“Pesca sportiva”.
Un rettangolo di acque verdi e trasparenti, incassato fra due pareti a picco nella Val Casana, con al centro un'isoletta artificiale di ninfee e oleandri. Moglie, suocera e cognati pescano appassionatamente. I bambini strillano eccitati ogni volta che qualcuno tira su una trota. Io guardo le sagome scure dei pesci aggirarsi pigramente nei cinquanta o sessanta centimentri verticali che costituiscono il loro universo. Le scaglie gettano riflessi azzurri sotto il sole.
Mi avventuro in un esperimento mentale.
Ho le branchie, sono veloce, lucido e freddo. Il mio cielo è una lastra smerigliata, fatta di chiazze calde e fredde. Ogni tanto, vi si proiettano ombre e luci.
Un guizzo: cibo? Il boccone. La trafittura nella gola.
Poi lo strappo: infrangere il cielo, luce che acceca, aria secca che mozza il respiro. Contorcersi senza trovare la spinta familiare dell'acqua; appeso, trascinato sempre più in alto, nel vuoto.
L'agonia lenta fra pareti di plastica scolorita, in poca acqua sporca e soffocante, in mezzo ai cadaveri dei miei simili.
Poi il taglio gelido, le viscere che si rovesciano. Il buio.
(Pensavo di detestare la caccia, ma questo è persino peggio).
Sopra quella che un tempo doveva essere una vasca di riproduzione, e che ora è un composto semisolido di foglie marce, aghi di pino, alghe e muschio, volano libellule sottilissime, di un blu quasi fosforescente.
Sotto il pelo dell'acqua, immobili, perfettamente mimetizzate, stanno le rane. Affiorano soltanto il muso e gli occhi globulari, che comunque non si distinguerebbero dal putridume circostante, se non fosse che ogni tanto qualcuna scatta, per catturare un insetto di passaggio.
CRROCC... CRROCC... CRROCC...
Nel silenzio della notte, un tarlo rode il legno dello stipite.
Girano, in gran numero, grossi scarabei verdi, tozzi e squadrati, lucidi come smeraldi. Esattamente identici a quelli degli antichi amuleti egizi. Hanno un volo goffo e rumoroso, che si annuncia a gran distanza; atterrano pesantemente, quasi con il sollievo di aver ripreso contatto con il terreno. Insomma, danno l'impressione di non essere esattamente disegnati per volare.
"Lucc, signorino. Nau de uoter is red. Nau is grinn. Nau is parpol. Nau is red eghen. Uott color is dis? Braaavo, signorino!".
(Tutte le sante sere, davanti alla piscina illuminata.)
FRRRRUMM.
Passeri che decollano dal prato, come minuscoli jet supersonici.
Mi accorgo che queste note trascurano i paesaggi, le vette, i larghi orizzonti, per tenere lo sguardo basso, vicino ai dettagli.
Durante l'escursione in gommone, ignoravo rupi e salici e notavo piuttosto ciottoli, giri di corrente, ciuffi d'erba, pozze d'acqua ferma.
“La superficie delle cose è inesauribile”.
Gara di schizzi sul fiume.
Lorenzo: “Mamma, puei tati mi hanno ppalato, ma pel foltuna io non tono muolito!”
Un colibrì, insiste la nipotina. No, è un grosso insetto, forse una farfalla*, con due lunghe antenne e una proboscide ancora più lunga, che rimane sospeso in aria, sbattendo freneticamente le ali, per succhiare tutti i gerani, uno ad uno.
Continua ad affascinarmi il volo delle rondini, che non avevo mai avuto modo di osservare così da vicino.
Se io dovessi immaginarmi di volare, penserei a uno scivolamento continuo, una planata. Invece i loro movimenti sono irregolari, fatti di brusche accelerazioni e decelerazioni, con continui, improvvisi cambi di direzione e di altezza. Sembra quasi che l'aria sia un elemento solido, sul quale possono fare pressione e attrito a loro piacimento.
Confesso: non amo i cani. Ma neanche mi danno fastidio. Diciamo che, finché ognuno sta al suo posto, andiamo d'accordo. Peggy, ad esempio, la dalmata: educata, tranquilla, direi quasi signorile, gira per il prato senza dare noia a nessuno.
Ecco, il problema è quando si presenta una come Luna, il cucciolo di labrador. Simpatica, tenerona, come no. Però, dopo che ha masticato le pinne della nipotina grande; bucato il pallone nuovo di Lorenzo; dopo che ci è entrata due volte in casa, scorrazzando, abbaiando e nascondendosi sotto il letto, da dove ci è voluta la mano di Dio per tirarla fuori. Tutto ciò senza che il padrone muovesse un dito. Ecco, dopo tutto ciò, quando salta praticamente addosso (per giocare, per carità) alla nipotina piccola, uno scricciolino di nemmeno tre anni, dopo che lei comincia a strillare terrorizzata, quasi cadendo in piscina per scappare via; ecco, a questo punto a Luna un bel ruzzolone di un paio di metri non glielo leva nessuno.
E voglio pure vedere.
I Monti Sibillini ci salutano con una bufera. La becchiamo sul
Pian Grande di Castelluccio di Norcia, dove eravamo andati con il progetto, fra gli altri, di un'escursione a cavallo. Gran pianti delle nipotine per l'occasione mancata.
Si fa in tempo per un picnic a base di pane umbro sciapo, formaggio e prosciutto locali, salsicce secche. Per il mio stomaco meridionale, peggio del cemento armato.
Passa scalpicciando un enorme gregge di pecore, un pastore, due cani neri e torvi, un ariete dagli enormi testicoli. Qualche tiro con il pallone, attenti ad evitare le cacche di cavallo che troneggiano in giro per il prato. Poi le nuvole passano dal bianco, al grigio, al nero, si scatena il vento, comincia la pioggia.
A mezza costa sulla montagna, il gregge è riunito in un grande cerchio bianco e brulicante.
(Nella foto: paesaggio con cognato; Castelluccio, prima della tempesta)