sabato 17 marzo 2018

consigli di lettura



Dunque, è uscito questo libro, che non porta in copertina la mia firma, ma che sento anche un po' mio, perché ho contribuito a farlo venire alla luce.
Si chiama Underdog. L'arte dello sfavorito, e l'autore è Simone Gubbiotti.
Simone, oltre che un bravissimo chitarrista jazz (ascoltare per credere), è anche un caro amico, e come tale mi ha chiesto di aiutarlo a dar forma a questa storia: che racconta la sua maturazione musicale e umana, ma soprattutto racconta di come la musica possa essere un mezzo potentissimo per trovare l'energia necessaria a superare i momenti più neri della vita.
Io, fossi in voi, lo leggerei. Costa 14 euri e si può ordinare sul sito dell'editore (Art in Life, che è una costola della Fondazione Nicola Ghiuselev).
Qui di seguito, un brano tratto dal prologo.
Buona lettura.

* * *

Underdog, nel gergo sportivo statunitense, è lo sfavorito.
È quella squadra, o quell’atleta, che vengono dati per sconfitti già nel pronostico.
Il pronostico viene chiamato anche “predizione” (buffa parola, che traduce alla lettera l’inglese prediction): un termine che assume un senso quasi mistico, ma che a me sa tanto di gufata. Spesso, però, la predizione viene ribaltata: a sorpresa, il favorito perde e lo sfavorito vince. In inglese lo chiamano upset (che vuol anche dire “arrabbiato”, forse perché chi ha perso la scommessa, comprensibilmente, s’incazza).
Se torno indietro alle mie vite precedenti (ne ho avuta più di una e se avrete la pazienza di continuare a leggere, ve ne spiegherò il perché) e provo a ripensare a coloro che ho incontrato sulla mia strada, mi rendo conto di essere stato circondato da persone che mi hanno sempre detto e ripetuto che non si poteva fare. Che era impossibile.
Quando ho iniziato a mettere insieme il primo progetto musicale, passavo a prendere tutti e li riaccompagnavo, perché andavamo a fare le prove lontano. Io ci mettevo la macchina, la benzina, scrivevo i pezzi e organizzavo i primi, rudimentali arrangiamenti. Una sera il bassista sbottò e se ne uscì dicendo: «… ma chissà dove li suoneremo mai, tutti questi pezzi inutili!».
Eccola qui, la predizione; il gruppo, manco a dirlo, abortì.
Quando progettavo di andare a studiare negli Stati Uniti, una mia cara amica mi rise in faccia: troppo lontano quel continente, mi conveniva stare con i piedi per terra! Qualche anno dopo, ho avuto suo figlio come studente di chitarra.
Certo, se da ragazzo mi avessero detto che avrei fatto il musicista, ci avrei riso sopra per una settimana. Non era nelle mie stelle e non ci avevo pensato neanche lontanamente, mai. Se mi avessero detto che sarei diventato un calciatore, o uno sportivo, ecco, quello sì, ma musicista…
In fondo, non ci credevo nemmeno quando, a ventiquattro anni, mi presentai ai seminari del Berklee College of Music, a Umbria Jazz, con la mia chitarra Alhambra classica da due soldi, senza sapere nulla (o quasi) di jazz.
Ancora di meno ci credevo dopo il concerto (il mio primo concerto jazz!), quello di Ornette Coleman, quando uscii dal teatro senza averci capito nulla, ma fermamente intenzionato a capire, a tutti i costi.
Sembra che la gente provi un piacere particolare quando ti informa che, secondo il parere proprio, il tuo sogno è impossibile da realizzare; che non ce la puoi proprio fare...
Confesso che ci ho sofferto molto, in principio; ma poi tutto ciò si è trasformato in carburante che fa andare avanti il mio motore. Ancora oggi, quando parlo delle mie collaborazioni musicali, molti credono che stia raccontando delle frottole e pensano che non sia possibile e quando infine si rendono
conto che è tutto vero, si chiedono come diavolo abbia fatto.
Capita anche che, dopo i concerti, vengano a dirmi che non si aspettavano quel livello musicale, che non immaginavano suonassi così bene. Sono sicuro che lo intendano come un complimento, ma per me quelle parole derivano da un palese vizio di forma, da un pregiudizio.
Un sacco di volte, direi quasi sempre, sono stato lo sfavorito, ma io amo questa definizione; sento che mi calza a pennello, poiché mi permette, tra l’altro, di restare sotto traccia, arrivare a luci spente e sorprendere!
Già, appunto: sorprendere, poiché cogliere l’espressione che si disegna su certe facce, giuro, non ha prezzo. Quando sei lo sfavorito, puoi liberarti da qualunque aspettativa, persino da quelle che nutri tu stesso: non hai nulla da perdere, né, tanto meno, da dimostrare, e questa è una combinazione esplosiva.
Essere sfavoriti è un’arte sottile! Se non sai gestirla, se ti fai abbattere, diventa l’arte della sconfitta, ma se davvero credi nei tuoi mezzi può diventare uno stimolo enorme, una delle più grandi motivazioni. Io ho dovuto imparare a farlo, anzi lo sto ancora imparando.
Ecco, questo libro parla dell’arte di essere lo sfavorito. C’è la musica, c’è lo sport, ma non è solo quello: c’è la vita, che può essere la mia, ma anche quella di tanti che ho incontrato e che ancora mi sono vicini. A tutti loro, e a tutti voi che mi leggete, vorrei dire questo: quando si gioca da sfavoriti, ricordatevi che le vostre quote sono quelle più alte. E allora, quando arriverete e sorprenderete tutti, sarete voi quelli che si beccheranno il gruzzolo più grosso.
Soprattutto, questo libro parla della resilienza, dell’abilità di trasformare le brutte esperienze in opportunità; di ribaltare le carte in tavola.
Io sono tante cose: sono uno, nessuno e centomila. Sono tutte le emozioni, tutte le personalità, ma anche nessuna. Sono la mia musica e allo stesso tempo non lo sono.
Io sono soltanto io. Sono sfavorito, l’underdog.
Sono quello su cui non scommette nessuno, ma sono anche un resiliente, uno che non si arrende mai.
Uno duro a morire.

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