Claudio Sessa, Le età del jazz. I contemporanei, Il Saggiatore 2009 (252 pp., 23 €)
Vabbè, "il jazz è morto", lo dicono tutti, da almeno trent'anni. Tanto che nessuno più pensa di chiedersi se è vero. E allora è bene che ci abbia pensato Sessa, giornalista e critico di lungo corso, ben noto agli appassionati di jazz.
Ed è anche significativo che, per rileggere "le età del jazz", Sessa sia partito dalla contemporaneità: altro segno che, forse forse, il jazz qualcosa da dire ce l'ha ancora.
Il territorio della "contemporaneità" parte, per Sessa, da metà anni Ottanta (ma con frequenti diramazioni nei decenni precedenti): una scelta del tutto condivisibile, dato che comincia allora quella (apparente) frenata nella rapidissima evoluzione che fino agli anni Settanta aveva caratterizzato questa musica.
A partire da quel punto, Sessa cerca di fare quel che nessuno, a mia notizia, aveva ancora tentato: non una semplice cronaca di quel che c'è o non c'è, e nemmeno una monografia su un singolo artista o su una particolare tendenza, bensì una mappa che individui gli snodi, i punti comuni, le linee di forza che hanno guidato il jazz degli ultimi venti-venticinque anni.
Ecco allora il superamento della dicotomia Stati Uniti-Europa, l'emergere delle particolarità locali insieme alla / contro la globalizzazione (con un acuto paragrafo sul jazz italiano degli anni Ottanta e Novanta), il neoclassicismo, il camerismo, l'uso dell'elettronica, fino a quegli artisti che hanno cercato di ripensare radicalmente forme e narrazioni del jazz, e fino ad arrivare alle soglie della post-modernità.
Un punto forte del libro è il costante riferimento a dischi e brani, spesso dimenticati o poco noti, che permettono di radicare l'analisi in corpore vivo. In oltre duecento esempi musicali, sfilano i nomi di Steve Coleman, Tim Berne, Ellery Eskelin, Myra Melford, Dave Douglas, Don Byron, Uri Caine, Nguyen Le, John Surman, John Zorn, Bill Frisell, i Bad Plus, Brad Mehldau, Pietro Tonolo, Giovanni Mazzarino, Giovanni Falzone, Stefano Maltese, John Carter, Wynton Marsalis, Joe Lovano, Bobby Previte, Henry Threadgill, Butch Morris e infiniti altri.
Insomma: il jazz è vivo, e intende restarlo a lungo.
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25 minuti fa
6 commenti:
in che senso, in che senso dicevano che il jazz era morto ? è possibile spiegarlo in due frasi ad un'ignorante come me ?
da cucciolo mi addormentavo con la voce di Luis Armstrong mentre i grandi festeggiavano..e questa frase, per fortuna, non l'ho mai sentita..
ma, come avrai capito, non ho mai letto delle critiche musicali :-)
Non "lo dicevano": lo dicono. Da almeno 30 anni.
Dicono che nel jazz non è successo niente di nuovo dalla fine degli anni '60, che questa musica ormai ripete se stessa e si è ridotta a un giochetto per pochi iniziati, senza più rilevanza né contatto con la contemporaneità.
Come avrai capito, per me è tutto falso.
Concordo pienamente. Inoltre se il jazz è morto, la classica ed il rock non mi pare si sentano troppo bene.....Più sottilmente le mutazioni non sono più cosi' esplicite e radicali ma corrono sottotraccia, per chi le sa vedere e cercare. Se il libro di Sessa fosse un audiolibro sarebbe un audio testo imperdibile e di sicuro riferimento.
Infatti è un peccato non poter ascoltare i brani, anche perché molti fanno riferimento a dischi piuttosto difficili da reperire.
Però capisco che sicuramente c'erano problemi di diritti d'autore non facili da risolvere.
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