"[Il libro X] elogia il terzo, il testimone che non tace più e accede alla coscienza del molteplice. Un terzo che tuttavia è capo, a-capo del verso: l’interlocutore principale e insieme il detentore della parola. Cosa succede in quella cruna è svelato e ri-velato
nella scrittura di *** che, con magistrale capacità endoscopica,
dipana tutti i fili, uno ad uno – quelli difficili da dividere e quelli
che sono sull’orlo di spezzarsi, quelli mischiati alla tattilità del
corpo e quelli legati agli indugi dell’Altro. Una parola che scheggia il
guscio dell’ordito e ne fa intravedere il senso che poggia
sulla polvere, l’intenzione. Non c’è linearità ma esattezza circolare
del procedere per domande e definizioni. Le Parche sono sempre lì, a
reclamare attenzione e a custodire il cammino prodigioso del capo e
della coda. Le maglie scandiscono il tempo che fagocita i fiori
per restituirli al coro solitario dell’essere che non si basta e che si
rassegna a dirsi in molti modi; il punto è che però quel ti estì è in mano propria seppure apparentemente si chiami con altri nomi.
È il chi infatti – e non il cosa.
Il percorso lento procede in alterco con se stesso ed è in questo stretto passare che chi detiene la parola sem(in)a
nelle forme dell’armonia. In questa sua nuova amalgama però (che è ogni
volta monito di rara bellezza) sembra che la parola poetica di *** acquisti una rinnovata compiutezza, quasi un sollievo dettato da
quell’abisso innato che fa da sfondo e in cui ci si riconosce come soffio. Si accetta il tradimento dell’imprevedibile confessando la necessità dell’erranza: la cifra che mantiene vigili sulla sopraffazione dell’agguato. Sempre nella cartografia crudele del thumos desiderante.
Tutto avviene senza accadere – sì."
(Giuro che è vera, non me la sono inventata io)
(L'immagine in alto è tratta da "Pompeo" di Andrea Pazienza)
(L'immagine in alto è tratta da "Pompeo" di Andrea Pazienza)
18 commenti:
Quello che citi tu aveva fatto una scorpacciata di Derrida e ancora non l'aveva digerito. È capitato a tanti, perfino a me, per dire.
Ammiro invece una volta di più la chiarezza nella complessità di Serpieri.
scendiamo in piazza
e diciamo alla poesia
o sei bella
o sei pazza.
o brutta
o assoluta.
e basta.
@marco
io di post-strutturalismo francesce ho assaggiato poco, e quel poco è bastato a immunizzarmi per sempre.
su Serpieri, posso anche essere d'accordo, però la tavola di Paz, con quel salto di registro finale, era troppo bella per non citarla.
il thumos desiderante me lo segno
manca la traduzione :D
manca perché non esiste
come no !? :D
Quando si riporta un brano, sia pure a fini parodistici come fai tu, onestà intellettuale e netiquette imporrebbero di citare l'autore e la fonte, dando modo a chi legge di farsi un'idea del tipo di operazione che si sta conducendo. In caso contrario, che è esattamente il tuo, non si fa altro che masturbarsi in pubblico per far vedere agli amici quanto l'abbiamo lungo.
Giggi Marluzzo
masturbazione per masturbazione...
(e comunque, esiste un comodissimo strumento che si chiama Google: mai sentito?)
Il post l'hai scritto tu, non google, sei tu che dovresti spiegare perché quella non è una pagina critica e perché, di conseguenza, non è poesia l'opera a cui si riferisce.
Fare blog come fai tu, prendendo frasi decontestualizzate per ricamarci sopra un titolo e un commento che alludono a una presunta verità in materia posseduta da chi scrive, è un esercizio retorico, inutile, infantile e narcisistico, che serve solo a titillare l'amor proprio e la spocchia intellettuale dell'autore.
Saluti.
Giggi Marluzzo
Giggi, provo a spiegartelo con calma, vediamo se ci capiamo.
Ho tolto titolo e autore perché non mi interessava attaccare né l'autore della critica (che non conosco) né il poeta in questione (che, anzi, conosco e stimo). Tanto per capirci, non ho mai detto che "non è poesia l'opera a cui si riferisce": quella è una tua deduzione. Sbagliata. Io non l'ho detto.
Invece, è vero che, secondo me, quella non è una pagina di critica.
Quel che mi interesava era puntare il dito su un certo modo di fare (pseudo)critica letteraria, e in particolare (pseudo)critica di poesia, accumulando frasi oracolari e sibilline, finto-derridiane, ma completamente vuote di contenuto.
Questo - ed ecco il motivo del titolo - è, secondo me, uno dei principali motivi per cui oggi non si legge più poesia: perché i poeti si sono rinchiusi in una conventicola, e i critici li hanno seguiti.
Secondo la mia modesta opinione, un poeta ha il diritto di essere oscuro, un critico no. Un critico deve essere chiaro. Altrimenti risulta, lui sì, autoreferenziale, masturbatorio, infantile, narcisistico e via dicendo.
Ti risulta più chiaro, adesso?
Mi chiederai: perché non l'hai detto a chiare lettere? Per due motivi.
Primo, perché secondo me era più efficace così, detto con un po' d'ironia, e senza attacchi ad personam (tu avresti voluto che facessi nomi e cognomi? mi dispiace, ma non mi interessa, non era ciò che volevo dire io).
Secondo, perché ho una grande fiducia nell'intelligenza umana e confido sempre che uno, prima di scrivere un commento, si fermi un attimo a ragionare e si chieda se per caso non ha preso lucciole per lanterne. Tu l'hai fatto? Mi sa tanto di no.
Dove poi tu abbia letto l'allusione a una "presunta verità in materia" posseduta da me, ti giuro, proprio non lo so. Di sicuro, non nel mio post. Azzardo: nella tua fantasia?
A proposito: il post, ovviamente, va letto in filigrana con l'immagine che lo accompagna. La reazione del personaggio di Pazienza di fronte all'astrusa pagina di critica che sta leggendo è esattamente la reazione che, secondo me, sarebbe sano avere di fronte alla vuota pomposità della pagina che ho citato, e di tante simili che impestano le pagine di critica letteraria.
Pasquandrea,
non sono certo le “intenzioni” a fare testo, fossero anche le più nobili, ma è la carta che “canta”, in questo caso il “tuo” post: il titolo e la chiosa sono illuminanti e autorizzano, senza nessuno sforzo di fantasia, le deduzioni che ne ho tratto.
Se tu dici: “questa non è critica letteraria, ma un’accozzaglia di parole senza nessun senso e significato”, oltre ad offendere il lavoro di uno studioso mettendone in ridicolo (col tuo “elegante” e “distaccato” modo di fare) quattro frasi avulse dal saggio che le contiene, stai anche affermando una tua teoria della critica, un “dover essere” che dai per scontato nella prassi di chi approccia una pagina letteraria. E che la tua visione sia una verità di fatto, lo confermi con i successivi commenti, visto che addebiti a queste scritture “(pseudo)critiche” la mancata ricezione e diffusione dell’oggetto poetico in quanto tale. Sei uno che ha le idee più che chiare, allora, tanto sulla critica che sulla poesia; peccato che poi dimentichi (volutamente) che è il testo poetico in sé (la sua natura, le sue qualità strutturali, gli input di poetica ai quali risponde) a determinare un tipo di analisi (e di scrittura) piuttosto che un altro.
Non so se ti rendi conto della “parzialità” dell’assunto che propugni (anche senza esplicitarlo, ma “in filigrana”, tanto per usare la tua terminologia): una parzialità ben strana, soprattutto in un cultore e studioso di musica jazz, quale sei, il quale sa benissimo come, in quella “estetica”, convivano pacificamente, senza pregiudiziali ed esclusioni, poetiche e linguaggi (apparentemente) distanti anni-luce, e vi si trovino tanto il fraseggio lineare e popolare(ggiante) quanto le più ardite sperimentazioni concettuali, e questo sia a livello di “realizzazioni” musicali che sul piano delle teorizzazioni e dell’analisi critica.
Ma poi, dimmi: tu, prima di leggere un libro di poesia, vai a sfogliarti gli apparati e i repertori critici che trovi su quel testo e quell’autore, o cerchi di penetrare nei versi con la tua sensibilità e col carico di “esperienza” che distingue la “tua” lettura dalle infinite altre possibili? E se è la seconda opzione quella che (sperabilmente) prediligi, perché mai un’analisi critica quale che sia, che puoi benissimo legittimamente ignorare, dovrebbe tenerti, in quanto lettore, lontano dalla fruizione della poesia? Non trovi di essere contraddittorio quanto basta nel mescolare i diversi piani del discorso, e solo per avvalorare la tesi che espliciti nel titolo?
E, contraddizione per contraddizione:
1) Come fai ad accusare qualcuno di “qualcosa” - “(pseudo)-derridiano” -, quando appena un attimo prima hai detto a chiare lettere di ignorare, o quasi, quel “qualcosa” (Derrida)? Non ti sembra di viaggiare a frasi fatte e di conglobare in un aggettivo usato in modo “elegantemente” sprezzante (“derridiano”) esattamente quanto non conosci e non comprendi, o fai finta di non conoscere e non comprendere?
2) Dici che non hai voluto personalizzare il discorso e hai omesso il nome del critico, che non conosci: ma averlo conosciuto ti avrebbe fatto desistere dal confezionare il post, o avresti cercato un altro soggetto? E nel momento in cui mi rimandi a google, non mi stai facendo, comunque, nome e cognome dell’indiziato dei “misfatti” che gli addebiti?
3) Conosci invece l’autore dei testi (che “stimi”)… Non trovi quanto meno “strano” che quel poeta (che “conosci” e “stimi”) abbia pensato proprio a “quel” critico per l’introduzione al suo libro, ritenendolo in grado, come pochi altri, di illustrare le ragioni profonde del suo lavoro? Leggere quel tipo di critica, poi, ti ha per caso impedito di apprezzare il libro in sé? Immagino di no, visto che quel poeta tu lo “stimi”. E allora, se quella scrittura critica, tutta insulsa e pseudo “questo e quest’altro”, non ti ha impedito di leggere e apprezzare un libro, perché avrebbe dovuto avere l’effetto contrario sugli altri, cioè il potere di tenere i lettori lontani dalla poesia?
Buone cose.
Giggi Marluzzo
Giggi,
le tue deduzioni non sono affatto autorizzate e richiedono, anzi, un notevole sforzo di fantasia, della quale mi pare tu non manchi.
Quanto alle mie opinioni: certo, sono parziali e personali quanto quelle di qualunque altro. Ho mai sostenuto il contrario? Il fatto stesso che le pubblichi qui, sul mio blog, e non sulle pagine di una rivista "ufficiale", dovrebbe bastare a qualificarle come tali.
Quanto al paragone con il jazz, mi pare che a te continui a sfuggire il mio punto fondamentale: l'artista ha tutto il diritto di essere oscuro e sperimentale quanto gli pare. Può essere Armstrong e può essere Braxton, è nel suo pieno diritto. Invece, è il critico, per come la vedo io, ad avere il dovere della chiarezza (e per "critico" intendo il lettore-professionista, quello che esercita il suo mestiere sulle pagine delle riviste o dei siti specializzati; ossia quello he faccio io quando scrivo sulle pagine dei giornali).
Non sei d'accordo? Padronissimo. Ma non accusare me di "mescolare i diversi piani del discorso", quando sei tu che lo stai facendo.
Sulle ragioni per cui non ho fatto nomi, mi pare di essere stato chiaro: perché l'attacco ad personam è infantile e (per riprendere la tua elegante terminologia) masturbatorio. Non mi interessa attaccare la persona, ma un modo di fare critica.
Sulle ragioni per cui quel poeta si è scelto quel critico, non metto bocca: avrà avuto i suoi miotivi. Rimango però della mia opinione, che non ti ribadisco perché mi sembra già abbastanza chiara.
Condivido la posizione di Sergio.
Ma riconosco che Giggi sa scrivere in maniera sufficientemente chiara da lasciar capire che ha proprio torto e un po' la mena; e questo lo trovo comunque un pregio che molti critici non possiedono.
:)
db
Ragionando intorno a questioni del genere è inevitabile che ciascuno porti nel discorso le proprie opinioni; non ci sono Verità definitive. E spesso anche nell'opinione contraria si possono individuare spunti e aspetti condivisibili (che possiamo ritenere magari sviluppati male).
Ciò premesso, dico la mia... Ritengo che la critica, come opera di analisi e di interpretazione, di esegesi, di filologia (...eccetera), abbia il dovere di essere chiara: certo, quando l'argomento da analizzare è complesso, non bisogna banalizzarlo, ma essere chiari non significa essere superficiali. Il contrario di banale e di superficiale non è ermetico o involuto. So che ci sono schiere di sostenitori del periodare e dell'argomentare barocco e involuto, ma quella di costoro è appunto - come la mia - un'opinione, o se si vuole una presa di posizione, insomma una delle modalità possibili dello scrivere e dell'essere; e che sia la migliore è ancor tutto da dimostrare.
Se vogliamo mostrare qualcosa agli altri - il nostro pensiero, la nostra esegesi di un'opera letteraria, ecc. - dobbiamo fare in modo che gli altri, leggendoci, seguano il nostro argomentare e non siano costretti a rimanere di continuo sospesi e perplessi, indotti all'apnea dai nostri ghiribizzi e barocchismi. Vogliamo dimostrare ad ogni costo di essere i più bravi, gli ineguagliabili? Mi spiace, ma non penso che sia questo il ruolo della critica, e neppure del pensiero... In quel modo di "periodare" e argomentare traboccante di gergo settoriale, pomposamente ermetico, non sempre percepisco vera sostanza, filo da tessere (quando lo trovo, lo rispetto comunque: rispetto sempre l'intelligenza di chi scrive): il più delle volte non vi scorgo che una dose indigesta di narcisismo, l'autocompiacimento di chi gioca con il proprio argot professionale o professorale e strizza l'occhio ai pochi suoi "pari", riservando a poche "anime elette" i propri virtuosismi come se si trattasse di un dono raro dal quale si devono tener lontani i "plebei", i comuni mortali-lettori che non hanno diritto a pascersi di cotanto sapere (e neppure delle sue briciole!).
Forse sono essenzialmente un "illuminista democratico" (non mi dispiace esserlo), ma questa supponenza da ancien régime di certi dotti non la sopporto affatto. Sono spiacente, ma per me l'oscurità non è un pregio, anche perché troppe volte serve a camuffare il vuoto del pensiero o l'incapacità di divulgarlo (e quindi l'incapacità di chiarirlo a sé stessi). Protetti dall'oscurità si può essere ottimi "manieristi", capaci di replicare all'infinito i gerghi di determinate "scuole", preservandoli dal rischio di doverli aggiornare e vivificare. Forse ad alcuni piace questo ruolo di "custodi" di "divine fiamme" del sapere (pur quando si presenta in veste di "sapere critico") da conservare nel buio tenace di templi ben protetti; non discuto, ognuno può dedicarsi al compito che preferisce.
Non mi va di fare nomi da "accusare". Quelli che ho visto citati forse non si possono liquidare con una battuta. Alcuni importanti studiosi francesi del Novecento hanno usato indubbiamente un linguaggio difficile, talora ostico, ma in molti casi per costruire e divulgare un'esegesi inedita della società, della cultura, del potere, ecc.: Foucault può essere a tratti "oscuro" ma non è in realtà vuoto o "ermetico". Si può essere d'accordo o in disaccordo coi suoi scritti, ma credo non li si possa "liquidare" con due parole sprezzanti. Discorso analogo si può fare forse anche per Deleuze, Lévinas, Derrida e vari altri (persino con Lacan, che non amo particolarmente). A mio avviso non sono loro il problema, ma i loro vari epigoni e "ripetitori". D'altra parte il pensiero critico è cosa diversa dal "gergo di scuola", che purtroppo in tanti luoghi (virtuali e non) impera.
«Gigi Marluzzo» a questo punto avrà messo in Google una frase qualsiasi dell'estratto che precede e avrà potuto leggere quella prosa nella sua interezza e in contesto. Vorrei sapere se la sua comprensione della poesia che essa correda ne sia uscita migliorata; in fondo di questo si trattava.
Non trovi quanto meno “strano” che quel poeta (che “conosci” e “stimi”) abbia pensato proprio a “quel” critico per l’introduzione al suo libro,
Ma sai quante cose concorrono alla scelta di un prefatoree: dal buon vicinato alla dimostrazione di gratitudine alla cupidigia sessuale. Va poi detto che i poeti, anche quelli veri, quando hanno per le mani i loro versi stampati diventano bestie.
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