La Globe Unity era un'orchestra diretta da Alex von Schlippenbach che riuniva il gotha del free jazz europeo. Io ne facevo parte quando potevo. C'erano Evan Parker, Manfred Schoof, Paul Rutherford. C'era uno dei padri storici, Albert Mangelsdorff. Per non parlare di Peter Brötzmann e Kenny Wheeler. L'orchestra aveva due anime. Anzi due e mezza. Una voleva suonare solo musica improvvisata radicale. L'altra solo composizioni. La mezza era rappresentata da una minoranza che voleva un mix delle due cose, come era logico che fosse. Due lp dell'orchestra erano il quadro perfetto di questa situazione: uno si intitolava
Improvisations, l'altro
Compositions. In quest'ultimo disco, oltre ai membri abituali del gruppo c'erano anche degli ospiti. Uno era Steve Lacy e l'altro il tubista americano Bob Stewart e con questa formazione facemmo una lunga tournée in Oriente: India, Malesia, Indonesia, Hong Kong, Corea e Giappone.
Fin dal primo concerto a New Delhi mi rendo conto che sarebbe stata durissima. Prima del concerto la band si riunisce per stabilire se si suoneranno composizioni o improvvisazioni. La discussione parte in modo molto civile, in inglese, in modo che tutti possano parteciparvi. Gli animi si eccitano, si alzano i toni e la lingua diventa il tedesco. Alex von Schlippenbach, paonazzo, urla e gli si gonfia una vena sulla fronte in modo preoccupante. Manfred Schoof, molto tranquillo, fa: “Ja, ja”. I non teutonici sono tagliati fuori e aspettano il responso. Che arriva, come una condanna a morte: “Tonight we'll play only improvisations”.
L'improvvisazione con una formazione così numerosa è semplicemente un'utopia. Nel nostro caso addirittura una follia, perché la disposizione dell'orchestra, tanto per essere originali e non essere scambiati per una volgare big band, è questa: tutti in semicerchio di fronte al pubblico, in mezzo il basso e la batteria. Il che rende impossibile ascoltare chi suona dall'altra parte della batteria. Anche perché (per motivi etici? filosofici? morali?) non si devono usare i monitor che almeno ci permetterebbero di sentire qualcosa. Il risultato è un caos totale dove uno riesce, tutt'al più, a interagire con il proprio vicino di gomito.
Morale: primo concerto del tour a Delhi. Il giorno dopo la recensione sul giornale più autorevole della città recitava più o meno così: “Ieri sera ho assistito a un evento eccezionale. È stato il più brutto concerto che sia mai stato fatto in questa città e forse in tutta l'India”. Ero pienamente d'accordo. Unica nota positiva, avevo mangiato uno dei più buoni tandoori chicken della mia vita. Un livello mai più raggiunto in tutta la mia storia di fan della cucina indiana. Mi aveva tirato un po' su il morale.
Bombay. Stessa storia. Discussione e poi decisione: stasera compositions. Cioè, era una cosa o l'altra. Lacy, Schoof e io eravamo la minoranza e premevamo per qualcosa che incorporasse e fondesse entrambe le tendenze. Niente da fare. A Bombay compositions. Una noia disumana. Tutto scritto, organizzato, guai a cambiare qualcosa. A quel punto mi dissi: “Prendiamolo come un lavoro. Rassegniamoci a sgobbare duramente un paio d'ore e godiamoci il viaggio che è veramente la fine del mondo”. Ed era veramente la fine del mondo, o per lo meno di quel mondo. Kuala Lumpur, Jakarta, Honk Kong conservavano ancora il fascino e il mistero che ci eccitavano da bambini al solo sentirne il nome. In molti di quei posti sono tornato recentemente. È tutto cambiato. Non c'è più differenza con qualunque grande metropoli occidentale.
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Finalmente il buon senso la vinse sull'ostinazione concettuale dei membri più “gnucchi” e a Tokyo facemmo un bellissimo concerto (era ora!) suonando le composizioni con grande libertà e facendole sfociare in improvvisazioni che poi, in modo naturale, si trasformavano in altre composizioni. Un grande concerto che ricordo ancora con piacere.
Enrico Rava, Incontri con musicisti straordinari, Feltrinelli 2011, pp. 202-205