mercoledì 22 ottobre 2008

Giovanni Allevi, autocritica


Mi sono ricordato di aver recensito, qualche anno fa, un disco di Allevi. Se non ricordo male era "No Concept", del 2005. Era prima dell'esplosione del fenomeno-Allevi alla sua massima magnitudo: lo Schoenberg di Ascoli Piceno era già moderatamente famoso, ma non un fenomeno di massa.
Venendo al dunque, la mia recensione era cautamente positiva. Non ho sottomano il testo, ma se la memoria non mi tradisce dicevo che il disco tutto sommato era gradevole, che c'era qualche scivolata nel kitsch, ma che il ricciolotto nel complesso se la sgamava. Facevo anche qualche considerazione sul suo aspetto da zazzerone della porta accanto e su come potesse aver influito sul suo già incipiente successo.
E allora, mi rimangerei il giudizio? No, questo no.
Però vedere Allevi categorizzato come "pianista jazz" (quando col jazz non c'entra una mazza), accostato a Keith Jarrett (ma per carità...), incensato (e auto-incensato) come genio, invitato su tutti i palcoscenici manco fosse il novello Mozart... beh, dopo un po' rompe.
Per non parlare delle banalità come "l'arte deve emozionare, e lui emoziona", o come "ha riavvicinato la musica contemporanea al grande pubblico".
Insomma: c'è un limite a tutto.

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