dalla raccolta inedita “Sasso, carta e forbici” (2017)
Carta
II
Ti ho trovata morta sulle scale.
Era ferragosto, nella fretta di vedermi
sei inciampata nell'ultimo scalino
e cadendo all'indietro così
come sei nata, in un salto di luce
sei andata via, con i vicini accanto
mormorando sul tuo corpo mezzo rotto.
È stata l'ultima volta che ho pianto,
poi c'è stato un muro, specie quando
ti ho vista rialzarti dal marmo
della camera ardente venirmi contro
a dire: sei tu che stai sognando
la mia morte; così te ne sei tornata
sdraiata a dormire. Fu dopo quella notte
che tu attraversasti il portone
ogni maledetto giorno: a casa ti vedevo
salire le scale con me, mentre raccontavi
la tua giornata all'ospedale, tra un paziente
e una palpata del primario, e io geloso,
col tuo bisturi gli avrei tagliato via tutto;
ma tu mi frenavi, dicevi: è solo lavoro,
non è niente, torniamo a casa, amore,
è per il bene di nostro figlio. Di quale figlio
tu parlassi non mi era proprio chiaro,
ma lì per lì feci finta di avercelo un bambino
per non deluderti, almeno da morta. Sono passati
dieci anni e ogni giorno facciamo quelle scale,
questa volta senza inciampare, e ogni giorno
provo sempre a fare finta di non vedere, chissà
uno scalino, o il passamano per venirmene con te
a passeggiare là in alto, dove forse abbiamo un figlio.
* * *
Una spora da Cernobil
I
Sassi, fibre, forze della terra,
anni che non sono più uomini
vicini a come si perde un volto.
Sono stati qui, erano tanti,
abitavano stanze, senza sapere,
lavoravano a fare vita.
Ma ora è vita e non è mai, vita
ora che è qui, a lavorare,
a far da sola,
sola il tempo e sola la solitaria
roccia che nell'acqua piange,
e piange tutti i ricordi.
I cassonetti sono caduti, colonie
di insetti e bisce, cicorie
qui a fare casa e spazio;
e il manto stradale che era i semafori
accesi per sempre e la luna
come a dividere ancora,
come si andasse da un'altra parte,
da un'altra parte a cercare facce
nuove, per poter restare.
Ma il segnale dice che non si può,
no, dice che la terra è morta
come i morti dicono cos'era
essere tempo, senza mai vivere.
E gli aerei che pure passano sopra
vedono una croce
al di là della chiesa e ombre
piene muovere il prato.
(Che sarebbero uomini e invece sassi,
donne coi loro figli e sono pietre,
fibre come pietre e forze della terra).
* * *
Forbici
I
Il gioco era chiedere, dire montagne,
fare onde coi passi, chiari sulle acque
- e le onde respingevano future -
ma fate disegni calmi, diceva la scuola,
più calmi disegnate le onde: così uno
diventava bambino, con l'acqua
sporca, come il corpo addosso,
con la poca acqua caduta dai sogni
che ora è corpo e cenere, o fuoco,
o è corpo che si chiede esistere,
o resistere se è gioco quel sasso
a tirare, o a esser tirato, e creare
un disegno per bucare e dire carta,
o per tagliare con le forbici
a mani piene, pietre immaginarie.
(E questo gioco era montagne
alte, immaginarie erano vite
così piene che si era bambini
da soli, a disegnare le onde).
Non che sia abitare questo
prima di vivere, non che sia
più gioco o vanità la foresta
che si placa con gli anni, o uno
a sé davanti che gioca, e perde,
o solamente si trova schierato.
XI
Ero
nato, ne sono sicuro. Ma non
nei
fogli, più dentro l'acqua genitale
di
mia madre, quella innaturale,
e
mi ha fatto così, come la neve,
che
cade solo se accolta.
Ero
nato, in un Nord del Sud,
o
in Sud del Nord, di sicuro al centro
dopo
l'estate, quando Ottobre era caldo
e
il magnete della terra premeva
verso
il caldo destinale, del suo globo.
E
così fui nato, ma senza prospettiva
di
diventare un bel divoratore
di
piante, di maiali, di urine bianche
trasformate.
È così che sono nato,
dentro
uno stivale, dalla pelle bucata,
e
sono nato povero, ma con forma regale,
mi
sono comprato una fede, una sposa,
una
frase che è mia. E dentro la mia città
ho
creduto le città come gabbie, come nidi
ma
non solo di gabbie, anche di aurore.
Ed
è anche per questo che sono nato,
per
veder scritto dove è niente, per sapere
se
quel niente può essere fatto, come un volto
che
dice sono Dio, ma è solo il volto
di
un io allo specchio. E così me ne vado
nello
specchio di tutti i volti, e nelle montagne
che
sono solo mie, e nei venti e nei mari,
e
nei fiumi, quelli miei e di tutti, perché è lì
che
dovremo annegare. È così che si nasce
e
si muore, come insieme, uniti
allo
stare del mondo. Allora nasceremo
di
nuovo forse, nasceremo più forti, più chiari,
e
leggeremo altrove i nostri volti, scolpiti,
e
le nostre mani, magari scriveranno meno,
e
forse faremo grandi i cieli
di
lotte, e grandi sorrisi sì, sicuro
qualcosa
faremo. Perché si nasce
per
questo, per fare. E io ho fatto presto,
ho
scritto questa poesia.
Antonio
Bux (Foggia, 1982) ha pubblicato vari libri, sia in italiano, tra i
quali Trilogia dello zero (finalista premio Lorenzo Montano,
vincitore premio Minturnae), Kevlar (vincitore premio
Alinari), Naturario (selezione premio Viareggio), che in
spagnolo (23 - fragmentos de alguien, El hombre comido,
Saga familiar de un lobo estepario). Suoi lavori sono stati
tradotti in varie lingue e antologizzati in opere collettive come
InVerse: Italian poets in translation, a cura della John Cabot
University. Ha tradotto numerosi autori di lingua spagnola, su tutti
Leopoldo María Panero. Ha fondato e dirige il blog Disgrafie,
oltre che una collana per la casa editrice RPlibri e due collane per
le Marco Saya Edizioni.