giovedì 7 novembre 2019

recensioni in pillole_libri letti, finalmente

Italo Alighiero Cusano, L'ordalia, Rusconi, 1979, 189 pp.

Sentii nominare per la prima volta questo libro non so più quanti anni fa (venticinque? trenta?), leggendo la recensione di un altro libro, a cui questo veniva paragonato. Mi incuriosii e mi segnai il titolo, ma per il momento finì lì. Chiusano (1926 - 1995) lo ritrovai durante i miei studi universitari, nelle vesti di critico e fine germanista. Una volta, una ventina d'anni fa o forse più, provai a prendere in prestito il libro in biblioteca, ne lessi qualche pagina, ma chissà perché non mi prese. Lo riportai indietro.
Infine mi sono deciso: l'ho ordinato usato su internet e l'ho letto. E devo dire che valeva la pena.

Siamo a Roma, nell'anno 995. La corte pontificia è un covo di vipere, i romani più che al papa obbediscono al nobile Crescenzio Nomentano, e in più c'è il nuovo imperatore, Ottone III, quindicenne, che pare voglia restaurare l'Impero e ricondurre i romani all'obbedienza.
Il giovane Runo è uno scrivano presso la corte pontificia. Già disgustato per la corruzione degli ecclesiastici, finisce per fare una scoperta sconvolgente: la Donazione di Costantino è un falso. La sua vocazione, già vacillante, crolla.
Runo torna presso i genitori, agricoltori della Tuscia, ma scopre che sono morti entrambi e che il feudatario ha assegnato il podere a un nuovo colono. Ormai senza meta, si unisce a un santo eremita, Petro, e comincia a vagare per l'Italia, sempre custodendo il suo segreto, che se rivelato potrebbe far tremare le fondamenta del potere temporale dei papi.
Nel suo vagabondaggio si innamorerà di una signora bizantina crudele e perversa, entrerà nelle grazie di Arduino d'Ivrea, vescovicida e futuro re d'Italia, si unirà a una comunità di profughi senza padrone, conoscerà un bogomilo greco e un sapiente musulmano, si sposerà, avrà un figlio. Ma la sua coscienza lo porterà a tentare un'impresa quasi folle: rivelare il falso all'imperatore, perché estirpi alle radici il male dalla Chiesa.

Bel romanzo storico, intessuto con sapienza e scritto con mano sicura, intriso di cristianesimo militante. L'Alto Medioevo, poi, è un'età che mi ha sempre affascinato.
Il libro, comunque, è del 1979, all'epoca fu finalista al Campiello ed è stato probabilmente tra le fonti ispiratrici di Eco per Il nome della rosa, ma non viene ristampato da almeno una trentina d'anni.

lunedì 4 novembre 2019

recensioni in pillole_uomini e cani

J.M. Coetzee, Vergogna, La biblioteca di Repubblica, 2003, 221 pp.; traduzione di Gaspare Bona
(ed. orig. Disgrace, 1999)

Ho avuto questo volume sullo scaffale per più di quindici anni, ma solo ora mi sono deciso a leggerlo, spinto da un impulso che neanch'io saprei spiegare. E lo confesso: raramente ho letto un libro che riesca ad affondare così spietatamente nella realtà e ad essere, allo stesso tempo, così potentemente simbolico.
Siamo in Sudafrica, intorno alla metà degli anni Novanta. David Lurie è un professore di mezza età, che insegna letteratura presso l'Università di Città del Capo. È un uomo mediocre, annoiato, che non ama il suo lavoro. In passato ha avuto un certo successo con le donne, si è sposato due volte e altrettante ha divorziato. Ora è solo e si arrangia con il sesso a pagamento. La sua vita, comunque, nel suo grigiore, può definirsi per lui abbastanza soddisfacente.
Finché un giorno conosce Melanie, una studentessa trent'anni più giovane di lui (e di colore, ma l'etnia nel libro è spesso lasciata indovinare, più che enunciata). David seduce Melanie e se la porta a letto; ma fa anche di peggio: morbosamente invischiato in quella passione senile, continua a ronzarle intorno, finché lei non lo denuncia alla facoltà per molestie sessuali.
Scoppia uno scandalo: David, esposto alla pubblica gogna, viene cacciato con ignominia dall'Università. Si rifugia da sua figlia Lucy, che anni prima se n'è andata a stare in una sorta di comune hippy e ora si guadagna da vivere gestendo una piccola azienda agricola e tenendo in custodia cani.
Con lei, David sembra trovare, se non la serenità, almeno un modo di sopravvivere: aiuta come può nei lavori agricoli e si impegna come volontario in una clinica veterinaria, il cui principale compito è somministrare l'eutanasia ai cani malati o abbandonati. Nel tempo libero, si dedica a scrivere il libretto di un'opera lirica che dovrebbe avere per soggetto gli anni italiani di Byron.
Ma anche questa relativa pace dura poco: tre malviventi (anch'essi di colore) si introducono in casa, stuprano la figlia e cercano di bruciarlo vivo cospargendolo di alcol. Anche qui David si rivela inadeguato: non è riuscito a proteggere sua figlia; non riesce a provare i suoi sospetti circa il coinvolgimento del bracciante nero che li aiuta nella fattoria; non capisce l'atteggiamento di Lucy, che sembra accettare il fatto con rassegnazione e fatalismo. Cerca di chiedere scusa alla famiglia della studentessa che ha sedotto, ma tutto si risolve in un'imbarazzante brutta figura.
Alla fine, dovrà accettare anche la gravidanza di Lucy, rimasta incinta dallo stupro, e la sua ambigua relazione con Petrus, il bracciante nero che si impossesserà delle sue terre.
Lo stile di Coetzee è apparentemente asettico, ma riesce a raccontare con straziante semplicità anche le realtà più sgradevoli: la morte degli animali, lo squallore delle vite sprecate. Sullo sfondo della vicenda c'è il Sudafrica subito dopo la fine dell'apartheid: i rapporti non pacificati tra bianchi e africani, la violenza diffusa, il divario tra i miserabili (perlopiù neri) delle baraccopoli e la borghesia urbana.
David, uomo d'altri tempi, si confronta con sua figlia, che rappresenta la nuova generazione sudafricana. Lui ha sedotto una donna nera, lei è stata stuprata da un nero e forse ne sposerà un altro.
Alla fine, egli non può che subire il suo destino, alla deriva in una realtà che non capisce più. Così come – lui che si era definito “schiavo di Eros” – accetta il declino del suo corpo, la vecchiaia che uccide il desiderio. Le sue controfigure sono la protagonista della sua opera (Teresa Guccioli, l'ex-amante di Byron, che ormai vecchia e ingrassata vive nel ricordo della passione d'un tempo) e il povero cane randagio che gli si affeziona nei suoi ultimi giorni di vita, prima di essere ucciso e incenerito tra la spazzatura.
"Forse è una lezione da accettare", commenta Lucy. "Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un'arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità".
"Come un cane."
"Sì, come un cane".
Un finale che si salva dal nichilismo perché intriso di una profonda pietà.