Tutto torna, tutto cambia. Il Sole esce dalla Vergine ed entra nella Bilancia, oppure abbandona i Pesci per avvicinarsi all'Ariete. Le stagioni declinano e risorgono, le foglie virano verso le varie gradazioni di giallo o di verde, a seconda.
Amo i cambi di stagione: quando le giornate si allungano dopo il buio invernale e gli umori ricominciano a fermentare e ribollire, o quando i primi freschi dell'autunno purificano lo spirito dal languore estivo.
Ma si tratta di un amore masochistico. Ogni anno, appena la bella stagione comincia o finisce, mi trovo ad affrontare un'ammutinamento dei neuroni. Il mio organismo ci mette qualche giorno (se va bene) ad abituarsi al nuovo clima, il cervello molto di più. Per dirla brutalmente, in questi giorni sono del tutto rincoglionito e incapace di concentrarmi. Però che bello. La mente è leggera, e il malessere fisico è compensato da un rinnovato rigoglio dei sensi, acuti come non mai, tesi verso l'esterno come vibrisse.
Poi, in questa stagione, amo particolarmente i pomeriggi. Anzi, i pomeriggi li amo sempre, perché le ore tra il pranzo e la cena sono le meno produttive della giornata, dal punto di vista lavorativo, ma le più attive sul piano fantastico. Il pomeriggio ha sempre stimolato la mia più intima natura di
flâneur. Da ragazzo adoravo i pomeriggi d'estate, quella che al Sud si chiama la controra, le ore infuocate in cui il solleone arroventa i selciati; passavo pomeriggi interi a girare per i vicoli deserti, silenziosi, echeggianti, pieni solo del profumo dei panni stesi.
Ora il fisico non è più quello di una volta, la pressione ogni tanto sbalza, e quindi preferisco i pomeriggi di aprile, all'inizio della primavera, o – come adesso – quelli di settembre, quando l'autunno comincia a dare i primi segnali. Amo le città, le strade trafficate, quanto più anonime tanto meglio. È lì che passa la vita, ma solo chi sa guardare se ne accorge.
Nelle ore finali del pomeriggio, quelle in cui le ombre hanno appena iniziato ad allungarsi, la luce assume spesso una consistenza tiepida e netta, avvolge gli oggetti e li fa splendere nitidi come in un paesaggio fiammingo. È l'ora ideale per uscire. Il rincoglionimento del pomeriggio, combinato con il rincoglionimento del cambio di stagione, produce un senso di piacevole ebetudine, una frizzante sensazione di leggera follia. Le prime brezze fredde sgusciano sotto la maglietta strofinandosi contro la pelle nuda. Si potrebbe camminare all'infinito, solo che poi arriva l'ora funebre del tramonto, quel confine di penombra che separa la luce apollinea del giorno dal buio utero della notte. Allora si inverte la rotta, si guadagna la soglia di casa, si chiude fuori l'oscurità che sta inghiottendo il mondo e ci annusa i calcagni come un cane rognoso.
Tutto cambia, però. Prima passeggiavo seguendo i miei piedi, ora sono i miei piedi a seguire un passeggino nel quale è alloggiato un minuscolo essere, che comincia ad affermare imperiosamente la propria presenza: canta, strilla, scalcia, pretende di fermarsi quando vede altri bimbi.
La osservo mentre collauda le membra ancora nuovissime, prende le misure del mondo.
Anche lei, in fondo, sta solo seguendo i suoi piedi; solo che per lei la strada è ancora una mappa tutta da svelare. Io ripeto un copione, lei lo recita per la prima volta ed è ancora convinta che l'universo sia un immenso pacco regalo e che basti solo scostare un po' di carta crespata per impadronirsene.