mercoledì 30 novembre 2011

recensioni in pillole 143/144: "Il nome giusto" / "Il manoscritto di Brodie"

Sergio Garufi, Il nome giusto, Ponte alle Grazie 2011 (234 pp., € 16)

Se proprio dev'esserci un'altra vita - e io onestamente preferirei di no: una mi basta e avanza -, ma se proprio dev'esserci, non sarebbe poi tanto male se fosse come se la immagina Sergio Garufi in questo romanzo. Il protagonista-narratore muore già nelle prime righe, per un incidente stradale, e il suo fantasma continua a vagare intorno agli unici oggetti che in vita avevano occupato davvero la sua attenzione: i libri. Ora la sua biblioteca è stata venduta a un libraio e, man mano che uno dei volumi trova un acquirente, il narratore fa emergere un frammento del suo passato che ad esso è in qualche modo legato. Tessera per tessera, va a comporsi il mosaico di una biografia.
Garufi non sviluppa in alcun modo le implicazioni metafisiche della sua idea. Quel che gli interessa, piuttosto, è fare del protagonista (nel quale vi è un fortissimo transfer autobiografico, e quindi anche un'altrettanto forte componente metanarrativa: ma a me, se devo essere onesto, ciò importa molto poco) una metafora dello sguardo: lo sguardo dello scrittore-voyeur, che osserva non visto i suoi personaggi, ma anche lo sguardo del personaggio-narratore, che ha sempre vissuto la sua vita passivamente, in un angolo, con un senso di inadeguatezza che le circostanze biografiche spiegano solo in parte. Forse, come ha già detto qualcuno prima di me, la vita o la vivi, o la scrivi.
Non ricordo di chi sia la citazione, né ho voglia di ricordarlo, ma per un libro come questo, che si nutre cannibalicamente di altri libri e si innerva di citazioni più o meno esplicite, mi sembrava la conclusione più adatta.


J. L. Borges, Il manoscritto di Brodie, La Biblioteca di Repubblica 2002 (94 pp.)

Chi si aspettasse, da questi racconti della vecchiaia borgesiana, le vertigini metafisiche de “L'Aleph” o de “La biblioteca di Babele”, resterà deluso. Le undici storie brevi del volume, le più lunghe delle quali sfiorano appena la decina di pagine, sono testi asciutti, lineari, perlopiù realistici (per quanto può esserlo un racconto: Nabokov insegna che la parola “realtà” andrebbe messa sempre tra virgolette).
Borges li fa precedere da una prefazione piena di modestia sorniona, nella quale ironizza sui propri topoi letterari (“pochi argomenti mi hanno ossessionato nel corso del tempo; sono decisamente monotono”) e sui propri vezzi stilistici (“per molti anni ho creduto che sarei riuscito a ottenere una buona pagina mediante variazioni e novità; oggi, compiuti i settanta, credo di aver trovato la mia voce. […] L'età ormai avanzata mi ha insegnato la rassegnazione di essere Borges”).
I protagonisti e gli ambienti sono quasi sempre quelli dell'Argentina di fine Ottocento-primi del Novecento: gauchos, piccoli delinquentelli di periferia, oppure aristocratici bonaerensi del tempo che fu. Storie di coltelli, duelli, vendette, tradimenti; solo negli ultimi due racconti si apre qualche tenue spiraglio fantastico.
A conti fatti, direi: è proprio il Borges che mi piace di più.

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