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martedì 18 ottobre 2011

carla

In quel periodo Carla Bley e Mike Mantler mi chiamarono per partecipare a un paio di sedute d'incisione per il disco Escalator Over the Hill. Un'opera monumentale, su un libretto di Paul Haines, con musiche di Carla, iniziata nel 1968 e terminata nel '72, con la partecipazione di moltissimi musicisti e cantanti, da Linda Ronstadt a Jack Bruce, da John McLaughlin a Don Cherry. Nelle sedute a cui partecipai c'erano, tra gli altri, Dewey Redman, Gato [Barbieri], Jimmy Lyons, Roswell Rudd, Charlie Haden e Paul Motian. Le registrazioni si facevano al Public Theatre, nell'East Village, in Lafayette Street. Carla dirigeva l'orchestra. Era difficilissimo concentrarsi sulla musica perché Carla era veramente bellissima a quei tempi. Aveva più o meno una trentina d'anni, e lunghi capelli biondi. Era alta più di un metro e ottanta e, tanto per renderci la vita difficile, indossava (se così si può dire) una minigonna microscopica che metteva in mostra le sue gambe perfette e lunghissime. Come se non bastasse, aveva una camicetta trasparente, la classica see-through, e non portava reggiseno. Ogni volta che alzava le braccia per dare l'attacco di un pezzo rimanevamo paralizzati dallo spettacolo. Abbiamo fatto parecchie entrate sbagliate prima di abituarci.

Enrico Rava, "Incontri con musicisti straordinari", Feltrinelli 2011, pp. 138-139

lunedì 17 ottobre 2011

celebrità catodica

[A metà anni '80] avevo preso in affitto un appartamento a Torino. La zona era tremenda, proprio dietro la stazione di Porta Nuova. Un quartiere frequentato da spacciatori, malviventi di vario genere, puttane e travestiti, di quelli anziani e con la faccia mal rasata. Il quartiere, che si chiamava San Salvario, non a caso era stato nominato "San Calvario". Piuttosto deprimente. Io però ci stavo bene: era in sintonia con il mio umore di quel periodo [Rava aveva appena divorziato dalla prima moglie Graciela] e poi l'appartamento era molto grande, con i soffitti alti. Una casa di fine Ottocento con i muri spessi. Potevo suonare senza sordina tutto il giorno perché al piano di sopra non c'era mai nessuno. I vicini ogni tanto vedevano la mia foto sul giornale, ma nel complesso non gliene fregava niente. Poi un bel giorno Wanda, la portinaia, esce dal suo gabbiotto insieme a un forte odore di cavoli, mi blocca e comincia: "Complimenti signor Rava!". Due inquilini si fermano e tutti in coro: "Sì, complimenti per ieri sera! Veramente! Siamo fieri che lei viva in questo palazzo!". Il fatto è che non avevo fatto niente la sera prima. Non riuscivo a capire. Poi il mistero venne svelato. In un telequiz Mike Bongiorno aveva chiesto al concorrente: "Che strumento suona il jazzista Enrico Rava?". Non volli indagare se il poveretto avesse o meno indovinato, anche se ne dubito. Di colpo vidi la realtà in tutta la sua tragicità fantozziana: avrei potuto avere un successo enorme al Teatro Regio, anzi alla Scala o alla Carnegie Hall che agli inquilini di via Nizza 27 non si sarebbe smosso un pelo. Venivo menzionato in un telequiz nazional popolare ed eccomi trasformato in eroe.

Enrico Rava, "Incontri con musicisti straordinari", Feltrinelli 2011, pag. 219-220

giovedì 8 settembre 2011

scene dagli anni settanta


La Globe Unity era un'orchestra diretta da Alex von Schlippenbach che riuniva il gotha del free jazz europeo. Io ne facevo parte quando potevo. C'erano Evan Parker, Manfred Schoof, Paul Rutherford. C'era uno dei padri storici, Albert Mangelsdorff. Per non parlare di Peter Brötzmann e Kenny Wheeler. L'orchestra aveva due anime. Anzi due e mezza. Una voleva suonare solo musica improvvisata radicale. L'altra solo composizioni. La mezza era rappresentata da una minoranza che voleva un mix delle due cose, come era logico che fosse. Due lp dell'orchestra erano il quadro perfetto di questa situazione: uno si intitolava Improvisations, l'altro Compositions. In quest'ultimo disco, oltre ai membri abituali del gruppo c'erano anche degli ospiti. Uno era Steve Lacy e l'altro il tubista americano Bob Stewart e con questa formazione facemmo una lunga tournée in Oriente: India, Malesia, Indonesia, Hong Kong, Corea e Giappone.
Fin dal primo concerto a New Delhi mi rendo conto che sarebbe stata durissima. Prima del concerto la band si riunisce per stabilire se si suoneranno composizioni o improvvisazioni. La discussione parte in modo molto civile, in inglese, in modo che tutti possano parteciparvi. Gli animi si eccitano, si alzano i toni e la lingua diventa il tedesco. Alex von Schlippenbach, paonazzo, urla e gli si gonfia una vena sulla fronte in modo preoccupante. Manfred Schoof, molto tranquillo, fa: “Ja, ja”. I non teutonici sono tagliati fuori e aspettano il responso. Che arriva, come una condanna a morte: “Tonight we'll play only improvisations”.
L'improvvisazione con una formazione così numerosa è semplicemente un'utopia. Nel nostro caso addirittura una follia, perché la disposizione dell'orchestra, tanto per essere originali e non essere scambiati per una volgare big band, è questa: tutti in semicerchio di fronte al pubblico, in mezzo il basso e la batteria. Il che rende impossibile ascoltare chi suona dall'altra parte della batteria. Anche perché (per motivi etici? filosofici? morali?) non si devono usare i monitor che almeno ci permetterebbero di sentire qualcosa. Il risultato è un caos totale dove uno riesce, tutt'al più, a interagire con il proprio vicino di gomito.
Morale: primo concerto del tour a Delhi. Il giorno dopo la recensione sul giornale più autorevole della città recitava più o meno così: “Ieri sera ho assistito a un evento eccezionale. È stato il più brutto concerto che sia mai stato fatto in questa città e forse in tutta l'India”. Ero pienamente d'accordo. Unica nota positiva, avevo mangiato uno dei più buoni tandoori chicken della mia vita. Un livello mai più raggiunto in tutta la mia storia di fan della cucina indiana. Mi aveva tirato un po' su il morale.
Bombay. Stessa storia. Discussione e poi decisione: stasera compositions. Cioè, era una cosa o l'altra. Lacy, Schoof e io eravamo la minoranza e premevamo per qualcosa che incorporasse e fondesse entrambe le tendenze. Niente da fare. A Bombay compositions. Una noia disumana. Tutto scritto, organizzato, guai a cambiare qualcosa. A quel punto mi dissi: “Prendiamolo come un lavoro. Rassegniamoci a sgobbare duramente un paio d'ore e godiamoci il viaggio che è veramente la fine del mondo”. Ed era veramente la fine del mondo, o per lo meno di quel mondo. Kuala Lumpur, Jakarta, Honk Kong conservavano ancora il fascino e il mistero che ci eccitavano da bambini al solo sentirne il nome. In molti di quei posti sono tornato recentemente. È tutto cambiato. Non c'è più differenza con qualunque grande metropoli occidentale.
[…]
Finalmente il buon senso la vinse sull'ostinazione concettuale dei membri più “gnucchi” e a Tokyo facemmo un bellissimo concerto (era ora!) suonando le composizioni con grande libertà e facendole sfociare in improvvisazioni che poi, in modo naturale, si trasformavano in altre composizioni. Un grande concerto che ricordo ancora con piacere.

Enrico Rava, Incontri con musicisti straordinari, Feltrinelli 2011, pp. 202-205

giovedì 1 settembre 2011

etica della critica

[Al festival jazz di Sanremo], la sera prima avrebbe dovuto suonare Sonny Rollins con il trio di Stan Tracey. Il trio era arrivato da Londra, ma Rollins no. Non aveva avvisato né niente. Semplicemente non si era presentato. Fino all'ultimo momento gli organizzatori avevano sperato che arrivasse. Niente da fare. Suonò il trio di Stan Tracey senza Rollins. Ma poiché la defezione di Rollins era stata annunciata solo all'inizio del concerto, molti giornalisti avevano già scritto la recensione e l'avevano mandata al giornale (allora le dettavano telefonicamente). Il giorno dopo, i principali quotidiani italiani dedicavano al grande Sonny la prima pagina degli spettacoli: "Trionfa Rollins al festival di Sanremo", "Il re del sax si conferma il più grande!". Alcuni si erano lasciati prendere la mano dall'entusiasmo ed erano persino entrati nei dettagli "...particolarmente pregnante la sua versione di Polka Dots" "...peccato quella caduta di stile con St. Thomas". Insomma, un delirio.

Enrico Rava, Incontri con musicisti straordinari, Feltrinelli 2011, pag. 57


P.S.: l'aneddoto non è datato, ma dovrebbe risalire più o meno al 1966; non che da allora le cose siano cambiate molto, comunque. (Ve lo dice uno del mestiere).