mercoledì 11 marzo 2009

free download


Avevo sempre dimenticato di segnalarlo: "Il culto dei morti nell'Italia contemporanea" (Einaudi 2000), unico libro di versi di Giulio Mozzi, è ora scaricabile gratuitamente in formato pdf su Vibrisse, messo a disposizione dall'autore stesso.

martedì 10 marzo 2009

italo calvino 3 - Pavese se ne va

Terzo estratto della tesi su Calvino. Ancora sul periodo di passaggio fra l'impegno degli anni 1945-1955 e la crisi della fine del decennio.
Uno dei segni del mutamento in corso in Calvino è il progressivo allontanamento dalla figura di Pavese, che era stato uno dei numi tutelari della sua prima produzione saggistica, insieme a Vittorini, Hemingway e agli amati classici dell'Ottocento (Stendhal, Stevenson, Cechov, Tolstoj).
Il Calvino giovane vedeva in Pavese l'archetipo del duro, del lavoratore, dello scrittore proteso a una sua inflessibile missione morale, e non vedeva - o si rifiutava di vedere - la parte oscura della sua personalità.
Ora la figura di Pavese comincia a sfocarsi, ad allontanarsi nel passato, fino a diventare tout court il simbolo di un'epoca ormai conclusa.
I capitoli precedenti: introduzione / la fine dell'impegno (1974-1985) / la belle époque inaspettata.

* * *

Nel 1956, rispondendo a un’inchiesta del “Caffè”, Calvino indicava in Pavese “il più importante, complesso, denso scrittore italiano del nostro tempo. Qualsiasi problema ci si ponga, non si può non rifarsi a lui”. Ancora nel 1959, rievocandone la figura, sottolineava il suo valore di modello e letterario e umano, leggendone anche gli aspetti negativi (le tendenze autodistruttive, il suicidio) come “rigoroso e tragico approfondimento” del suo esempio morale.
I primi segni dell’appannamento della figura di Pavese si avvertono in concomitanza con l’inizio degli anni ‘60, ossia di quel “cambio d’epoca” che, come abbiamo visto, portò Calvino a una radicale revisione dei propri punti di riferimento letterari e ideologici. Nel 1960 escono un’intervista di Carlo Bo, in cui Calvino parla a lungo anche di Pavese, e il saggio Pavese: essere e fare, commemorazione dello scrittore a dieci anni dalla morte.
L’intervista di Bo si apre proprio con una domanda relativa a ciò che resta dell’opera pavesiana e ciò che di essa sembra invece superato: Calvino risponde che

esiste già un’ “epoca di Pavese”, con un suo volto ben preciso, ed è quel ventennio ‘30-‘50 che solo ora ci appare con una fisionomia unitaria [...]. Questo già basta ad allontanare Pavese nel passato, ma anche ad affermarne il valore in una dimensione di cui prima non tenevamo abbastanza conto: di autore di un affresco del suo tempo come non ne esistono altri. [...] Quante cose proprio per essere lontane e oggi quasi incomprensibili, non ci si rivelano piene d’un’affascinante forza poetica! [...] Ma tutto è così chiaro, doloroso e lontano, come chiaro, doloroso e lontano è Leopardi.

Non si può non misurare la distanza con le affermazioni di soli quattro anni prima: lo scrittore a cui “non ci si può non rifare” è diventato uno scrittore già leggibile in chiave storica e quindi relegato in un ambito cronologico ormai conchiuso. Anche il suo esempio, letterario e umano, si rivela improponibile, di fronte a una realtà profondamente mutata:

La via di Pavese non ha avuto seguito nella letteratura italiana. [...] Pavese è tornato a essere “la voce più isolata della poesia italiana” come si leggeva sulla fascetta d’una vecchia edizione di Lavorare stanca” [...].
A Pavese mi lega la comunanza d’un gusto di stile poetico e morale, [...] ma nell’opera, in dieci anni, mi sono allontanato da quel clima.

E, in maniera anche più esplicita, nella Sfida al labirinto:

Se in fondo Pavese si può valutare completamente soltanto ora, il suo aver vissuto questi temi [quelli della realtà industriale, del contrasto città-campagna etc.] come precorritore isolato fa sì che sentiamo quanto siano stati lunghi e decisivi i dodici anni che ci separano dalla sua morte e già tanti suoi aspetti [...] ci appaiono ormai con l’inconfondibile colore dell’epoca; e già il fatto di poterlo ora riconoscere e definire ci prova che siamo entrati in un’epoca diversa.

Anche Essere e fare, nonostante lo sforzo di ribadire il valore letterario e umano di Pavese, finisce per confinarlo in una dimensione storica ormai definita e quindi per allontanarlo dalla realtà contemporanea:

Pavese appartiene a una stagione della cultura mondiale tesa a integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia. Una stagione di cui la morte dello scrittore piemontese pare segnare un limite cronologico. Difatti, dobbiamo dire che in questi dieci anni, se la fortuna di Pavese ha continuato ad allargarsi, le possibilità d’influsso della sua lezione sulla letteratura contemporanea paiono essersi rapidamente ristrette.

“Integrare l’esperienza esistenziale con l’etica della storia” è esattamente lo scopo del Calvino dei primi anni. Riconoscere tale progetto come facente parte di una stagione ormai cronologicamente lontana ha il senso di un’acquisizione di coscienza: i tempi sono cambiati e la fiducia, rivelatasi semplicistica, nella possibilità di un’azione diretta degli intellettuali sulla politica cederà sempre più il passo a un’inquieta esplorazione di territori letterari e culturali, a quell’attitudine di perplessità sistematica che d’ora in poi segnerà l’opera di Calvino.
[...]
L’ultimo intervento di un certo impegno sull’opera pavesiana è la cura dell’edizione dell’intero corpus poetico, che uscirà presso Einaudi nel ‘62.
[...]
Al 1965 risale uno scritto su La luna e i falò (Pavese e i sacrifici umani, “Revue des études italiennes”, avril-juin 1966; ora in Saggi, Meridiani Mondadori, 1995, pp. 1230-33). Le riserve sull’ultima opera pavesiana, accennate nel saggio del ‘60, vengono qui esplicitate: il romanzo gli sembra fin troppo “fitto di segni emblematici, di motivi autobiografici, di enunciazioni sentenziose”, privo di quell’allusività e reticenza che erano il fascino della prosa di Pavese. Ma la maggior novità sta nel concentrare l’analisi sul nucleo mitico, antropologico attorno a cui l’opera ruota (non che tale aspetto fosse assente nei saggi precedenti, ma qui esso diventa il nodo centrale della lettura critica): il contrasto e insieme la compresenza della “storia rivoluzionaria” (la guerra, la Resistenza) e dell’ “antistoria mitico-rituale” (i “falò” del titolo). Qui sta forse il nocciolo segreto e irrisolto del romanzo:

Il tono di Pavese quando accenna alla politica è sempre un po’ troppo brusco e tranchant, [...] come quando tutto è già inteso [...]. Non c’era nulla di inteso, invece, il punto di sutura tra il suo “comunismo” e il suo recupero d’un passato preistorico e atemporale dell’uomo è lungi dall’essere chiarito. Pavese sapeva bene di maneggiare i materiali più compromessi con la cultura reazionaria del nostro secolo [...].
L’uomo che è tornato al paese dopo la guerra registra immagini, segue un filo invisibile d’analogie. I segni della storia [...] e i segni del rito [...] hanno perso significato nella labile memoria dei contemporanei.

Siamo ormai lontanissimi dal Pavese tutto “attaccamento appassionato alla vita” di vent’anni prima, come anche dal Pavese in bilico tra ermetismo ed engagement di Natura e storia nel romanzo; si inizia invece a intravvedere il Calvino che di lì a poco comincerà a interessarsi della “critica archetipica” di Frye e dell’antropologia strutturale di Lévi-Strauss.
L’anno seguente, i risvolti di copertina all’edizione delle Lettere sanciranno definitivamente la distanza storica del Pavese uomo e scrittore:

Alla svolta di quel 1950 che ci appare già una data d’altro secolo, s’intravede come uno scorcio di quella che sarà un’epoca più tarda, l’Italia insoddisfatta e nevrotica degli anni ‘60. [...] Il breve 1950 di Pavese è come un’incursione che quest’abitante di tempi duri compie nel futuro, nel mondo “facile” che abitiamo noi oggi, per sapere cosa si prepara. Ci fa visita, si guarda intorno rapido. E non gli piace. E se ne va.

lunedì 9 marzo 2009

non so voi...

... ma io raramente ho visto qualcosa di più inquietante.

domenica 8 marzo 2009

la nostra civiltà è al punto di non ritorno

da Yahoo Notizie:

Milano, 8 marzo 2009 -
"A Milano sono stata diverse volte per promuovere la mia linea di abbigliamento e anche per andare a vedere qualche sfilata. La trovo una città bellissima, vivace con tanta gente simpatica. Ma quello che non capisco è perché ci sia cosi poca vita notturna rispetto alle altre capitali europee".
Paris Hilton, la miliardaria ereditiera ora diventata stilista, non ha dubbi sul fatto che Milano non abbia nulla da invidiare alle altre grandi città, almeno di giorno. "Sembra che la gente pensi solo a lavorare e poco a divertirsi. A me piace stare sveglia anche fino alle sette del mattino e li di martedì è difficile". E la rivista Metropolitanpost che raccoglie le confidenze della nipote dellex patron della catena Hilton.
"Quando uno va in Italia pensa che gli italiani siano superficiali e pensino solo a divertirsi, ma chi va a Milano capisce che non è cosi, gli italiani lavorano tantissimo, lo dice anche Victoria Beckham".
Comunque Paris salva i locali che ha frequentato: "Sono molto eleganti e curati. Ad esempio il Nobu, il Gold e l'Armani Cafe, solo ne vorrei molti di più. A differenza delle città americane a Milano il centro di notte si svuota. I pochi che rimangono aperti però sono molto piacevoli".
[...]
"L'apprezzamento alla Milano di giorno di Paris Hilton non può che farmi piacere, significa che in questi anni l'amministrazione sta svolgendo bene il suo lavoro mettendo la città al pari delle grandi metropoli mondiali", ha risposto sempre al Metropolitanpost Giovanni Terzi, assessore allo sport e al tempo libero di Milano. "Non le si può dare torto però per i suoi giudizi sulle notti milanesi. Ma anche a questo stiamo cercando di porre rimedio con il programma After Midnight. Un progetto che ha lo scopo di ridare alla città una vitalità notturna che sempre, in anni passati, le è appartenuta. L'obiettivo - ha concluso Terzi - è creare, in accordo con gli esercenti e con tutte le parti coinvolte, una vita notturna regolata capace di soddisfare le esigenze di chi la notte lavorerà e di chi vorrà divertirsi".

otto marzo


Un po' in zona Cesarini, ma faccio in tempo a postare un piccolo omaggio alla Festa delle Donne.
La canzone è di Chico Buarque, la canta uno dei personaggi più bizzarri della scena musicale brasiliana (e non sto a spiegare il perché dell'aggettivo: guardate il video), Ney Matogrosso.
Di seguito la traduzione.



Mulheres de Athenas

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
vivono per i loro mariti
orgoglio e razza di Atene

Quando sono amate si profumano
si bagnano con il latte, si acconciano
i lunghi capelli
quando sono fustigate non piangono
si inginocchiano chiedono implorano
le più dure pene
catene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
soffrono per i loro mariti
potere e forza di Atene

Quando i mariti si imbarcano come soldati
loro tessono lunghe tele ricamate
mille quarantene
e quando tornano, assetati
vogliono dare, violenti,
carezze piene,
oscene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
si mettono da parte per i mariti
bravi guerrieri di Atene

Quando i mariti si ubriacano di vino
sono abituati a prendere una carezza
di altre falene
ma alla fine della notte, ai piedi
quasi sempre tornano, per le braccia
delle loro piccole
Elene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
generano per i loro mariti
i nuovi figli di Atene

Non hanno gusti o volontà
né difetti, né qualità
hanno soltanto paura
non hanno sogni, solo presagi
i loro uomini, mari, naufragi,
belle sirene
dalla pelle scura

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
temono per i loro mariti
eroi e amanti di Atene

Le giovani vedove segnate
e le gestanti abbandonate
non fanno scene
si vestono di nero, si stringono,
si conformano e si ritirano
alle loro novene
serene

Guardatevi nell'esempio
di quelle donne di Atene
appassiscono per i loro mariti
orgoglio e razza di Atene

recensioni in pillole 8 - canto latino


Giancarlo Mei, "Canto latino. Origine, evoluzione e protagonisti della musica popolare del Brasile",
Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, 2004, € 22


Io pensavo di conoscerla, la musica brasiliana. Perché ascoltavo Ernesto Nazareth e Noel Rosa, Pixinguinha e Adoniram Barbosa, Paulinho Da Viola e Virginia Rodriguez, Joyce e Leny Andrade, e Tom Zé, e il Quarteto em Cy, Moacir Santos, Rosa Passos, Guinga e Marisa Monte, e poi Hermeto Pascoal, Egberto Gismonti, Daniela Mercury, Rita Lee.
Pensavo: altro che i soliti (seppur grandissimi) Jobim e Joao Gilberto e Caetano Veloso e Jorge Ben e Chico Buarque.
La lettura di questo libro è stata una salutare doccia fredda.
In meno di 300 pagine Mei riesce a tracciare un panorama della MPB (Musica Popular Brasileira) allo stesso tempo dettagliato e agile. Dopo una rapida scorsa alla storia del Brasile dal XVI al XIX secolo, il libro prende le mosse dalla metà dell'Ottocento, quando cominciano a nascere i primi stili autoctoni (lundu, modinha, serestas, choro, tango brasilero) e si spinge fino alla fine degli anni '90, con la scena elettronica, i cantautori dell'ultima generazione come Lenine e Bebel Gilberto, il successo internazionale dei Tribalistas. Oltre un secolo e mezzo di evoluzione artistica, che ha prodotto una delle culture musicali più ricche, complesse ed entusiasmanti del mondo.
Decine di stili e centinaia di nomi sfilano davanti al lettore, che alla fine del libro trova anche una discografia accurata ma non eccessivamente voluminosa.
Utile a chi si avvicini per la prima volta all'universo musicale brasiliano, ma anche per chi, come il sottoscritto, di quell'universo ha - o crede di avere - una qualche conoscenza.
Al libro è allegato un cd che contiene dieci brani tratti da "Gafieira moderna", uno dei più bei dischi della cantautrice Joyce.

sabato 7 marzo 2009

storia del jazz con l'espresso

All'Espresso in edicola questa settimana è allegato il primo volume della "Grande storia del jazz".
Nell'ultimo paio d'anni Espresso e Repubblica hanno distribuito parecchio jazz, quasi sempre dischi di buona o ottima qualità, anche se non esenti da difetti (tanto per dire il più macroscopico, i nomi erano sempre quelli: quelli del solito giro, intendo, e chi bazzica un po' il jazz capisce a che cosa alludo).
Stavolta si tratta di una serie di 12 volumi, ognuno consistente in un cd e un dvd con libretto allegato, al prezzo di 9,90 € (più il prezzo della rivista).
Il cd contiene brani arcinoti (West End Blues di Armstrong, Maple Leaf Rag di Joplin, King Porter Stomp di Morton, eccetera), e quindi probabilmente già presenti nella discoteca di qualunque appassionato, ma può essere un buon inizio per chi si avvicini a questa musica per la prima volta; il libretto è preciso ma molto sintetico.
Quel che vale il prezzo dell'acquisto è il dvd, tratto dal documentario "Il jazz: istruzioni per l'uso", realizzato dalla regista Elena Somarè con la collaborazione di Massimo Nunzi, trombettista, arrangiatore, compositore, direttore d'orchestra tra i migliori in Italia, ma anche ottimo didatta, che da anni tiene corsi di storia del jazz e guida all'ascolto.
Il dvd ha un taglio divulgativo ma per niente superficiale e si avvale della collaborazione di musicisti (Pieranunzi, Fresu, Mirabassi, Rava, Di Battista, Rea, Trovesi...) e di critici e musicologi di indiscusso valore (Luigi Onori, Marcello Piras, Gianfranco Salvatore, Maurizio Franco...), con testimonianze anche di appassionati illustri come Stefano Benni, Pupi Avati, Remo Remotti o Valentino Zeichen.
Alterna spiegazioni storiche, immagini riprese nei luoghi originali (New York, New Orleans), interviste agli artisti e ai critici.
Insomma, da questo primo volume sembra davvero un prodotto di ottimo livello.
(continua qui e qui)