fare audience, e devo rendergli il merito di farlo funzionare alla perfezione. Tra grandifratelli e mariedefilippi, Fiorello ci fa persino la parte del garbato, quasi del colto.
Però.
Però, a ben guardare, Fiorello non si è mosso di un millimetro dai suoi esordi. Era, e resta, un animatore da villaggio turistico.
Ora, parliamo fuori dai denti: ci sono poche categorie umane che odio e detesto con tutta l'anima. Una di queste è quella degli animatori. Gente che ha privato l'umanità di un fondamentale e sacrosanto diritto: quello di annoiarsi. Gente per cui la quiete e il silenzio, che sono preludio e presupposto del pensiero, sono nemici da abbattere. (Un altro è DJ Francesco, che sta faticosamente percorrendo la sua carriera di Fiorello dei poveri di spirito).
Il successo di Fiorello, con la sua comicità bonacciona, caciarona e nazionalpopolare, capace di produrre share misurati in milioni, testimonia dell'avvenuta trasformazione dell'Italia in un unico, grande villaggio turistico.
E' ora di affermare una verità che dovrebbe essere lapalissiana. Il divertimento è una droga. Il divertimento è una tossina neuronale. Il divertimento dà assuefazione. Il divertimento uccide te e chi ti sta intorno.
Io non sono mai entrato nel tunnel, e posso aiutarvi a uscirne.
P.S.: lo so, lo so, anche Caparezza era ospite di Fiorello. Diciamo che il video postato in alto è un tipico esempio di eterogenesi dei fini.
martedì 22 novembre 2011
ancora su Anna Maria Farabbi
Notturno (da "Adlujè", Il Ponte del Sale 2003)
I.
Mezzanotte prugna
in corpo:
sangue saliva e mosto.
II.
Scrivo la respirazione delle lettere,
intingendo nel buio
del foglio
la mia lingua calda.
V.
La luce nella pesca. La pesca
Silenziosa
che rotola nella notte.
Dentro i miei occhi
e con la stessa costosa lentezza
si allontana.
VI.
Sono scappati perché sono bella e perché hanno paura di leggere i cromi
della notte,
la lentissima fioritura del tuorlo,
la nudità della creatura
e del creato.
Non vogliono tremare,
per questo quando si allontanano
parlano.
Mentre io voglio la lingua
per l'intimità, l'umidità, il silenzio
profondo.
Il bacio.
VII.
Non è il refolo che accarezza
il trifoglio.
Qui a Montelovesco,
è la terra che si muove. L'odore.
Allegro con fuoco. Preistorico.
Qui è mezzanotte: lume e stelle
sono in calore.
Il sole è sotto.
Nelle incisioni sul mio palmo,
tra gli inchiostri,
brillano gli schizzi salini del tsunami.
Dentro la voce di Andrea Zanzotto:
26.12.1997, ore 23,20.
X.
Da queste parti le creature non conoscono il mare.
Racconto il movimento degli azzurri.
L'orizzontalità cangiante.
L'impossibilità del taglio.
L'unico, il lunghissimo, lontanissimo
lato.
Ma nessuno lo chiede.
Stanno in terra, dentro la notte,
guardando la profondità del cammino
con il fuoco che dal petto
gli fa luce.
Poi, quasi all'alba, prima del tuorlo,
mi tolgono l'argilla dagli occhi
leccandomi il muso.
* * *
(da: "La magnifica bestia", Travenbooks 2007)
Contabilità dell’amore
Giusto na cantatina sott’ala fenestra
ntra che la neve me gela
l’amore nbocca.
La cicalina brilla ncla gola sciuerta
lsu ncantesimo contro l’inverno
e pu fatta
lascia cadé la soletudine dle lune
e la scortsa del fieto
nterra.
Canto: magno la notte e la morte.
Paro la mi festa.
Giusto una canzoncina sotto la finestra / mentre la neve mi gela / l’amore in bocca. // La cicalina brilla con la sua gola scordata / il proprio incantesimo contro l’inverno / e poi scoppiando / lascia cadere la soletudine dell’inquietudine / e la buccia del fiato / in terra. // Canto: mangio la notte e la morte. / Pascolo la mia festa.
* * *
Mater/icità dell’amore
Gnuda.
Drento ltu corpo
so l’incesto dla luna ncol sole.
Terra cottora. L’odore
che s’asoda ntle tu froge.
Lengua corrente
sciolta ntol sangue.
Nuda. - Dentro il tuo corpo / sono l’incesto della luna con il sole. / Terra da cuocere. L’odore / che mi condensa nelle tue narici. // Lingua corrente / sciolta nel sangue.
lunedì 21 novembre 2011
Anna Maria Farabbi
Ci sono poesie che ti piacciono o non ti piacciono. Poi ci sono le poesie che, come quelle di Anna Maria Farabbi, semplicemente ti mordono alla gola e non si staccano
Mannaggia a me che ho vissuto vent'anni a Perugia, a due passi da lei, senza conoscerla.
da "Adlujè" (Il Ponte del Sale, 2003)
Canto la madre non vergine
mentre fa l'amore con me
Madre dei sordomuti,
e delle cornacchie che dalla paura
pisciano in volo, madre
che scompari accadi e accadi,
con una lingua precipitosa insisti
e insisti
dentro il mio inguine. Madre
che mi fecondi con la tua saliva seminale:
ti ricevo:
qui e ora:
apro le cosce cuore e cervello.
Le donne del mio paese sono tutte in lutto
per questo ti vengono a pregare
chiudendo gli occhi per fondersi
al nero.
S'inginocchiano sopra il tuo corpo
cioè sopra un magnifico altopiano
si racchiudono
riassumendo la forma e il significato
del feto.
Io sono uscita dal loro branco.
Mi sono strappata le palpebre per vederti
fino in fondo
e con il fondo dei miei piedi ti cammino
per avvicinarmi,
e più mi avvicino
latro
con la fame in gola
e la gola tra le cosce. Madre
che mi hai partorito urlando,
il tuo sudore e la tua lingua mi bagnano:
sono qui. Qui e ora. Qui,
secondo la mia natura di figlia
disuguale
che scopa con i sordomuti
e per sempre li contamina
e avvolge teneramente le cornacchie calve
soffiando loro
la mia aria
calda. La mia aria calda.
* * *
Madre! Non dormo! Nemmeno questa volta dormo!
Nemmeno adesso che il nero copre ogni cosa
e intorpidisce gli occhi
Ha colpa il rospo
che dal fondo delle mie orecchie intona
ciò che dura ed è durevole
intrigandomi
Più lo ninno e lo staccio
più lui di verde si ostina
brilla
e vuole fare l'amore
* * *
VARIAZIONI SUL BUIO DI MIO FIGLIO
I.
E' NEL SONNO CHE SI DILATA E S'INCANTA
RICEVENDO,
ANCHE PER ME CHE LO VEGLIO,
RICEVENDO NEL SOGNO
I MIRACOLI DEGLI DEI.
Mio figlio dorme dentro l'inverno
mentre la vita gli tinge
il tenerissimo buio
delle narici.
Vi si sgelano gli angeli e gli uccelli
scoccati da dio.
II.
E' NEL SONNO CHE SI DILATA E S'INCANTA
RICEVENDO,
ANCHE PER ME CHE LO VEGLIO,
RICEVENDO NEL SOGNO
I MIRACOLI DEGLI DEI.
Mio figlio dorme
coperto dai suoi occhi chiusi:
sta cadendo in sé
come una piumina bianca.
Sottosotto è morbido il caldo
del suo terriccio cuore
dentro cui sta crescendo,
anche nel sonno,
la pianta.
III.
E' NEL SONNO CHE SI DILATA E S'INCANTA
RICEVENDO,
ANCHE PER ME CHE LO VEGLIO,
RICEVENDO NEL SOGNO
I MIRACOLI DEGLI DEI.
Mio figlio dorme
uscendo dalla luce
come un tranquillissimo fiume
notturno
che nel fluire dentro la sua lunghezza
tocca terra e mare
contemporaneamente.
Nel suo silenzio subacqueo
sono liquidi anche i venti e i canti
dei pesci.
domenica 20 novembre 2011
la regola del duemila
http://youtu.be/z5Sr4ld3knQ
E' stato un attimo, una manciata d'anni. Diciamo tra il 1989 e il 1994.
Me lo ricordo: i muri cadevano, i ladri finivano in galera. C'era la sensazione che qualcosa potesse cambiare, sul serio.
Poi, il buio.
Lui, comunque, nel 1989 aveva già capito tutto.
Me lo ricordo: i muri cadevano, i ladri finivano in galera. C'era la sensazione che qualcosa potesse cambiare, sul serio.
Poi, il buio.
Lui, comunque, nel 1989 aveva già capito tutto.
Bambini venite parvulos
Nessun calcolo ha nessun senso dentro questa paralisi,
gli elementi a disposizione non consentono analisi
e i professori dell'altro ieri stanno affrettandosi a cambiare altare,
hanno indossato le nuove maschere e ricominciano a respirare.
Bambini venite parvulos, c'è un'ancora da tirare,
issa dal nero del mare, dal profondo del nero del mare,
che nessun calcolo ha nessun senso, e poi nessuno sa più contare.
Legalizzare la mafia sarà la regola del Duemila,
sarà il carisma di Mastro Lindo a regolare la fila
e non dovremo vedere niente che non abbiamo veduto già:
qualsiasi tipo di fallimento ha bisogno della sua claque.
Bambini venite parvulos, c'è un applauso da fare al bau bau,
si avvicina sorridendo l'arrotino col suo know-how,
venuto a vendere perline e a regalare crack.
Sabbia sulle autostrade, ruggine sulle unghie,
e limatura di ferro negli occhi, terra fra le nostre lingue.
Avrei voluto baciarti amore, ancora un poco prima di andare via,
prima di essere scaraventati dentro questo tipo di pornografia.
Bambini venite parvulos, vale un occhio il vostro cuore,
mille dollari i vostri occhi, i vostri occhi senza dolore.
Bambini venite parvulos, sangue sotto al sole.
Francesco De Gregori
(da "Miramare", 1989)
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sabato 19 novembre 2011
venerdì 18 novembre 2011
l'importo sepolto
giovedì 17 novembre 2011
la droga di josé
José Delgado, contadino asturiano, ha studiato da maestro e se non ha preso il diploma ci è andato vicino. Ha anche pubblicato tre racconti su un giornale di provincia e avrebbe scritto anche un romanzo se gli obblighi del suo mestiere glielo avessero consentito. Purtroppo non fu così. José Delgado è (o meglio era) portalettere. E con tutte quelle casette e cascine sparse un po' ovunque sulla salita, corre tutto il giorno e giunto a casa, a sera, è tanto se ha voglia di cenare. Altro che scrivere! Ha però una gran voglia di leggere e siccome "i libri costano cari e poi la letteratura non gli sembra niente di buono", incomincia una sera, quasi per gioco, ad avvicinare una busta al calore della fiamma: la apre e la legge. "Ecco come dovrebbero scrivere gli scrittori!" esclama pieno di commossa ammirazione. "Questi sono i sentimenti, queste sono le parole!". Ne apre un'altra: e la sua meraviglia cresce e, con la meraviglia, l'audacia. Ne a pre a decine tutti i giorni, nel segreto della sua casetta: e il mondo gli si rivela sempre più vario, amabile, colorito e drammatico. Come rinunciare, ora che ci si è abituato, ad una simile droga? Ma José Delgado, come Cola di Rienzo, giungo allo zenith perde un po' l'equilibrio, comincia a strafare, a voler troppo e noi (che sappiamo lo strazio di dover restituire alla biblioteca un libro carissimo) lo comprendiamo perfettamente. Certe lettere sono così belle che José non se la sente di richiuderle e consegnarle: se le tiene e le incolla in diversi album divisi per argomento: lettere di madri, di soldati, di amanti, di mariti, ecc. E' a questo punto che il paese, privo quasi totalmente di notizie, si allarma. L'inganno viene scoperto e il postino finisce in gattabuia. Ora in prigione si annoia e ostinatamente rifiuta di leggere i libri. I libri sono cose artificiali, dice. Chi scrive lo fa per mestiere: e quindi non può mai essere sincero. Un libro sta a una lettera come il surrogato al caffè.
E. Montale (in Prose e racconti, Meridiani Mondadori 2001)
mercoledì 16 novembre 2011
onori
martedì 15 novembre 2011
la pulce
Osserva solo questa pulce, e in essa
osserva quanto poco tu mi neghi.
Prima mi ha morso, ed ora morde te,
e in questa pulce il nostro sangue è misto.
Questo non è, confessalo,
onta, peccato, né deflorazione.
Ma essa gode prima di soffrire,
gonfia e satolla di un sangue che è due,
ed è più, ahimé, di quel che noi faremo.
Oh, ferma: in essa abbi pietà di tre:
lì noi, sì, siamo ancor più che sposati.
È me ed è te la pulce, ed è essa
il tempio e il talamo del matrimonio.
Malgrado i genitori, e te, noi insieme
serrano vive mura di giaietto.
Per noia potrai bramare la mia morte,
ma a questo non aggiungere un suicidio
e un sacrilegio: in uno, tre peccati.
Aspra, avventata, hai dunque già macchiato
di rosso l'unghia, in sangue d'innocente?
E qual è mai la colpa della pulce
se non la goccia che da te ha succhiato?
Ma tu trionfi, e dici che né te
né me, trovi più debole di prima.
È vero: impara, false le paure.
Ma tanto onore, in cedere, sarà,
quanta vita ti ha tolto questa morte .
John Donne (traduzione mia)
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lunedì 14 novembre 2011
visioni - 6
La classe operaia va in Paradiso (1971) di Elio Petri, con Gian Maria Volonté, Mariangela Melato, Salvo Randone.
(DVD, 6 novembre)
(DVD, 6 novembre)
Quanto durano quarant'anni? Un battito di ciglia nella storia dell'Universo, metà della vita di un uomo, un'eternità per una mosca. Quarant'anni fa in Italia si parlava di classe operaia, lotta sindacale, rivoluzione, alienazione, piattaforma di rivendicazione unitaria. Quant'è passato? Ere geologiche?
Un'era geologica fa, usciva questo film di Elio Petri.
Il protagonista è Lulù Massa (G. M. Volontè), operaio il cui unico obiettivo nella vita è produrre, produrre e produrre. Ha trentun anni e da quindici vive in simbiosi con la sua macchina; ha una famiglia disastrata: una convivente (M. Melato), un figlio adottivo a carico, l'ex-moglie divorziata con figlio e relativi alimenti, vita sociale limitata all'ipnosi televisiva serale e ai dialoghi con Militina (Salvo Randone), ex compagno di fabbrica ora rinchiuso in manicomio.
Lulù odia gli studenti di estrema sinistra che ogni mattina urlano slogan rivoluzionari di fronte alla sua fabbrica ed è odiato dai compagni che lo vedono come un servo dei padroni. Soffre di ulcera e di impotenza, coltiva fantasie sessuali sulla giovane collega notoriamente vergine: insomma, sta male e non sa nemmeno lui perché.
Fino al giorno in cui la sua amata macchina gli mozza un dito. Lì comincia per Lulù il risveglio. Prende coscienza della propria alienazione, si lancia in un disperato sciopero, ma la sua discesa agli inferi si fa sempre più precipitosa: viene mollato dalla compagna, licenziato dai padroni, abbandonato da tutti. Arriva alle soglie della follia.
Alla fine, reintegrato nel suo posto di lavoro, si consola profetizzando ai compagni il paradiso per tutti gli operai.
Il film è scandito dal ritmo frenetico e allucinato della fabbrica; la telecamera insegue un Volonté rabbiosamente grottesco nel suo calvario, filmandolo sul posto di lavoro, o in giro per una Novara gelida e nevosa, o nel suo squallido appartamento proletario zeppo dei simboli del benessere sognato e mai raggiunto.
Un'opera a volte sbilanciata, ma sempre spinta da un autentico e doloroso furore. Che fece incazzare un po' tutti, anche (e soprattutto) a sinistra.
Un'era geologica fa, usciva questo film di Elio Petri.
Il protagonista è Lulù Massa (G. M. Volontè), operaio il cui unico obiettivo nella vita è produrre, produrre e produrre. Ha trentun anni e da quindici vive in simbiosi con la sua macchina; ha una famiglia disastrata: una convivente (M. Melato), un figlio adottivo a carico, l'ex-moglie divorziata con figlio e relativi alimenti, vita sociale limitata all'ipnosi televisiva serale e ai dialoghi con Militina (Salvo Randone), ex compagno di fabbrica ora rinchiuso in manicomio.
Lulù odia gli studenti di estrema sinistra che ogni mattina urlano slogan rivoluzionari di fronte alla sua fabbrica ed è odiato dai compagni che lo vedono come un servo dei padroni. Soffre di ulcera e di impotenza, coltiva fantasie sessuali sulla giovane collega notoriamente vergine: insomma, sta male e non sa nemmeno lui perché.
Fino al giorno in cui la sua amata macchina gli mozza un dito. Lì comincia per Lulù il risveglio. Prende coscienza della propria alienazione, si lancia in un disperato sciopero, ma la sua discesa agli inferi si fa sempre più precipitosa: viene mollato dalla compagna, licenziato dai padroni, abbandonato da tutti. Arriva alle soglie della follia.
Alla fine, reintegrato nel suo posto di lavoro, si consola profetizzando ai compagni il paradiso per tutti gli operai.
Il film è scandito dal ritmo frenetico e allucinato della fabbrica; la telecamera insegue un Volonté rabbiosamente grottesco nel suo calvario, filmandolo sul posto di lavoro, o in giro per una Novara gelida e nevosa, o nel suo squallido appartamento proletario zeppo dei simboli del benessere sognato e mai raggiunto.
Un'opera a volte sbilanciata, ma sempre spinta da un autentico e doloroso furore. Che fece incazzare un po' tutti, anche (e soprattutto) a sinistra.
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domenica 13 novembre 2011
sabato 12 novembre 2011
venerdì 11 novembre 2011
the joy of nonsense
La filastrocca dei cento animali
(delle orecchie sturate i canali)
Le zanzare a Zanzibar
vanno a zonzo pei bazar
e le mosche fosche e losche
fra le frasche stanno fresche.
Arsi gli orsi dai rimorsi
bevon l’acqua a sorsi a sorsi.
Mentre i ghiri ghirigori
fanno a gara nelle gore,
ai canguri fan gli auguri
con le angurie le cangure.
Ecco il merlo con lo smerlo,
il merluzzo col merletto,
la testuggine ed il muggine
ricoperti di lanuggine,
di fuliggine e di ruggine.
Tutti i cervi ci hanno i nervi
e stan curvi e torvi i corvi,
la cornacchia s’ impennacchia
e sonnecchia nella nicchia,
la ranocchia ama la nocchia
e sgranocchia la pannocchia,
i cavalli fan cavilli
ed il ghiozzo ci ha il singhiozzo
e la carpa è senza scarpa
e si fa la barba il barbo
ed i bachi sui sambuchi
fanno buchi con i ciuchi.
Lunghe brache ci hanno i bruchi
e le oche fioche e poche
alle foche fan da cuoche.
I bisonti son bisunti,
qui c’è un ragno con la rogna,
la cicogna sogna e agogna
di vigogna una carogna,
l’anatrotto e l’anatrotta
con la trota trotta trotta.
Nanerottola è la nottola
e il pidocchio ch’è sul cocchio
all’abbacchio strizza l’occhio
e lo sgombro sgombra l’ombra
e l’aringa si siringa
e i mandrilli e i coccodrilli
fanno trilli e strilli ai grilli,
(però i grilli sono grulli).
La murena sulla rena
con la rana fa buriana
ed a galla resta il gallo,
duole il callo allo sciacallo
che barcolla e caracolla,
la mangusta si disgusta
e i machachi mangian cachi,
lo stambecco non ha il becco,
la giraffa arruffa e arraffa
poiché vien di riffa in raffa.
Eleganti gli elefanti
con gli infanti stan da fanti,
la beccaccia si procaccia
la focaccia con la caccia,
la civetta svetta in vetta
e l’assiuolo solo solo
fa un a solo nel chiassuolo.
Per ripicca picchia il picchio,
la tellina sta in collina,
sta in Calabria il calabrone
come a Fano sta il tafano…
Le zanzare a Zanzibar
vanno a zonzo pei bazar.
(delle orecchie sturate i canali)
Le zanzare a Zanzibar
vanno a zonzo pei bazar
e le mosche fosche e losche
fra le frasche stanno fresche.
Arsi gli orsi dai rimorsi
bevon l’acqua a sorsi a sorsi.
Mentre i ghiri ghirigori
fanno a gara nelle gore,
ai canguri fan gli auguri
con le angurie le cangure.
Ecco il merlo con lo smerlo,
il merluzzo col merletto,
la testuggine ed il muggine
ricoperti di lanuggine,
di fuliggine e di ruggine.
Tutti i cervi ci hanno i nervi
e stan curvi e torvi i corvi,
la cornacchia s’ impennacchia
e sonnecchia nella nicchia,
la ranocchia ama la nocchia
e sgranocchia la pannocchia,
i cavalli fan cavilli
ed il ghiozzo ci ha il singhiozzo
e la carpa è senza scarpa
e si fa la barba il barbo
ed i bachi sui sambuchi
fanno buchi con i ciuchi.
Lunghe brache ci hanno i bruchi
e le oche fioche e poche
alle foche fan da cuoche.
I bisonti son bisunti,
qui c’è un ragno con la rogna,
la cicogna sogna e agogna
di vigogna una carogna,
l’anatrotto e l’anatrotta
con la trota trotta trotta.
Nanerottola è la nottola
e il pidocchio ch’è sul cocchio
all’abbacchio strizza l’occhio
e lo sgombro sgombra l’ombra
e l’aringa si siringa
e i mandrilli e i coccodrilli
fanno trilli e strilli ai grilli,
(però i grilli sono grulli).
La murena sulla rena
con la rana fa buriana
ed a galla resta il gallo,
duole il callo allo sciacallo
che barcolla e caracolla,
la mangusta si disgusta
e i machachi mangian cachi,
lo stambecco non ha il becco,
la giraffa arruffa e arraffa
poiché vien di riffa in raffa.
Eleganti gli elefanti
con gli infanti stan da fanti,
la beccaccia si procaccia
la focaccia con la caccia,
la civetta svetta in vetta
e l’assiuolo solo solo
fa un a solo nel chiassuolo.
Per ripicca picchia il picchio,
la tellina sta in collina,
sta in Calabria il calabrone
come a Fano sta il tafano…
Le zanzare a Zanzibar
vanno a zonzo pei bazar.
Sto (Sergio Tofano)
giovedì 10 novembre 2011
cinque poesie di mariangela gualtieri
(da "Bestia di gioia", Einaudi 2010)
Ma l'amore
che fa piovere le gocce e precipita
il più piccolo seme e lo riproduce
nella sua fabbrica di corolle
adesso dorme sotto forma di paesaggio
invernale. Adesso suona come campane.
Adesso è un piccolo cane che mi aspetta
sotto la mia mano.
Adesso è il respiro del cane che sentiamo
e che si chiama Rama.
Adesso come uccello si è posato
sul cipresso, proprio in cima. Poi è volato
in brevi accelerate.
E adesso è qui
nella pace del mattino, nel mio respiro
nella mia mano, come sillabe dell'italiano
esce dalla punta della penna. Oggi restiamo.
Non ci precipitiamo nella corsa distratta
non dobbiamo portare pazienza.
Restiamo, in questo ozio appena
in questa serena attesa di niente.
Adesso Rama è impaziente. Si annoia.
E allora usciamo, per la sua gioia
in corsa nella campagna. Per la mia gioia
che con lei ci guadagna un respiro largo
di bosco.
* * *
Forse si muore oggi - senza morire.
Si spegne il fuoco al centro.
Sanguinano le bandiere. Generale è la resa.
Ciò che nasce ora crescerà in prigionia.
Reggete ancora porte invisibili dell'alleanza
bastioni di sereno. Puntellate il bene
che si sfalda in briciole in cartoni.
Il popolo è disperso. In seno ad ognuno cresce
il debole recinto della paura - la bestia spaventosa.
A chi chiedere aiuto? E' desolato deserto il panorama.
Si faccia avanti chi sa fare il pane.
Si faccia avanti chi sa crescere il grano.
Cominciamo da qui.
* * *
Un mio me
soffre. Chi è? Chi scalcia sul fondo
di questo quieto piroscafo. Giù
nella stiva il passeggero più vivo
batte i suoi colpi.
Chi lo tiene sepolto? E che cosa vuole
questo bastardo bambino che scalcia?
Nel fondo di me, un me soffre -
la sua bandiera stropicciata
non ha nessun vento.
E' murato. Il bambino più vio
murato sul fondo.
Con la sua magra manina
mi stringe il cuore al mattino
un poco stringe e duole.
Che cosa prometto quest'oggi al mio
prigioniero? Con quali parole false
lo tengo zitto per un giorno intero?
* * *
La capra sul fondo di me
non vuole dormire.
Cammina per i miei greppi
solleva quel buio e ne scopre
ancora. Più fondo.
Al centro di me
una bestiola accucciata si sveglia
e respira il silenzio che nel giorno
è mancato. Respira. A suo modo
canta. Resta attonita dentro
cucita nel fasciame buio del sange
rivestita del buio palpitante dei boschi notturni.
Sanguinante. Infante. La parte più viva
sta sveglia e pilota. Solleva il corpo
dal letto. Lo accuccia nella camera accanto
per terra. E canta. Dentro. Una felicità
sconosciuta. Un canto d'eternità
spaventoso e immenso. E' ignota
la sua volontà. Da che strana vita
si erge quel suo stare sveglia
da che lontananza si accende.
Non è bestia nera ma piccola
bestia di luce che sta nella vita
un po' stretta per lei.
* * *
E poi
viene un'ora
col suo sonno.
Cola giù
il viola e le palpebre
hanno una legge di peso
l'ordine superiore
di serrare ogni luce.
Allora - dopo la battaglia
col suo sgambettare
riponiamo i capelli sul cuscino
le mani lateralmente
e un precipizio del corpo
nel poligono del sonno
con sue fiammelle di respiro
e un sostare un sostare
per ristorare tutto
di questo fasciame
fino a che sulle punte
tutto il fiato va e viene
lentamente
in uno stare soli dei dormienti.
Oh! solitudine di chi dorme!
Ti cerco dalle sponde alte
degli insonni.
mercoledì 9 novembre 2011
vive la bureaucratie!
http://youtu.be/V-SxO8ZgH3o
Dunque, vediamo se ho capito.
La strada che passa davanti a casa mia appartiente formalmente alla cooperativa che vent'anni fa ha costruito il condominio e che ne ha il comodato per 99 anni, ma la manutenzione è compito del Comune, il quale cura asfalto e tombini tramite l'Assessorato ai Lavori Pubblici; la strada sopra è di competenza dell'ANAS; il pendio della collina appartiene all'Ordine dei Cavalieri di Malta, il terreno sotto a una società privata; la gestione di piante, alberi e staccionate è stata affidata dal Comune alla Comunità Montana, per tramite del vicesindaco, ma la potatura delle loro parti basse è a carico dei condomini. L'asfalto è stato scassato, nel corso degli anni, da Cesap, Enel e Telecom.
L'unica cosa chiara, comunque, è che aggiustare non aggiusta nessuno.
La strada che passa davanti a casa mia appartiente formalmente alla cooperativa che vent'anni fa ha costruito il condominio e che ne ha il comodato per 99 anni, ma la manutenzione è compito del Comune, il quale cura asfalto e tombini tramite l'Assessorato ai Lavori Pubblici; la strada sopra è di competenza dell'ANAS; il pendio della collina appartiene all'Ordine dei Cavalieri di Malta, il terreno sotto a una società privata; la gestione di piante, alberi e staccionate è stata affidata dal Comune alla Comunità Montana, per tramite del vicesindaco, ma la potatura delle loro parti basse è a carico dei condomini. L'asfalto è stato scassato, nel corso degli anni, da Cesap, Enel e Telecom.
L'unica cosa chiara, comunque, è che aggiustare non aggiusta nessuno.
martedì 8 novembre 2011
divaricazioni
http://youtu.be/PeYNXbzGFDA
Ecco, pensavo che forse il problema è proprio questo.
Il jazz è passato senza mediazioni dal sottoproletariato all'high culture, mantenendo nel passaggio una bizzarra posizione divaricata, con un piede in ciascuno.
Il rock, invece, nasce (e rimane) irrimediabilmente borghese.
lunedì 7 novembre 2011
una dedica per E.
Quando vuole pregare
lei va alla piscina comunale
mette la cuffia e gli occhialini
entra nell'acqua ma non è capace
di domandare, o forse non ci crede.
Allora fa una bracciata e dice
eccomi, poi ne fa un'altra
e ancora eccomi. Eccomi dice
ad ogni bracciata. Eccomi a te
che sei acqua e cloro
e questi corpi a mollo come spadaccini.
E nello spogliatoio, dopo, alla fine
prova sempre una gioia -
quasi l'avessero esaudita,
di qualche cosa che non ha chiesto
che non sapeva. Che mai saprà
cos'era.
Mariangela Gualtieri
(da "Bestia di gioia", Einaudi 2010)
(da "Bestia di gioia", Einaudi 2010)
domenica 6 novembre 2011
collera
Lo sapete, a scuola sto facendo studiare il testo poetico.
Ora, le domande che tornano più spesso sono due: "ma a che serve la poesia?" e "ma chi glielo fa fare, a 'sti poeti?". E non crediate che lo dica levando geremiadi contro i tempora e i mores, dato che queste domande sono vecchie più o meno quanto il mondo e i poeti da secoli imprecano contro il profanum vulgus e lo schifano.
Ora, io non credo che la poesia abbia l'obbligo di essere utile a qualcosa o a qualcuno; né credo che la poesia possa cambiare il mondo (poetry makes nothing happen, diceva uno che la sapeva molto più lunga di me); e non credo nemmeno che i poeti debbano necessariamente, in quanto poeti, essere uomini migliori rispetto al resto dell'umanità.
Però non credo neanche che ci sia qualche particolare merito a rinchiudersi nella turris eburnea e nel culto dell'ars gratia artis.
Quel che voglio dire è che c'è chi, ancor oggi, nell'anno XVII dell'Era Berlusconiana, ha la decenza di fare poesia civile, e soprattutto la coerenza di vivere questa scelta. C'è chi potrebbe starsene tranquillo in quel di Sondrio, e invece per sei mesi all'anno se ne va all'altro capo d'Italia per lavorare in una terra dove la legalità è solo una voce sul vocabolario. Insomma, c'è gente come Gian Mario Lucini.
Sono persone per le quali provo il più profondo rispetto, anche quando - come in questo caso - le loro posizioni politiche ed esistenziali sono lontanissime dalle mie*.
Ora Gian Mario fa uscire un'antologia di poesia civile, intitolata "La giusta collera". Okay, c'è anche un testo mio, ma questo non vuol dire, dato che la partecipazione era libera e io non ci guadagno neanche un centesimo. L'antologia si può scaricare gratuitamente qui.
Se ci credete, scaricate, leggete e, se potete, diffondete.
(E, a proposito, Gian Mario è disponibile a presentare l'antologia in giro per l'Italia. Se conoscete qualcuno interessato, contattatelo sul sito dell'Associazione Poiein).
* Tanto per informazione, le posizioni politiche di Lucini si potrebbero definire, più o meno, di "sinistra cattolica".
Ora, le domande che tornano più spesso sono due: "ma a che serve la poesia?" e "ma chi glielo fa fare, a 'sti poeti?". E non crediate che lo dica levando geremiadi contro i tempora e i mores, dato che queste domande sono vecchie più o meno quanto il mondo e i poeti da secoli imprecano contro il profanum vulgus e lo schifano.
Ora, io non credo che la poesia abbia l'obbligo di essere utile a qualcosa o a qualcuno; né credo che la poesia possa cambiare il mondo (poetry makes nothing happen, diceva uno che la sapeva molto più lunga di me); e non credo nemmeno che i poeti debbano necessariamente, in quanto poeti, essere uomini migliori rispetto al resto dell'umanità.
Però non credo neanche che ci sia qualche particolare merito a rinchiudersi nella turris eburnea e nel culto dell'ars gratia artis.
Quel che voglio dire è che c'è chi, ancor oggi, nell'anno XVII dell'Era Berlusconiana, ha la decenza di fare poesia civile, e soprattutto la coerenza di vivere questa scelta. C'è chi potrebbe starsene tranquillo in quel di Sondrio, e invece per sei mesi all'anno se ne va all'altro capo d'Italia per lavorare in una terra dove la legalità è solo una voce sul vocabolario. Insomma, c'è gente come Gian Mario Lucini.
Sono persone per le quali provo il più profondo rispetto, anche quando - come in questo caso - le loro posizioni politiche ed esistenziali sono lontanissime dalle mie*.
Ora Gian Mario fa uscire un'antologia di poesia civile, intitolata "La giusta collera". Okay, c'è anche un testo mio, ma questo non vuol dire, dato che la partecipazione era libera e io non ci guadagno neanche un centesimo. L'antologia si può scaricare gratuitamente qui.
Se ci credete, scaricate, leggete e, se potete, diffondete.
(E, a proposito, Gian Mario è disponibile a presentare l'antologia in giro per l'Italia. Se conoscete qualcuno interessato, contattatelo sul sito dell'Associazione Poiein).
* Tanto per informazione, le posizioni politiche di Lucini si potrebbero definire, più o meno, di "sinistra cattolica".
sabato 5 novembre 2011
venerdì 4 novembre 2011
giovedì 3 novembre 2011
storiografia creativa
mercoledì 2 novembre 2011
recensioni in pillole 141/142 - "Durasagra" / "Zasafir"
Paolo Bacilieri, Durasagra. Venezia über alles, Black Velvet 2006 (95 pp., € 16)
Zeno, Piero e Cristiano sono tre balordi. Tre ragazzi di vita senz'arte né parte, diretti discendenti degli Zanna, Petrilli e Colas di Andrea Pazienza (ma disegnati con l'esuberanza grafica di "Penthotal"). Del resto, il riferimento a Paz e all'estetica frigidairiana è esplicito in almeno in un paio di punti, e implicito un po' dovunque.
"Durasagra" racconta una loro giornata, trascorsa alla deriva (simbolica e fisica) in una Venezia putrescente, circondata da un hinterland di degrado post-industriale, dove i turisti sono presenze fantasmatiche e i monumenti fanno da sfondo ad avventure prive di scopo e di senso: alcool, droga, squallide marchette omosessuali, tentativi di orge, risse, famiglie disastrate.
Bacilieri (all'epoca trentenne: il fumetto è del 1994) accosta, senza alcuna soluzione di continuità, la più estrema sintesi grottesca con insistiti richiami alla pittura manierista, l'immondizia con cieli di luminosità tiepoliana, in una narrazione allucinata e lisergica.
Guido Buzzelli, Zasafir, Hazard Edizioni 1999 (56 pp., € 15,49)
"Avatar"? Bof. Guido Buzzelli ci aveva pensato già trent'anni fa.
O meglio: le creature aliene semibestiali che popolano il pianeta Zarau, dov'è ambientato "Zasafir", sono figlie del "Flash Gordon" raymondiano. Ma perché, voi pensate che quelle cose lì se le sia inventate James Cameron?
Di suo, Buzzelli ci mette la solita enfasi sarcastica, costruendo una space opera che gioca a rimpiattino con tutte le attese del lettore: personaggi che compaiono come protagonisti per poi ridursi a macchiette di secondo piano, svolte narrative che sfumano in sberleffi, personaggi smaccatamente dissonanti con il loro ruolo (quando mai si è vista una storia di fantascienza in cui uno degli eroi si chiama Peppino Cacace?).
Folle? Bien sûr, ma geniale, senza mezzi termini.
Zeno, Piero e Cristiano sono tre balordi. Tre ragazzi di vita senz'arte né parte, diretti discendenti degli Zanna, Petrilli e Colas di Andrea Pazienza (ma disegnati con l'esuberanza grafica di "Penthotal"). Del resto, il riferimento a Paz e all'estetica frigidairiana è esplicito in almeno in un paio di punti, e implicito un po' dovunque.
"Durasagra" racconta una loro giornata, trascorsa alla deriva (simbolica e fisica) in una Venezia putrescente, circondata da un hinterland di degrado post-industriale, dove i turisti sono presenze fantasmatiche e i monumenti fanno da sfondo ad avventure prive di scopo e di senso: alcool, droga, squallide marchette omosessuali, tentativi di orge, risse, famiglie disastrate.
Bacilieri (all'epoca trentenne: il fumetto è del 1994) accosta, senza alcuna soluzione di continuità, la più estrema sintesi grottesca con insistiti richiami alla pittura manierista, l'immondizia con cieli di luminosità tiepoliana, in una narrazione allucinata e lisergica.
Guido Buzzelli, Zasafir, Hazard Edizioni 1999 (56 pp., € 15,49)
"Avatar"? Bof. Guido Buzzelli ci aveva pensato già trent'anni fa.
O meglio: le creature aliene semibestiali che popolano il pianeta Zarau, dov'è ambientato "Zasafir", sono figlie del "Flash Gordon" raymondiano. Ma perché, voi pensate che quelle cose lì se le sia inventate James Cameron?
Di suo, Buzzelli ci mette la solita enfasi sarcastica, costruendo una space opera che gioca a rimpiattino con tutte le attese del lettore: personaggi che compaiono come protagonisti per poi ridursi a macchiette di secondo piano, svolte narrative che sfumano in sberleffi, personaggi smaccatamente dissonanti con il loro ruolo (quando mai si è vista una storia di fantascienza in cui uno degli eroi si chiama Peppino Cacace?).
Folle? Bien sûr, ma geniale, senza mezzi termini.
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martedì 1 novembre 2011
poetica genetica
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