Domenica 30 agosto
Aeroporto Internazionale dell'Umbria
“San Francesco d'Assisi”
Nome pomposo, a cui corrisponde un minuscolo hub sperduto nella campagna umbra, con due gate striminziti da cui partono in media cinque o sei voli al giorno.
Nome pomposo, a cui corrisponde un minuscolo hub sperduto nella campagna umbra, con due gate striminziti da cui partono in media cinque o sei voli al giorno.
Sullo sfondo del Subasio, un aereo
muove l'alettone di coda da una parte all'altra, come un enorme
coccodrillo bianco che scodinzola.
Una brutta mamma inglese, bionda
rubizza e traccagnotta, con un prendisole troppo corto che le sale
continuamente su verso le mutande, ha in braccio un bruttissimo
bambino di pochi mesi (sì, esistono anche i bambini brutti), gonfio
e urlante.
Una bimba con un vestitino a fiori fa i
capricci sdraiandosi per terra. Ogni tanto, come fanno i bambini, si
dimentica di piangere perché si è incantata a guardare qualcosa. Il
padre, più giovane di me, una cascata di riccioli biondi su una
simpatica faccia barbuta, le parla con calma, a bassa voce, mentre
prende dei biscotti da uno zaino con su stampato il logo degli AC/DC.
Io scrivo; tanti leggono, su carta o su
iPad o su Kindle. La mia preferita è una ragazza dai grandi occhi
grigioverdi, capelli lunghi biondo-cenere; non carinissima,
soprattutto la bocca, troppo grande e troppo larga per il visino
tondo; sta di fronte a me, seduta a terra, a gambe incrociate,
immersa in un libro di Virgina Woolf. Dopo un po' leggo anche il
titolo: “Orlando”, uno dei miei favoriti.
È talmente assorta che resta lì
mentre tutti intorno a lei vanno verso l'imbarco. All'improvviso si
riscuote e si guarda intorno, quasi smarrita.
(Conosco quella sensazione: il ritorno
alla realtà; dal mondo scritto al mondo non scritto, come diceva
Calvino; quasi un parto).
(C'è anche una morettina, italiana,
che legge “Le notti bianche”).
Al centro del gate, un branco di
trolley con le maniglie tirate su, come fenicotteri alla pastura.
Joys and pains of being overzealous.
Telling outfits.
Età stimata: fra i 35 e i 40.
Camicia bianca, aderente, con colletto
a due bottoni e orli neri, aperta sui pettorali. Grossa cinta rossa,
blu e verde. Jeans aderenti color kaki. Scarpe da tennis fighette.
Capello rasato fino alla tempia. Occhiali da sole con montatura
sottile dorata. Orecchino a sinistra, orologione quadrato, anello al
mignolo sinistro, braccialetto d'argento al polso destro, piercing
sul lato della narice.
Modello tamarro sofisticato.
L'aereo mi mette sonno.
Però, per motivi di natura
essenzialmente anatomica (lunghezza dei miei femori non compatibile
con quello che le compagnie aeree chiamano “leg room”), posso
dormire soltanto in due posizioni: o con le gambe di traverso nel
corridoio, se ho il posto sul corridoio, mettendo però a repentaglio
i miei stinchi, nonché l'incolumità di passeggeri, hostess e
steward; oppure in posizione fetale, con le gambe rannicchiate
davanti a me, puntate sul sedile davanti, un gomito contro il
ginocchio e la testa appoggiata alla mano. Quest'ultima posizione è
particolarmente scomoda se ho appena mangiato, per ovvi motivi di
compressione dei visceri.
Metteteci anche che, sempre per
dimensioni anatomiche, la mia testa di solito arriva parecchio al di
sopra dei poggiatesta, che quindi vanno a insistere proprio sulle
vertebre cervicali.
Chicca finale, l'aria condizionata che
mi dà un'insopportabile senso di secchezza delle fauci (come
recitano i bugiardini delle medicine) e della pelle, soprattutto i
palmi delle mani.
Insomma, decisamente non sono fatto per
volare.
Chissà se poi il mio amico Marco ha
fatto pace con Paolo Nori. All'aeroporto ho trovato un suo libretto,
che poi è un opuscoletto di una settantina di pagine, con la
trascrizione di due conferenze.
L'ho letto nelle due ore e rotti del
volo. Gradevole, leggero. Non mi ha lasciato quasi niente.
Da due giorni tento di scrivere una
poesia di cui ho solo il primo verso e mezzo: “Non è altro l'amore
se non questo / eterno ritorno...”. Mi sa che getto la spugna.
(Lei – la poesia – continuerà a
bussare alla porta. Io non rispondo).
L'autista del taxi è un simpatico
donnone grosso come un armadio, che parla con un tremendo,
sincopatissimo accento nel quale fatico a segmentare le parole. Durante il tragitto, ascolta qualcosa
alla radio, che poi – sentendo nominare Valentino Rossi – capisco
essere la cronaca del gran premio di motociclismo. Ogni tanto alza il
volume, impreca a bassa voce e lo riabbassa. L'unico giornale che ha
in auto è una rivista di Formula 1.
Il senso di nausea, cominciato in
aereo, peggiora in taxi. Il panino al prosciutto si aggira da qualche
parte intorno alla bocca dello stomaco. Non aiuta l'aria fredda a
manetta, né la guida a sinistra, che mi dà sempre un sottile senso
di disagio.
Quello che noto quando vengo in Gran
Bretagna è che le città inglesi si presentano con una sorta –
come dire? – di medietas.
Mancano di quei picchi di bellezza – e di bruttezza – delle città
italiane. I nostri centri storici meravigliosi, intervallati da
orrendi palazzi da speculazione edilizia, o circondati da opprimenti
dormitori in cemento.
Qui si percepisce
la superficie lisa, ma viva, dell'esistenza quotidiana. L'ordine, la
cura. Manca – anche nelle case private – quello sfoggio di
eleganza di tante case italiane. La moquette non è sempre
immacolata, i mobili spesso difettano di gusto. Però i giardini sono
ben tenuti, le strade pulite. A noi italiani può sembrare tutto
grigio, spento, anonimo, persino deprimente; ma le facciate di
mattoni rosso-neri, i segni dell'edera che si arrampica
sull'intonaco, la maniglia resa lucida da anni di uso, mi
trasmettono, in qualche strano modo, un senso di tenerezza.
Guardare negli
occhi una persona e pensare: “Ah, ecco che cos'era quel senso di
vuoto proprio al centro del petto. Mi mancava un pezzettino di anima.
Eccolo qui, l'ho ritrovato”.
Tagliatelle alla
bolognese (taliatèle balanìììììz): tagliatelle cotte
quasi decentemente, sugo più che passabile.
Tiramisù:
accettabile.
Considerato che
siamo in Inghilterra, è andata bene.
(Lo so, lo so: non
si dovrebbe mai mangiare cibo italiano all'estero. Ma stasera mi
sentivo fortunato).
Comunque lo chef, tale Jaimie, pare sia uno di quei cuochi à la page, che scrivono libri e vanno in TV.
Comunque lo chef, tale Jaimie, pare sia uno di quei cuochi à la page, che scrivono libri e vanno in TV.
4 commenti:
pure belloccio, lo chef, :D
Hai colto bene lo spirito dell'Inghilterra provinciale, secondo me.
Chissà se poi il mio amico Marco ha fatto pace con Paolo Nori.
Sono io? Con lui, come diarista, sì… come scrittore, proprio no, ma ormai non leggo un libro suo da anni?
Ciao!
@Marco, sì, sei tu ;-)
per me, invece, è il primo libro suo che leggo
"Mi sa che getto la spugna." se finisci la poesia, mi sembra un buon verso finale.
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